Sud. Centro nevralgico dell’universo. Che sia dell’Italia o di qualsiasi altra parte del mondo, il sud appartiene a quella dimensione territoriale altra che spesso viene raccontata dal cinema per la sua peculiarità. Se pensiamo al cinema italiano degli ultimi anni o ai prodotti italiani seriali che hanno fatto successo all’estero, ci aggiorniamo che gran parte delle storie sono ambientate da Roma in giù, come se il sud fosse ancora qualcosa di esotico e portatore di diversità caratteriale congenita. Lo sanno bene anche i cineasti italiani che, prendendosi sul serio o meno, abbiamo avuto modo di vedere in questi giorni a Venezia 74.
Partiamo ad esempio da Ammore e malavita, il film dei fratelli Manetti, accolto dagli applausi alla prima conferenza stampa. Tutti sanno che è ambientato a Napoli, che è un musical e che parla a suo modo di camorra. Quello che non si sa è invece che Ammore e malavita altro non è che una lunga disanima di un fenomeno tipicamente meridionale: la musica neomelodica. Erede diretta del canto popolare, la musica neomelodica accoglie tematiche come l’amore, la malavita, il tradimento, la famiglia e altre problematiche sociali, per evidenziare il riscatto o il dolore di un individuo. Connotata da un messaggio etico, più o meno condivisibile, la musica neomelodica negli ultimi anni è comparsa in opere come Indivisibili, Belluscone o Il cratere, presentato qualche giorno fa. Cercare di spiegare le ragioni di tale presa sulla popolazione meridionale è compito di sociologi e antropologi: noi ci limitiamo semmai a sottolineare come la musica neomelodica faccia da sfondo alla vita di tutti i giorni.
I Manetti, ricorrendo a una forma che inevitabilmente ricorda quella scelta da Roberta Torre per il film d’esordio Tano da morire e seguendo la scia del loro precedente Song ‘e Napule, scelgono di fare della musica neomelodica la colonna sonora della loro vicenda: non parliamo di semplice accompagnamento musicale ma di vere e proprie romanze che accompagnano l’azione, spiegano i personaggi o cambiano il corso delle vicende. Del resto, la struttura narrativa di Ammore e malavita è piuttosto semplice e, cinematograficamente, nota: un boss, grazie a un sosia, inscena la sua morte con la speranza di rifarsi una vita all’estero ma viene scoperto ed è costretto a correre ai ripari. A mettergli i bastoni tra le ruote caso vuole che sia una infermiera, che vedendolo in sala operatoria scatena il resto degli eventi.
In un crescendo di situazioni paradossali, i Manetti prendono in giro la storia del cinema e, in particolare, il genere thriller che, mescolandosi con l’azione, ha dato vita nel corso degli anni a una serie di prodotti di serie b. In tali opere(tte), lo spettatore si ritrova a sospendere la sua incredulità e ad accettare per vere situazioni al limite del razionale, sequenze al rallentatore di pallottole dalla direzione prevedibile o personaggi che entrano ed escono dal racconto senza nessun peso o approfondimento. Grazie alla musica e all’estetica del videoclip, si divertono a citare, rubare e rimodellare, scene famose o situazioni memorabili. Bruce Lee, Tom Cruise e Liam Neeson diventano allora i punti di riferimento da decostruire semanticamente, strizzando l’occhio ora agli 007 movie ora alle commedie sentimentali. Non è decisione casuale quella di ricorrere a una spiegazione finale per far capire a chi guarda cosa è realmente accaduto o far della moglie del boss un’amante del cinema hollywodiano, con preferenza per titoli come Notting Hill, Il diario di Bridget Jones o Panic Room.
In una storia in cui si ripresentano i punti cardine della sceneggiata, un sicario ben addestrato si trasforma in isso, l’infermiera da eliminare in issa e il boss con la moglie in i malamente. L’amore dei due protagonisti viene ostacolato poi dal braccio dei malamente, un secondo sicario compagno di regolamento di conti del primo, e da tutti gli altri uomini alla dipendenza della coppia di coniugi. I personaggi centrali che contornano la commedia, via via sempre più grottesca e sopra le righe, sono tutti accompagnati da parti cantate, in cui si racconta di riscatto, carcere, parola data, lealtà e amore. Come se tali concetti fossero legati solo alla malavita o agli appartenenti ai ceti sociali più poveri e bassi.
Con la partecipazione di un mito della musica partenopea come Pino Mauro (al centro di una scena madre a piazza Plebiscito che al compianto Mario Merola sarebbe cascata a pennello), Ammore e malavita sottolinea anche l’uso che spesso la musica neomelodica fa della musica inglese. Capita infatti sovente che alcune canzoni in lingua inglese vengano tradotte in napoletano con un testo del tutto differente: la What a feeling napoletana cantata dall’infermiera Serena Rossi rimane uno dei momenti più spassosi della pellicola che, dopo aver aperto con una particolare rivisitazione turistica delle Vele di Napoli, regala dialoghi ad effetto, battute a profusione e tormentoni da diffondere come mantra.
