Inseparabili. Cosa porta una persona a legarsi a un’altra, scegliendo di condividere con lei la sua esistenza fino alla fine? La separazione da qualcuno a cui vogliamo bene è da sempre qualcosa di doloroso. In due, spesso, si affrontano sfide, si accettano le avversità e si decide come relazionarci con il domani. Se è pur vero che l’uomo è un animale solitario, è anche meglio che abbia qualcuno al suo fianco. Venezia 2017 propone forti relazioni e rapporti a due il cui fondamento è la simbiosi.
Per sempre noi due
Con Ella & John, primo progetto americano, Paolo Virzì si interroga sui rapporti della terza età scegliendo la chiave del road movie. La storia è presto raccontata: dopo quarant’anni insieme, Ella e John sono arrivati a un punto cruciale delle loro esistenze. Decidono di partire per un lunghissimo viaggio, il più lungo della loro vita, e di lasciarsi dietro i due figli oramai adulti e indipendenti. In un ribaltamento dei ruoli, in verità, Ella e John si sono trasformati nei figli da accudire, in coloro che necessitano di qualcuno che vigili sulla loro incolumità: mentre John, ex professore di letteratura con una fissazione per Hemingway, soffre di perdite di memorie dovute alla demenza senile e alterna momenti di lucidità ad altri di “zucca vuota” (per usare le sue parole), Ella è affetta da un male incurabile che pian piano la sta divorando. La loro meta è il sud, la California, e il loro mezzo di trasporto un vecchio Leisure Seeker, un camper degli anni Sessanta regalato dai genitori di lei.
Chilometro dopo chilometro, emergono i dettagli della loro relazione, le esperienze passate, le gelosie per un primo amore abbandonato, la paura dell’ospizio e persino una vecchia relazione extraconiugale. Nel tentare di mantenere vivi i ricordi del marito, Ella gli mostra sera per sere le diapositive di famiglie, in un amarcord tanto divertente quanto doloroso per le sue complicazioni. John non sempre è lucido e può cambiare umore da un secondo all’altro. Ella, invece, tiene a bada i dolori con i suoi antidolorifici e non si perde mai d’animo, trovando la forza per prendersi cura di John, di stare dietro ai suoi passi e di impugnare un fucile all’occorrenza. A ogni tappa del loro viaggio si scopre una tappa della loro vita di coppia, come in tante fermate d’autobus in grado di far scoprire con i suoi quartieri la storia di una città. Il coronamento di un sogno (la visita nella casa di Hemingway, segna la fine liberatoria della loro avventura.
Virzì imbastisce una storia che sulla carta ha molti punti di contatto con La pazza gioia, il suo precedente film con protagoniste la moglie Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi. Come in quel lavoro, si affida alle mani responsabili di due protagonisti superiori alla media: la sempre pertinente Helen Mirren e il ritrovato Donald Sutherland. Entrambi ripiegano per un’interpretazione rispettosa dei loro personaggi senza mai cedere il passo al sentimentalismo e al pietismo, come se condividessero con loro i trambusti e le gioie. Come suggeriscono le parole di Ella, il senso di Ella & John sta tutto in una frase: Io senza di te non posso vivere neanche un minuto. Se i protagonisti di Le nostre anime di notte sceglievano la via della compagnia per rifuggire l’avanzata della vecchiaia, Ella & John scelgono una soluzione diversa, già vista in un altro titolo del festival: La villa di Guédiguian. Di ambigua chiave di lettura il finale: si tratta nella fattispecie dell’unico happy end possibile ma non sempre accettabile. Senza fallire l’opportunità avuta, Virzì costruisce un film che si basa fondamentalmente sullo studio dei personaggi e riesce nell’intento di non farsi fagocitare dai cliché che il road movie impone.
Inseparabili anche loro per amore è il soldato e la sua amata al centro del cortometraggio L’ombra della sposa di Alessandra Pescetta. In dieci minuti, la regista ci porta nei fondali delle acque siciliane della Seconda guerra mondiale per mostrarci gli ultimi pensieri di un gruppo di giovani militari che, oramai inghiottiti dalle acque, ripercorrono con i loro occhi fissi e i loro corpi destinati a gonfiare quelle che erano le loro aspirazioni, i loro desideri e le loro vite. Carico di significati che possono essere traslati a ciò che sta avvenendo oggi con i cadaveri lasciati in eredità dai mille barconi affondati, L’ombra della sposa è interamente girato in acqua: è curioso notare come le immagini, seppur declinate in maniera diversa, facciano coppia con quelle realizzate da Guillermo del Toro per la sequenza di apertura di The Shape of Water. Ancora una volta, chi cerca il binomio cinema e arte dovrebbe gettare l’occhio al lavoro della Pescetta, che più che un cortometraggio sembra realizzare una videoistallazione non replicabile: un’opera unica dal valore dolente e dallo sguardo disincantato di chi sa che la Storia si ripete.
Il mio regno per un amico
Stephen Frears torna a occuparsi di regine inglese in Vittoria e Abdul. Già artefice di un discusso film su Elisabetta II impegnata a gestire il funerale dell’ex moglie del figlio (The Queen), Frears concentra ora la sua attenzione sulla mitica regina Vittoria, vera icona britannica conosciuta in tre quarti del mondo per essere stata anche imperatrice delle Indie. Frears sceglie una storia poco nota, riportata in auge qualche anno fa da una giornalista che, incuriosita da alcuni ritrovamenti, ha voluto approfondire le ragioni del legame della sovrana con tutto ciò che era indiano negli ultimi anni della sua vita. Ha così scoperto la figura di Abdul Karim, un giovane indiano giunto in Gran Bretagna nel 1887 per consegnare una moneta indiana alla sovrana in occasione del suo Giubileo d’Oro. Rompendo ogni imposizione di corte, Abdul è infatti riuscito a farsi notare da Vittoria che, conquistata dai suoi metodi lontani dal protocollo, lo ha in breve tempo preso sotto la sua ala protettiva e trasformato nel suo maestro spirituale.
