I retroscena ed i dettagli della lavorazione di Liberami, documentario di Federica di Giacomo vincitrice come miglior film nella Sezione Orizzonti al Festival di Venezia 2016, nel lungo incontro didattico della stessa autrice con gli studenti della sede palermitana del Centro Sperimentale di Cinematografia. Un'occasione di confronto tra le perplessità e i dubbi degli studenti e le motivazioni di una regista che sembra avere le idee chiare per formazione culturale e inclinazioni artistiche. Più che una valutazione personale sul film che ha trovato molti consensi e suscitato qualche inevitabile disappunto, più che le molteplici letture di un film che per tema, approccio e ambientazione si presta alle critiche più disparate, in questo caso conta il confronto diretto con chi ci ha messo la faccia ed ha investito tempo e denaro per portare avanti un'idea di cinema personale e dalla forte impronta sociale: l'esempio paradigmatico di un soggetto che esce dal clichè del cinema horror e dal pregiudizio dell'opinione generale per diventare specchio del nostro tempo, delle sue fragilità, di una vocazione alla spiritualità che reclama il suo disperato bisogno d'aiuto; ma anche e soprattutto una lezione di metodo, su come nasca e si sviluppi un'idea di cinema che faccia parlare la realtà con il linguaggio sgrammaticato e le azioni scomposte dei suoi protagonisti, sorridendo delle loro imperfezioni, comprendendo il loro disagio. Nelle parole della stessa regista "Una incursione informale sul tema della giusta distanza nel documentario di creazione attraverso l’analisi dei diversi momenti della scrittura documentaria, dal soggetto, ai sopralluoghi, alle scelte di regia, al montaggio."
Le vicissitudini familiari e il disagio spirituale di alcune persone che, nella Sicilia dei nostri giorni, frequentano la parrocchia di padre Carmelo: frate esorcista che celebra messa e pratica riti collettivi di liberazione dal Demonio e dai suoi emissari. Alla crescente domanda di un rito che pensavamo relegato all'oscurantismo del Medioevo o all'immaginario dei film di genere, la Chiesa cattolica risponde autorizzando sempre più preti, istituendo specifici corsi di formazione internazionali ed affiancando la medicina uffciale nell'approccio ad un malessere che non ha trovato giovamento nelle sue terapie.
Antropologa di formazione e documentarista per vocazione, la spezina Federica Di Giacomo al suo terzo lavoro cinematografico, riconferma un interesse sincero nel decifrare una realtà sociale dove le paure ed i bisogni del quotidiano trovano una estemporanea declinazione in un teatro dell'assurdo e del grottesco che non manca di stupirci con la profonda umanità dei suoi personaggi e la straordinaria aderenza alla verità ambientale dello spaccato di provincia.
Lontana, per sua stessa ammissione, dai codici eccessivamente rigidi e ideologici di un documentarismo d'osservazione con ambizioni da cinema verité e consapevole dell'influenza del mezzo nella perturbazione del fenomeno che vorrebbe documentare con l'incontrastato e inopinabile potere del montaggio nella autoreferenziale manipolazione del materiale filmato, la Di Giacomo parte dall'aumento statistico della domanda di aiuto dagli attacchi del maligno per manifestare il suo chiaro interesse per la documentazione delle dipendenze quale ambito liminare tra i tentennamenti della ragione e le debolezze dell'emotività e che rappresenta in fin dei conti una sorta di diffusa e multiforme patologia della modernità. Preso atto dell'assenza di documenti filmici sull'argomento (tranne quelli televisivi) e dell'affinità invece con il fenomeno etno-antropologico delle tarantate pugliesi, diventa fondamentale l'importanza dell'influenza dell'immaginario horror, tanto nella fenomenologia della possessione nella realtà del disagio sociale (i posseduti ne ricalcano mimica e fraseologia) quanto nell'approccio dello stesso documentarista, che si dichiara non solo non cattolica, ma addirittura anticlericale, pur affermando che il rituale ufficiale seguirebbe un rigoroso protocollo multidisciplinare con l'affiancamento di una consulenza psichiatrica attraverso l'ausilio di scienziati 'credenti' che autorizzano un approccio alternativo a quello razionalista della medicina ufficiale (sebbene nulla di tutto questo traspaia nella pragmatica molto artigianale degli esorcisti siciliani ed il film si sia attirato le critiche di François-Marie Dermine, esorcista e presidente nazionale del Gris, il Gruppo di Ricerca e di Informazione Socio-religiosa tra gli organizzatori del corso sull’esorcismo e la preghiera di liberazione svolto annualmente all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma).
