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Venezia 2017. TotoLeone
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Venezia 74 volge al termine. In poche righe, proviamo a ragionare sulle opere e a capire quali chances possano avere in termine di Leone d’Oro.

Una famiglia: L’opera seconda di Sebastiano Riso è la vera delusione dell’anno. 120 inutili minuti di film che girano su stessi prima di arrivare a un finale da soap opera. Tecnicamente, una ripresa a 360° diventa per il regista un invito a vedere il mondo nella sua totalità ma per lo spettatore in occasione per rimarcargli quanto la sua storia sembri vecchia già dalla prima inquadratura. Dell’ennesima interpretazione sempre uguale della Ramazzotti potevamo anche fare a meno. Leone: 0%.

Human Flow: Non basta essere un apprezzato artista per fare un capolavoro. Non basta parlare di immigrazione nel mondo per commuovere. Non basta chiamarsi Ai Weiwei per non essere sbertucciato dalla stampa. Già dimenticato il suo lungo e prolisso documentario. Leone: 0%.

Downsizing: I lillipuziani di Payne sono già acqua passata. Al Lido nessuno ricorda di averli visti. Solo un’orda di scrittrici tedesche, da Rosamunde Pilcher a Inga Lingstrom, rivendica i diritti d’autore per uno dei finali più brutti visti quest’anno al Lido. Leone: 0%.

First Reformed: Che vuoi dire a Schrader? Che continui a fare film, nonostante questi non incontrino più i favori di un tempo. La chiave ora malickiana ora bressoniana della sua storia non è il difetto maggiore dell’opera, che prima di ogni cosa ha un grossissimo problema che risponde al nome di Amanda Seyfried. Si suggerisca all’attrice un mestiere alternativo. Leone: 0%.

Ex Libris: 196 minuti sulla biblioteca pubblica di New York. Ma anche no. Visto un Wiseman, li si è visti tutti. Il distributore italiano non vede l’ora di piazzarlo come evento in sala. Lo spettatore quella di disertarlo. Leone: 0%.

scena

Human Flow (2017): scena

 

Madre!: Darren Aronofsky ha spaccato il Lido e non solo. Ancora oggi a distanza di qualche giorno si discute della sua fatica, segno che forse qualcosa avrà detto o lasciato. Bisognerebbe capire cosa ne ha pensato la giuria e quali siano i pesi tra le major. Ricordiamo infatti che il film è prodotto dalla Paramount, lo stesso studio che ha offerto il film di apertura. Leone: 25%.

Suburbicon: La commedia grottesca diretta da Clooney meriterebbe di vedere salire tra i vincitori Julianne Moore. Ma premiare la Moore significherebbe aprire un vespaio: grande amica della presidentessa di giuria, ha lavorato con lei in I ragazzi stanno bene. Seppur artefice di grasse risate, l’opera sembra però lontana dalla zona premi.  Leone: 25%.

Charley Thompson: Andrew Haigh gira bene. Ma finora le sue storie sono state i suoi attori. Valeva per Weekend e per 45 anni. Vale anche per questo strano viaggio iniziatico che non sarebbe nulla se non fosse affidato alle mani e al volto del giovanissimo Charlie Plummer. Leone: 25%.

Mektoub, My Love: Canto Uno: Croce e delizia del festival, Kechiche al pari di Aronofsky ha spaccato la critica. Dalla sua ha però l’idea su cui si fonda tutto il suo progetto: la prima parte sembra soltanto un alibi per presentare il protagonista e il suo mondo. E chi può permettersi oggi di realizzare una presentazione di 180 minuti di luce, religione, natura e culi al vento? Leone: 25%.

The Third Murder: Composto. Se si pensa al cinema di Koreeda, il primo aggettivo che sovviene è composto. Non si discosta da tale linea il nuovo film, una riflessione sul funzionamento della giustizia travestita da legal thriller. Buoni gli attori e la regia. Da riposino quotidiano il risvolto degli eventi. Leone: 25%.

Foxtrot: Di tutti i premi possibili, il Leone è il più improbabile per il film di Samuel Maoz. Più per ragioni di opportunità che artistiche, ovviamente. Interessante nella struttura, paga lo scotto di essere passato durante i primi giorni della rassegna e di essere il primo film del regista dai tempi di Lebanon, premiato proprio a Venezia nel 2009. Leone: 25%.

