Per definizione, la periferia è quella zona di una città (e per estensione del mondo) che è lontana dal centro storico della stessa. Non si tratta di un concetto dalla valenza negativa: l’accezione con cui oggi usiamo il termine è frutto di un cliché che vuole la periferia popolata da reietti o emarginati. Si tratta altresì di una definizione piuttosto relativa che tende a cambiare coordinate geografiche il base al soggetto che la usa. Facciamo un esempio concreto. Personalmente, non vivo a Palermo città ma a una decina di chilometri di distanza. Per un palermitano doc, dunque, vivo in periferia. Palermo, a sua volta, è una provincia e come tale conta un’infinità di comuni. Per me che vivo a 10 km la periferia diventa quella popolata da coloro che risiedono ad Alimena, a 105 km dal capoluogo. Palermo è anche capoluogo di regione e, ovviamente, tutti coloro che popolano la sua provincia reputano periferiche le persone che si muovono tra i vicolo di Ragusa. E così via.
Venezia oggi ragiona sulle periferie e su ciò che rappresentano a diverse latitudini. Lo fa prendendo in considerazione una periferia del mondo (Israele, nello specifico, che presenta a sua volta una dicotomia centro/periferia locale) oggi, una periferia americana degli anni Sessanta (ma che metaforicamente potrebbe anche essere una periferia trumpiana) e più di una periferia francese (una periferia parigina e una sulla costa).
Periferie del mondo
La periferia più interessante, forse perché a noi aliena, è quella presentata in Foxtrot di Samuel Maoz, Leone d’Oro a Venezia 2009 per Lebanon. La sinossi del film, che cela sapientemente lo svolgimento della storia, vede al centro del racconto una coppia di coniugi, un architetto e una laureata in filosofia, alle prese con la peggiore delle notizie: la morte del giovane figlio militare. Michael e Dafna vengono chiamati già sulla fine dei titoli di testa a confrontarsi con la perdita reagendo ognuno a modo proprio. Li accomuna il considerare responsabile indiretto di ciò che è avvenuto l’uomo, a sua volta ex militare. Il gioco però dura poco e la frammentata famigliola, di cui fanno parte un’ulteriore figlia, un fratello del padre e la madre (oramai in piena demenza) di questi due, ha il contraccolpo che nessuno si aspetta: Jonathan non è alquanto morto. A funerali già programmati si scopre infatti che la terribile notizia è falsa e che è stata generata da una beffarda omonimia. Il centro della città viene allora abbandonato dal regista che ci catapulta improvvisamente in uno sperduto avamposto alla periferia del deserto, un luogo in cui la sbarra viene alzata solo per far attraversare un dromedario. Sono pochi coloro che si avventurano in quei territori ed è uno sparuto comparto di giovani a vigilare sulle loro identità. Giovani che vivono all’interno di un container, che per ironia del destino sprofonda ogni giorno di più verso l’abisso di un simbolico pantano.
Seguendo Jonathan nelle sue abitudinarie mansioni, si apprende come Michael abbia un oscuro passato che ha raccontato al figlio sotto forma di ultima favola della buonanotte, in cui ha venduto una sacra bibbia ebraica (cimelio di famiglia legato all’Olocausto) per una rivista pornografica e un paio di capezzoli su cui masturbarsi. Ciò che a prima vista sembra fuori luogo diviene invece il movente per una storia sulla fede religiosa che indossa gli abiti del dramma da guerra. Il dio degli ebrei è un dio vendicativo e non dimentica nulla. Il rimorso diviene allora quel chiodo che porta Michael a crocefiggersi da solo e a esternare la sua vulnerabilità, il suo essere debole (Max, il cane, porta con sé i segni della tua debolezza, gli rimarca la moglie facendo riferimento ai calci che l’uomo sferza all’animale domestico di famiglia) e in debito con Dio, che in un’occasione ha provveduto grazie a un fortuito scambio a salvargli la vita in un incidente automobilistico. Liberarsi dal rimorso è possibile ed esiste un modo per farlo: parlare di ciò che è realmente avvenuto dopo una sana fumata d’erba di cui Michael e Dafna si rendono protagonisti. Perdendo ogni freno inibitorio, si librano come fumetti irreali e perdono le costrizioni sociali che la vita ha loro imposto. Ricordando l’inutilità della guerra e il peso di errori che non possono mai definirsi casuali, Foxtrot si trasforma in un dramma a tre atti in cui morte e rinascita si susseguono per ritornare sempre al punto di partenza: come nella danza del foxtrot, si torna sempre al punto di partenza, al peccato originale. Perché Dio ti dà e Dio ti toglie.
L’appartamento ben curato e arredato in centro città diviene simbolico di vita (e di rinascita) mentre la periferia assume sempre più i contorni della morte: tutto ciò che provoca dolore accade infatti lontano delle mura domestiche, sulla via per l’aeroporto o in un lontano avamposto. Azzardata ma originale la sequenza fumettista che tra secondo e terzo atto porta con sé una spiegazione favolistica dell’ultima storia della buonanotte e delle sue conseguenze.