Circondata da una corte che nutriva tanta ammirazione nei suoi confronti quanta intolleranza, Vittoria non poteva recarsi in India a causa di una fatwa risalente ai Moti e nulla sapeva della nazione di cui era di fatto la persona più importante. Grazie ad Abdul, la sovrana si mostra per quello che è: una donna di una certa età che necessita solo di essere protetta e non solo di essere servita con accondiscendenza. Decisamente sola nonostante il gran numero di individui a corte, Vittoria non è mai riuscita a creare nessun particolar rapporto con i suoi 9 figli, troppo interessati al trono, ai soldi e al potere, per guardare negli occhi della madre. Gli unici suoi compagni sono stati il consorte Albert e l’amico (e anche più) John Brown, il cui legame viene ripercorso in un altro film, La mia regina di Madden. La comparsa di Abdul rappresenta per lei una boccata di ossigeno ma le attira le antipatie di coloro che nella scalata della gerarchia di corte vorrebbero tanto essere al posto dell’ex scrivano di un carcere indiano. Le affinità spirituali spingono Vittoria, meno stupida di quanto si pensasse, a cambiare le sorti di Abdul e a mettere a rischio anche il suo stesso trono. Pur di non separarsi dal suo Abdul, la regina è pronta a sfidare tutto e tutti.
Curiosa dramedy a tinte quasi rosa, Vittoria e Abdul è un continuo dejà vu. Frears, esperto di reali inglesi, sceglie come protagonista l’impagabile Judi Dench (non una delle attricette che scelgono per le stupidotte serie tv ispirate dal personaggio), già interprete della regina nel film di Madden. Che attrice e regista si capiscano al volo è un dato di fatto: hanno lavorato insieme diverse volte in passato e il risultato è davanti agli occhi di tutti. Ciò che invece non convince è l’approfondimento psicologico dei personaggi sia principali sia secondari: si ha la continua sensazione di essere davanti a delle marionette che, mosse da fili esterni, hanno ben poco spessore. Non aiuta neanche il desiderio della sceneggiatura di cercare la risata e il sorriso a tutti i costi, facendo leva sulle differenze culturali, sul galateo e sull’empatia della sovrana, il cui stato di solitudine che la porta ad attaccarsi ad Abdul avrebbe meritato maggiore attenzione. Lo stesso dicasi di Abdul, che per ragioni di storia non sembra avere un passato o altri rapporti familiari (se si esclude quello appena accennato con la moglie e la suocera).
Attaccata alla pelle
Parlando di film, in questi giorni mi sono soffermato soprattutto sul contenuto e non sulla forma dei film. L’indivisibilità però mi porta a considerare qualcosa che a livello estetico non può passare inosservato, ovvero l’uso della camera in Il cratere, il film di apertura della Settimana degli Autori e il primo di fiction realizzata dalla coppia di registi Silvia Luzi e Luca Bellino. Autori di qualche anno fa del documentario Dell’arte della guerra, selezionato nel 2012 dal Festival di Roma, Luzi e Bellino scelgono di raccontare la storia di un talento destinato a trasformarsi in ossessione per un padre e in maledizione per una ragazzina. Siamo dalle parti di Napoli, in un territorio non meglio specificato, dove Rosario con la moglie sopravvive girando per fiere e feste di paese. Sogna però di cambiare vita grazie alla voce della figlia Sharon, poco più che bambina, e alla musica neomelodica, che fa degli adolescenti e dei preadolescenti delle piccole star. In un mondo in cui le canzoni e i suoi autori vengono pagati dal cantante e in cui per esibirsi in televisione occorre pagare, Rosario forza la mano con Sharon per inseguire un sogno che la ragazzina vede come una maledizione: i sacrifici imposti dal genitore non fanno per lei, che come tutte le bambine sogna semplicemente di giocare.
Accusato da chi evidentemente non l’ha visto di essere un Indivisibili a metà, Il cratere è un’opera estetica affascinante e claustrofobica. I protagonisti Rosario e Sharon sono interpretati dai veri padre e figlia della storia, che già in fase di sceneggiatura sono stati coinvolti nello sviluppo di un prodotto che è qualcosa di più complesso di una docufiction. La claustrofobia è data dall’uso che il duo di registi fa della telecamera, che si appiccica ai personaggi principali e sfuma tutti i contorni. A mano e ad altezza di Roberto o di Sharon, crea movimenti vorticosi che annebbiano quasi la vista e spingono ad attaccarsi ai personaggi come parassiti, desiderosi di vedere fino a che punto sono le loro fonti di cibo disposte a sanguinare. Pugno nello stomaco continuo, Il cratere ha anche il pregio di mostrare per la prima volta un sottobosco inedito: se al nord potrà apparire pleonastico, al sud siamo abituati a canali televisivi che al pari della globalizzata MTv trasmettono video di artisti neomelodici in tenera età a rotazione continua. Del resto, gli intenti del film stanno tutti nella sequenza di apertura, con la spiegazione delle correnti letterarie del Verismo e del Realismo.
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(5 - Continua)
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