Angels Wear White: Vivian Qu è alla ricerca di conferme. Si intuisce dal modo quasi occidentale con cui costruisce la sua storia e la connota di simboli. Vorrei ma non posso sembra essere il suo motto e dispiace ammettere che la sua storia di abusi dia risvolti sociali sa di stantio. Leone: 25%.

Sweet Country: Warwick Thornton dovrebbe ritornare al Lido con un suo documentario. Rimandiamo ai successivi anni il regista, che sa come tenere una macchina da presa o dove poggiare lo sguardo (ma anche come montare un’opera) ma che non è scevro dal giochino dei rimandi simbolici di cui sono vittima molti dei cineasti di quest’anno. Leone: 25%.

Shain Boumedine

Mektoub, My Love: Canto Uno (2017): Shain Boumedine

 

Ella & John: Il film americano di Paolo Virzì supera la prova del 9. Dalla sua ha l’interpretazione di due mostri sacri come Helen Mirren e Donald Sutherland, che da soli valgono il prezzo del biglietto. Ben accolto e sostenuto dalla stampa italiana, è lanciatissimo verso il palmares. Peccato che il distributore italiano ne abbia però piazzato l’uscita nelle sale a gennaio inoltrato, sperando nella Notte degli Oscar 2018. Leone: 50%.

Hannah: Andrea Pallaoro dimostra di saper costruire ottimi ritratti cinematografici. Non forse l’opera più narrativa del concorso di quest’anno ma sicuramente una delle più intriganti per l’uso che fa della camera prima e dei corpi, deviati e decadenti, eretti a simbolo di delitti mai espiati. Utile la metafora che Pallaoro costruisce intorno alla balena. Pretestuosa la scelta invece di affidarsi a Casa di bambole per i risvolti morali e la sottotrama legata alla pedofilia mai esplicitamente dichiarata. Leone: 50%.

The Shape of Water: La favola di Guillermo del Toro è per molti il film di apertura. Visto al secondo giorno, ha sorpreso per forza narrativa, tecnica realizzativa e componente artistica. Favola, si diceva. Purtroppo il genere spesso soccombe all’idea per cui a un festival debba necessariamente vincere il film impegnato. Leone: 50%.

The House by the Sea: Ancora migranti, ancora anziani coniugi che si suicidano, ancora buoni sentimenti e attacchi alla borghesia. Guédiguian si ripete all’infinito ma lo fanno anche Haneke, Loach e i Dardenne, premiati senza che nessuno batta ciglio. La storia poi lascia un messaggio di accoglienza e fratellanza che fa solo bene al cuore. Leone: 50%.

Charlotte Rampling

Hannah (2017): Charlotte Rampling

 

The Insult: Papabilissimo Leone d’Oro, il film ha dalla sua la chiave politicamente corretta che contraddistingue la sua sceneggiatura: tutti vittime e tutti carnefici. Per andare avanti, occorre dimenticare il passato e stringersi la mano. Giubilo per il messaggio di pace. Un po’ meno per il cinema. Leone: 75%.

Custody: La grande sorpresa di Venezia si chiama Xavier Legrand. Attore dalle capacità inespresse, Legrand segna il più interessante dei debutti dell’edizione del festival di quest’anno con una storia legata al dramma delle violenze domestiche e degli uxoricidi. Ottimi interpreti contribuiscono al risultato finale che sottolinea, qualora servisse, come sia vitale il cinema francese delle nuove leve. Leone: 75%.

Ammore e malavita: Forse meno elegante di Song ‘e Napule, il film dei fratelli Manetti ha dalla sua l’ottima accoglienza riservata da critica e pubblico. In un continuo rimando di giochi, ironie e prese in giro, i Manetti potrebbero fare il colpaccio qualora la giuria decida di premiare (finalmente) una commedia. Leone: 75%.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri: Per le stelle del daily e della stampa estera, è il Leone d’Oro, non ci sono dubbi. Ed è anche la Coppa Volpi a Frances McDormand, un’attrice che meriterebbe qualche riconoscimento in più per una carriera fatta di scelte non facili lontane dai riflettori del glamour. Leone: 75%.

Frances McDormand, Woody Harrelson

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017): Frances McDormand, Woody Harrelson

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(10 - Fine).

 

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