A Napoli, per certi versi capitale del Sud Italia, è ambientato anche L’equilibrio di Vincenzo Marra. A differenza del lavoro dei Manetti che regala un happy end con i fiocchi, Marra sceglie una vicenda in cui a morire è la speranza. In particolar modo, il suo racconto uccide la speranza del cambiamento e porta in scena una Napoli cupa, in cui la connivenza tra criminalità, forze dell’ordine e comparto religioso, è all’ordine del giorno. Al centro della vicenda vi è un prete che, in piena crisi mistica, chiede di ritornare a Napoli, la sua città. Catapultato in una realtà in cui ognuno sembra volersi fare gli affari suoi, il prete ha modo di confrontarsi con le conseguenze generate dall’avvelenamento della Terra dei Fuochi. Quella che parte come una storia dai contorni interessanti si trasforma ben presto nel solito ritratto di una città che non vuole cambiare: succede, nella fattispecie, che il religioso si ritrovi a muoversi tra le vie di un quartiere difficile in cui si intrecciano spaccio di droga, microcriminalità, abusi sessuali e pedofilia. Un quartiere che, seppur non nominato, ricorda tristemente il comune di Caivano e i fatti di cronaca legati all’omicidio della piccola Fortunata.
Non è dato sapere se Marra volesse il riferimento o se si tratti di pura casualità. Lo spettatore può però notare una certa virata nella storia, che improvvisamente dimentica la Terra dei Fuochi e si concentra sulle ostilità del quartiere, sull’accettazione della brutalità come normalità e sull’ineluttabilità di un destino avverso eppure condiviso. Ai colori dei Mainetti, Marra risponde dunque con il cemento dei casermoni, con i campi di calcio asfaltati e con un cielo che tende quasi sempre al nero.
Seppur ben girato, L’equilibrio dà l’impressione di essere la summa di tanti cliché. Non aiuta poi la recitazione del protagonista Mimmo Borrelli, la cui impostazione teatrale soverchia l’impegno profuso dal resto del cast, quasi tutto composto da attori amatoriali. Forse un passo indietro per il regista, troppo attento a rientrare nella tradizione senza riscatto delle opere di molti suoi conterranei senza riuscire a smarcarsi dal fatto di essere in primo luogo un documentarista.
Scendendo ancora più a sud, si giunge alla Palermo di Happy Winter, documentario firmato da Giovanni Totaro. L’occhio del giovane siciliano prende di mira la spiaggia di Mondello in estate. Per chi non lo sapesse, Mondello è il borgo marinaro per eccellenza del capoluogo siciliano: una piccola comunità di pescatori che, con il tempo, si è trasformata in attrazione turistica e in luogo di villeggiatura per chi dalla routine della stessa città vuole scappare. La spiaggia di Mondello in estate si trasforma letteralmente: da libera, diviene l’avamposto per numerose cabine che ospitano una giungla di umanità varia contemporanea. Si tratta spesso di esponenti della piccola borghesia che, pur di concedersi la loro vacanza, sono disposti a indebitarsi o a tentare la sorte con un gratta e vinci. Ed è così che ci troviamo di fronte alla coppia di coniugi che spera di trasferirsi all’estero in luoghi esotici in cui si può sopravvivere con un centinaio di euro a disposizione al mese, alla casalinga che desidera trovare un lavoro per il figlio, alle signore annoiate che relegano a un karaoke la loro possibilità di riscatto, a un candidato al consiglio comunale che inizia la sua campagna elettorale e a un venditore abusivo di bibite ghiacciate e patatine varie.
La camera di Totaro segue da vicino i personaggi. Si insinua nella loro quotidianità per cercare di carpirla e rifletterla. Più di una volta, però, si ha la sensazione che, proprio per la presenza delle telecamere, i soggetti ripresi tendano a sovraccaricare di pathos le loro parole e le loro esperienze. Personalità ora colorite ora eccessivamente trash si muovono tra bagni di mezzanotte a ferragosto, cabine minuscole arredate come appartamenti di città, partite di calcio, conchiglie da raccogliere o primi baci scambiati, senza che la vita al di là della strada che costeggia la spiaggia intralci le loro vacanze. Curiosamente, sembra di essere catapultati all’interno di un microcosmo sociale chiuso, in una bolla che per tre mesi continuerà a crescere e a far sembrare la vita di città un ricordo lontano o una punizione da cui scappare. Non è un caso che il buon inverno che ci si augura a fine estate sembri più un invito a non demordere che una frase di cortesia. Come se quell’al di là del muro che li aspetta fosse una condanna.
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(8 - Continua)
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