Periferie disperate
Appartiene a un’altra dimensione spaziotemporale la periferia presentata da Suburbicon, che George Clooney ha realizzato a partire da una sceneggiatura firmata tra gli altri dai fratelli Coen. Siamo nell’America del 1959 e una tranquilla e ridente cittadina promette ai suoi abitanti una vita di comfort, poco stress e felicità a profusione. Dietro le colorate facciate delle case circondate dai giardini, le famiglie possono comodamente crescere i loro figli senza l’incubo della violenza e del diverso. La segregazione razziale a Suburbicon non esiste. Ma solo fino al giorno in cui la prima famiglia nera arriva nella cittadina senza che nessuno ne abbia richiesto la presenza. L’arrivo del presunto pericolo coincide anche con un’irruzione domestica in casa di Gardner Lodge, un colletto bianco che vive con Rose, la moglie in carrozzina (a causa di un incidente d’auto le cui modalità vengono sommariamente spiegate), la cognata Maggy (identica a Rose, presumibilmente sua gemella) e il figlioletto Nicky. L’irruzione, a prima vista dettata da fattori economici, sfugge presto di mano e culmina con la morte di Rose.
Dopo i funerali di routine, si scopre che tra Gardner e la cognata Maggy è in corso una relazione sentimentale che fa presagire il corso degli eventi che verranno dopo. L’irruzione non è stata altro che frutto di un patto diabolico tra i due amanti che, sognando denaro a profusione e una vita più esotica, sperano nel premio dell’assicurazione per lasciarsi tutto alle spalle e volare all’estero. Non hanno però fatto i conti con Nicky, i due presunti ladri che esigono di essere pagati e un agente investigativo delle assicurazioni ancor più astuto dei due. Il visto e già visto procedono allora di pari passo, da Hitchcock a De Palma tutto si ricicla e, improvvisamente, i Coen sembrano tornare indietro con la loro scrittura di anni e anni. Anche perché Suburbicon ha ben poco di eccezionale nella sua costruzione grottesca di personaggi e situazioni. Perché? Semplice. La sua periferia altri non è che un’arcaica Wisteria Lane, il quartiere periferico statunitense in cui erano ambientate le avventure di Desperate Housewives, fortunata serie televisiva prodotta dalla ABC a metà del primo decennio degli anni Duemila. In particolar modo, a far pensare all’accostamento con la serie, è il personaggio di Maggy che ricalca fin troppo quello di Bree Van de Kamp, portata in scena nel telefilm da un’impagabile Marcia Cross. Tanto perfetta all’apparenza quanto mefistofelica nei pensieri e nei modi, Maggy interpretata da Julianne Moore è l’antenata di Bree, che non si fermerebbe di fronte a nulla pur di ottenere ciò che vuole. Ma anche il Gardner Lodge di Matt Damon altri non è che una versione riveduta e corretta di Paul Young, lo psicotico che semina il terrore in più di una stagione del telefilm.
A far pensare a Desperate Housewives è anche un altro dettaglio di non poco conto. Un finale di metà stagione della serie sfrutta infatti il caos generato da un incidente aereo nel quartiere per far portare a conclusione alcune delle linee narrative più importanti. In Suburbicon accade lo stesso: la rivolta contro i primi residenti neri del sobborgo serve a coprire tutto ciò che sta avvenendo in casa Lodge, dove personaggi sempre più imbizzarriti si danno il cambio facendo a gara tra chi semina più cadaveri.
Per i Coen e, di conseguenza, per Clooney, bisogna diffidare da ciò che appare perfetto. Non sempre bisogna diffidare dell’altro e del diverso. Spesso la follia si nasconde tra le pieghe della normalità, nelle stanze di chi ama la moglie come si amerebbe un cancro alla prostata. Narrato a misura di bambino (scegliendo la prospettiva di Nicky), Suburbicon si concentra un po’ troppo sul grottesco e sfuma in fretta le psicologie dei personaggi, sacrificando anche un memorabile Oscar Isaac e un agente assicurativo da manuale. Del resto, la vita si racchiude in un’unica parola: coincidenza. E non sempre questa è favorevole.