Una lavorazione durata tre anni che partiva come documentario sul lavoro dei preti per allargarsi alla vita dei suoi disturbati protagonisti, con uno studio sul campo e la frequentazione di parrocchie e parrocchiani, ma anche con una valutazione dello spaccato sociale e personale che cerca di stabilire una terzietà del punto di vista (cita Wiseman, la sua coralità e l'angosciosa pregnanza di una drammaturgia della sofferenza e del dolore) con un 'ribaltamento del punto di vista' che veda nella manifestazione demoniaca il simbolo di una problematica umana più complessa e sfaccettata: tra voyerismo, indagine sul significato del paranormale, approccio critico da un punto di vista psicologico sul posseduto e sul suo ambiente familiare (con tutti i rischi del caso), ma anche una prospettiva eterodossa che si affida all'istinto ed alle suggestioni di una realtà umana non necessariamente riducibile alle categorie di una classificazione da manuale DSM.
Ulteriore difficoltà, a riconferma della contraddittorietà di un fenomeno che lega così visceralmente la Chiesa e i suoi fedeli più bisognosi poi, pure il contrapporsi tra l'esigenza di discrezione dell'istituzione cattolica e il desiderio divulgativo dei suoi attivisti sul campo, con le loro difficoltà pratiche ma anche con la loro necessità di trasmettere la reale esistenza di un Demonio che non sarà sempre presente ma neppure sempre assente nelle vicende umane: un mestiere a tutti gli effetti, faticoso e stressante come potrebbe esserlo quello di chi è al front end di uno sportello di assitenza sociale (e di ascolto psicologico) molto sui generis.
Da un punto di vista tecnico poi, sono rilevanti le modifiche in corso dell'approccio estetico: dal piano fisso in campo medio del documentario d'osservazione di una connaturata ritualità (anche paradossale) della pratica esorcistica all'enfasi di una maggiore vicinanza umana ai personaggi con primi e primissimi piani che compensassero il rischio di una eccessiva freddezza entomologica. Il risultato è quello di una rappresentazione che alterni l'isterica teatralità dei consessi liturgici e la quieta normalità della vita domestica, con tanto di discrete e caute incursioni nell'ambiente familiare al fine di uscire fuori dal clichè dell'immaginario iconografico del fenomeno (limite costitutivo della suspance nei film di genere) e scendere nella drammatica realtà delle singole storie demistificandone il mistero e, perchè no, restituendone gli aspetti più involontariamente comici e sarcastici: diagnosi sulle cause del maligno intrise di sessismo, riferimenti ad un feticismo esoterico di oggetti infestati, invasate con smanie egocentrice, rituali di guppo animati da furore isterisco, esorcismi settimanali via telefono, etc. Non manca però, sottotraccia, nemmeno l'evidente disagio di situazioni borderline tra emarginazione familiare e una morbosa affettività filiale al limite del Complesso di Elettra.
Una produzione travagliata come per tutto il cinema indipendente di casa nostra ("Vinci caso mai...Venezia"): Autofinaziato per i primi 1,5 anni, 1 anno sabbatico di ristrettezze economiche occupato nella stesura delle scene di una obbligata docufiction, l'ultimo anno finanziato da una produttrice francese atea, le liberatorie chieste solo a posteriori, il cambio di un montatore con cui condividere lo spirito del film ed un gusto innato per il grottesco e la tragicommedia, l'uso del radiomicrofono per cogliere i commenti più disparati ed il flusso di coscienza dei singoli personaggi, l'uso della doppia camera per razionalizzare la gestione del lavoro tra approccio ambientale ed esigenze tecnico-produttive, non linearità del montaggio e della narrazione per evitare un punto di vista pregiudiziale che sottenda una qualsiasi volontà di denuncia di un'istituzione repressiva e che cerchi invece di trasmettere gli aspetti più viscerali, controversi e ambigui del fenomeno; anche il tentativo, poi escluso in fase di post produzione di inserire una serie di interviste poco funzionali per via della eccessiva eterogeneità del materiale filmato rispetto all'economia ed efficcacia del film (rigidità, logorrea, nevrosi o insincerità dei suoi personaggi). Nota di colore per la girandola di titoli scelti in corso d'opera per il film, a ricalcare un approccio che passa dalla sdrammatizzazione delle problematiche condizioni di lavorazione all'assunzione di responsabilità per i temi ed i protagonisti della storia: da 'La messa in scena' a 'Un diavolo per capello', da 'Liberami dal male' al...'Liberami' finale: quest'ultimo scelto per stabilire la giusta distanza tra l'osservatore e l'osservato, la cui più pressante richiesta è proprio quella di essere 'liberato'.
Tempi duri per i (poveri) diavoli siciliani.
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