Il catalogo Netflix può da oggi vantare quella che forse è la serie migliore del 2017: She's Gotta Have It di Spike Lee, trasposizione seriale e modernizzata di uno dei suoi primi lungometraggi cinematografici. Se il tema è sempre uguale (come poteva essere altrimenti ?) e cioè quello della convivenza, specialmente interrazziale ma non necessariamente, non lo è il modo con cui Lee decide di mostrare oggi quegli stessi problemi. La modernità non è resa semplicemente inserendo nel racconto gli smartphone ed i computer, ma rendendo la narrazione veloce ed immediata come lo è il nostro mondo adesso: la serie è divisa in brevi scene come se fossero storie di Instagram ed ogni canzone della colonna sonora è citata mostrando su schermo la copertina dell'album da cui è stata tratta, come a voler suggerire una playlist di Spotify. Questo non è assolutamente cosa di poco conto se si pensa che Spike Lee è quello della visione approssimativa e superficiale del binomio videogiochi/violenza, espressa prima in Clockers e poi in Inside Man. Il cineasta afroamericano recupera quel suo modo unico di muovere la macchina da presa attorno ai personaggi che aveva recentemente superato a favore del movimento degli attori nella inquadratura, un cambio radicale che aveva trovato il suo massimo compimento in Chi-Raq.
C'è la satira dissacrante di Bamboozled, con il suo culmine nella scena conclusiva di derisione del maschio, ma anche l'impegno sociale e l'incitamento alla ribellione di Do the Right Thing. E se spesso Spike Lee non è riuscito a descrivere in maniera credibile il mondo femminile (vedasi Lei mi odia) questa volta a correre in suo aiuto c'è un team composto anche da sceneggiatrici di colore. She's Gotta Have It è talmente soddisfacente e coinvolgente nella sua vitalità che ci si chiede come mai Spike Lee ci abbia messo così tanto tempo ad aprirsi a questo mondo. Il regista afroamericano è celebre per il modo personale con cui costruisce la propria atmosfera e per questo la narrazione seriale sembra essere il suo ambiente naturale.
In America si è cominciato finalmente a parlare del razzismo che per decenni è stato parte essenziale del movimento femminista e delle sue rivendicazioni. Un esempio: per sostenere la libertà sul "proprio utero", le donne appartenenti alle oligarchie dei bianchi arrivarono persino a dare il loro consenso alle campagne di sterilizzazione forzata delle donne di colore. Quella che per le donne della classe dominante era una battaglia per il "controllo sulle nascite", per le minoranze era invece una imposizione per il "controllo della popolazione". Il movimento femminista americano è sempre stato un movimento guidato da donne benestanti e plasmato sulle esigenze delle stesse. Questo Spike Lee lo sa bene e non è forse un caso se il solo personaggio a non avere sfumature, ma ad essere davvero spregevole e senza tolleranza, sia proprio quello di una donna bianca.
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