La parola madre è una delle più abusate dall’essere umano. Tutti pensiamo di conoscerne il significato ma le sue implicazioni rimangono un mistero per chiunque. Madre è innanzitutto colei che ci mette al mondo e colei che, contro tutto e contro tutti, dovrebbe difenderci da chi vuol farci del male, soprattutto in tenera età quando, come cuccioli indifesi, non siamo artefici dei nostri destini. Le cronache, però, ci hanno insegnato negli anni che madri sono anche coloro che, dopo aver partorito un figlio, sono pronte ad abbandonarlo in un cassonetto, a darlo in adozione o peggio ancora a ucciderlo. Le ragioni di tali comportamenti possono avere disparate origini: nessuna condanna morale o penale può stabilirle.
Venezia 2017 oggi si interroga sulla figura materna (e stando al programma lo farà anche nei prossimi giorni, con il tanto atteso Madre!) proponendo due film tra loro molto diversi in concorso: Una famiglia di Sebastiano Riso e Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh.
Mamma coccodrillo
Sebastiano Riso è alla sua opera seconda. Ha sorpreso tutti esordendo qualche anno fa con Più buio di mezzanotte, presentato alla Semaine della Critique. In Una famiglia ritrova Micaela Ramazzotti come protagonista di una vicenda che, come recita la scritta dopo i titoli di testa, è ispirata a tante storie vere. Si parlava prima delle cronache dei giornali che tante volte restituiscono figure materne che di materno hanno ben poco: leggendo le pagine di un quotidiano qualche tempo fa, Riso si è imbattuto nell’atroce storia di una donna che in 15 anni è riuscita a vendere, letteralmente, 10 diversi figli, partorendoli quasi su commissione. Traendo spunto da sì tale brutalità, Riso costruisce pian piano la parabola di Maria, una giovane donna fragile, di salute cagionevole e dal fisico esile che le prime immagini ci mostrano come ossessionata dai bambini o dai genitori che accompagnano i piccoli. Maria vive con Vincenzo, come lo chiama lei, un francese che da tempo ha scelto Roma come sua seconda cosa. A una prima occhiata, i due sembrano una normalissima coppia alle prese con il più normale dei desideri: avere un figlio. Bastano però pochi minuti di sesso, test di gravidanza e visite ginecologiche, per farci capire che il figlio che desiderano avere non è per loro ma per una “madre” diversa. Riso tenta di sviare lo spettatore facendo avanzare l’ipotesi di un padre che per accontentare la vera moglie accetta di far un figlio con un’altra per poi consegnarlo alla madre “adottiva”. L’ipotesi, seppur crudele, viene smentita quando diviene chiara la vera attività di Vincent: in cambio di 50 mila euro, vende i bambini che con Maria “fabbrica”.
Chiarita la natura clandestina e illegale del rapporto amoroso dei due (entrambi condividono un sentimento reciproco ossessivo e totalizzante), Una famiglia provvede a costruire scena dopo scena l’evolversi di una gravidanza finalmente arrivata e la riuscita della compravendita del nascituro a una coppia di omosessuali, dopo che una precedente coppia di futuri genitori si è tirata indietro. Vincent è la mente diabolica del duo: per lui i bambini non sono altro che merce da piazzare al miglior offerente e non importa quali “difetti di fabbrica” possono avere. Al pari di un bambolotto hanno un prezzo e non hanno la garanzia “soddisfatti e rimborsati”. Maria, invece, continuamente esposta a situazioni che minano il suo equilibrio, vorrebbe per davvero diventare una madre come tutte le altre (tenta persino di ricorrere alla spirale come contraccettivo per evitare di rimanere incinta e vedersi nuovamente depredata), crescere il suo bambino e diventare finalmente una famiglia. I suoi sentimenti materni esplodono nel momento in cui il frutto del precedente parto, una bambina, muore. L’evento luttuoso la spinge a maturare una consapevolezza differente, anche se non trova mai la forza di ribellarsi. Non ci riesce perché, in fin dei conti, non ha altra soluzione davanti a sé: prova a cercare la sua famiglia di origine ma caso vuole che anche sua madre, forse sua sola via di salvezza, sia morta. Rimanendo attaccata all’idea della Sacra Famiglia da capezzale domestico, più scivola nella debolezza più troverà la forza per “ribellarsi” e giungere a un finale sì di liberazione ma anche di beffardo riscatto.
Al di là del tema da scandalo (l’utero in affitto in Italia rimane un tabù), Una famiglia è un film non riuscito. Non perché sia sbagliato o realizzato male (però attenzione alle copie che saranno mandate in sala: a Venezia se n’è vista una con una scena ripetuta per due volte) ma perché scivola involontariamente nel kitsch. Pur sfruttando bene gli attori che ha a disposizione, Riso viene travolto dalla storia, perde la cognizione del racconto e si lascia prevaricare puntando su scene madri isteriche, prevedibili e/o evitabili, come quella in cui Vincent estrae violentemente con le dita la spirale che Maria ha scelto di portare. Costruito linearmente e adornato da personaggi secondari da manuale di sociologia (il medico corrotto con il volto di Fortunato Cerlino, il vecchio attore omosessuale di Ennio Fantastichini, un discriminato a sua volta discriminante, o la spacciatrice di Matilda De Angelis, destinata a divenire la successiva madre surrogata), Una famiglia avrebbe meritato un trattamento diverso dal regista, che si lascia prevaricare dai due personaggi principali (che non hanno né passato né futuro) e dalla bravura di una Ramazzotti oramai fin troppo avvezza al borderline. Si sa che spesso l’opera seconda non è facile ma Riso è giovane e ha tutto il tempo per mostrare quanto realmente valga.
Mamma leonessa
Di diversa caratura è invece la madre proposta da Frances McDormand in Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, regista e sceneggiatore dell’opera. A Ebbing, nel sud del Missouri contemporaneo ma allo stesso tempo fuori dal mondo, Mildred Hayes, una donna rude e tenace, non riesce ad accettare la moglie della figlia adolescente Angela, violentata, uccisa e bruciata dieci mesi prima. Poiché le indagini della polizia condotte dallo sceriffo William Willoughby non hanno portato a nessun risultato, la donna sceglie di affittare tre grossi cartelloni pubblicitari su una strada poco transitata nei pressi in cui è avvenuto il crimine per mandare un messaggio alle autorità. I cartelloni recitano ognuno un pezzo della frase “Violentata mentre moriva. E ancora nessun arresto. Come mai, sceriffo Willoughby?”. In breve tempo, l’espediente di Mildred è sulla bocca di tutti: in paese, però, nessuno è dalla sua parte. Chiunque tende a proteggere l’operato dello sceriffo, colpito nel frattempo da un cancro al pancreas che non gli lascia molto tempo da vivere ancora. Sin da subito, dunque, Mildred è chiamata a fare i conti con chi la circonda: il figlio adolescente preso di mira a scuola, l’ex marito che la reputa responsabile di quanto accaduto per via dei litigi che da madre aveva continuamente con la figlia, il vicesceriffo Dixon che a dispetto del comportamento da fascistoide vive ancora con l’invadente madre, il nano James che è l’unico che tanto poco segretamente vorrebbe da lei qualcosa in più di una semplice amicizia e il resto dei concittadini. È chiaro tra la guerra tra Mildred e William diviene oggetto di interesse dei mass media che costruiscono un caso laddove non c’è: i due, sulla carta nemici, sono invece più simili che mai: si punzecchiano, si rincorrono in continuazione e, da figli della stessa terra cresciuti a pane e violenza, si capiscono e si rispettano. La morte di Willoughby fa precipitare rapidamente gli eventi verso una risoluzione del caso che forse non arriverà mai o forse sì.
McDonagh, maestro di sagacia come già dimostra il suo 7 psicopatici, veste il suo giallo di umorismo nero, sarcasmo e cattiveria, costruendo una storia tutta incentrata sulla caratterizzazione psicologica dei personaggi, sia principali sia secondari, e su scambi di battute al vetriolo. In un crescendo di situazioni assurde, ora tarantiniane ora coeniane, McDonagh dipinge la sua Mildred Hayes come una leonessa, disposta a sbranare chiunque le capiti sotto tiro per i suoi cuccioli. Non importano i metodi ma importa il risultato da raggiungere: Mildred desidera che l’assassino della figlia venga trovato e punito. Lo vuole perché si tratta in primo luogo di sua figlia e poi perché desidera giustizia per tutte quelle donne che vengono stuprate o sottomesse dagli uomini. In una terra in cui le differenze di genere, classe e colore, sono più vive che mai e in cui Donald Trump passerebbe di certo il resto della sua presidenza, Mildred combatte nel nome del diritto usando mezzi che di lecito hanno ben poco. Memorabili sono le scene in cui si arma di ingegno per infliggere colpi ai suoi nemici, dal dentista grassone che vorrebbe tirarle via un dente per “punizione” dal momento che non condivide la sua causa all’intera stazione di polizia passando per l’ex marito, un violento che si accompagna con una diciannovenne alquanto ridicola. Pur ricordandoci che l’America è anche la terra dei giustizieri della notte o delle notti del giudizio, McDonagh non cade nella trappola della banalità costruendo la figura di un angelo vendicatore ma si tuffa nell’originalità per regalarci un’icona della legge senza peli sulla lingua o mezze misure mossa dall’amore. L’amore, come ha modo di ribadire Willoughby poco prima di spararsi alla testa, è la chiave che apre le porte del mondo: lo scrive all’amico Dixon ma lo lascia intendere anche nelle lettere post suicidio lasciate alla moglie e alla stessa Mildred, a cui paga un altro mese di affitto dei cartelloni pubblicitari.
A differenza di Riso, McDonagh non si lascia prevaricare dal suo cast. Eppure, a scorrere la lista degli interpreti o a riconoscerli sullo schermo si rimanere impressionati da quanta lungimiranza abbia avuto chi li ha scelti. Nessuno poteva essere migliore di Frances McDormand per il ruolo della protagonista (il cinema ha ora una nuova e aliena Mildred da ricordare) ma vale la pena ricordare anche una serie di validi comprimari che al suo cospetto non sfigurano: da Woody Harrelson (è Willoughby) a John Hawkes (è l’odiosissimo ex marito della protagonista), passando per Sam Rockwell (è Dixon) e l’irriconoscibile Caleb Landy Jones (è il pubblicitario di provincia Red). Menzione a parte è infine quella riservata a Peter Dinklage, che accetta di prendersi pesantemente in giro senza risultare patetico.
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(6 – Continua)
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