Periferie catartiche
Se pensiamo a Parigi, la prima cosa che abbiamo davanti agli occhi è la Tour Eiffel. La periferia invece la immaginiamo come tante volte vista nei polar: cupa, tesa, spesso piovosa e popolata di reietti. Non la immaginiamo mai come il mondo di coloro che non hanno avuto la fortuna di nascere ricchi. La periferia francese non è mai ricordata come il territorio in cui si muove tanta gente che sopravvive grazie al sudore del proprio lavoro, affrontando spesso l’esistenza quotidiana con l’umiltà di chi sa che i sogni appartengono agli altri. Nella periferia perigina che fa incontrare i parigini meno facoltosi e gli immigrati soprattutto di seconda generazione è ambientato La mélodie, opera seconda di Rachid Hami ispirata a una storia vera. La vicenda racconta di Simon, disincantato violoncellista, che viene coinvolto in un progetto extrascolastico teso a insegnare a suonare il violino a un gruppo di ragazzini di un quartiere popolare, preadolescenti per cui il massimo della musica classica è rappresentato dalla sigla della Champions League, Wolfgang Amadeus Beethoven (!) e, in un crescendo di assurdità che farebbe inorridire ogni melomane che si rispetti, Céline Dion. L’obiettivo è quello di portare i giovani a suonare alla Filarmonica di Parigi, sulla falsariga seriosa di ciò che accadeva nello più svalvolato Sister Act 2. Il copione, toni a parte, è a grandi linee lo stesso ed è segnato dalla stessa struttura: i ragazzini si rifiutano di imparare, un giovane talento sboccerà, il professore vincerà la ritrosia di uno dei genitori e i violinisti alle prime armi si esibiranno trionfalmente dopo aver affrontato una grossa avversità. Tutto noto sin dall’inizio ma non per questo meno piacevole da seguire: La mélodie, con la sua narrazione lieve, nasconde una formazione a doppio senso, uno scambio continuo e linfatico dei ruoli di docente e allievo. Politicamente corretto, evita di cadere nel pietismo o nel paternalismo sfacciato, relegando sullo sfondo le difficoltà di periferie e coprendole con la leggerezza che solo il sorriso di chi ha ancora dalla sua la spensieratezza emana. Rifuggendo le urla emotive, Hami opta per i silenzi e le carezze metaforiche per ricordarci che anche in periferia i sogni si avverano.
Di tutt’altro tenore di vita, invece, è la periferia francese mostrata da Robert Guédigian in La villa, titolo originale di The House by the Sea. Siamo alla periferia di Marsiglia, città che da sempre ha fatto da sfondo a quasi tutte le storie del cineasta. Nella splendida e teatrale cornice della calanca di Méjean, una piccola baia su cui si affaccia un manipolo di colorate case, vivono in tutto cinque persone. Queste sono il giovane pescatore Benjamin, la coppia di anziani formata da Martin e Suzanne, e il vecchio ristoratore Maurice con l’ormai adulto figlio Armand. Maurice è stato l’anima della comunità locale per molti anni ma il progresso e l’assenza di un qualsiasi intento turistico ha portato via la gente dalla zona. Nonostante le potenzialità del luogo, nella calanca si sopravvive come si può e comprare le medicine o pagare l’affitto a fine mese rappresenta un problema, come si intuisce dalla situazione di Martin e Suzanne.
Il borghetto però è destinato a ripopolarsi presto per un evento poco felice: Maurice ha un malore mentre è seduto sul suo balcone rotondo a osservare il mare. Ridotto in coma, riceve la visita forzata degli altri due figli, Joseph e Angéle. Mentre Armand è rimasto sempre al fianco del padre nella gestione dell’attività, Joseph ha preferito allontanarsi e vivere la sua esistenza di borghese tra lotte di sinistra e relazioni poco felici, come quella con Bérangère, una donna molto più giovane di lui che lo segue nel ritorno a casa e che ha intenzione di troncare la relazione. Angéle non torna dal padre da una ventina di anni: si è dedicata alla sua carriera di attrice teatrale e addosso al genitore la responsabilità della morte della piccola figlia Blanche, avvenuta per annegamento. Pian piano, i tre fratelli iniziano un percorso di catarsi con loro stessi, riscrivendo le loro esistenze. A far da motore al cambiamento sono altri due eventi inattesi: la morte sincronizzata dei coniugi Martin e Suzanne e l’arrivo in zona di una barca di migranti, uno dei tanti viaggi di fortuna che naufraga sulle coste d’Europa. Ed è così che i tre fratelli tornano lentamente alla spensieratezza di decenni anni prima (che un inserto veramente d’archivio mostra, frutto del genio di Guédiguian che sfrutta un vecchio filmato in cui compaiono i tre attori protagonisti, suoi collaboratori feticcio: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan).
Senza svelare il bellissimo finale all’insegna dell’integrazione e del risveglio interiore dei sogni dei protagonisti, finalmente in grado di prendere le redini del loro destino, occorre sottolineare come Guédiguian abbia scelto di mostrare con coraggio ciò che potrebbe accadere nelle tante periferie del nostro mondo occidentale quando, oltre a ritrovare noi stessi, si ritrova la voglia di accogliere in casa quei figli che diventano tali per il rincorrersi degli eventi. Criticando causticamente l’atteggiamento dei Paesi ospitanti nei confronti di immigrati clandestini e di rifugiati politici, il regista affonda il coltello nelle piaghe della borghesia, la smantella e la ricostruisce, rimettendo insieme i tasselli di un puzzle che si era sfaldato. La periferia, come nel connazionale La mélodie, diventa sinonimo di integrazione e di rinascita, invita ad abbandonare gli stereotipi e ad andare oltre (il primo discorso amoroso tra Angéle e Benjamin ne è il manifesto). Spinge ad abbracciarsi simbolico e a tentare con una forza di natura centripeta il cambiamento che tutti quelli dotati di buon senso si auspicano: partendo dalle periferie è forse possibile arrivare al centro con un movimento tellurico che dalla gente dovrebbe condurre alle classi politiche, troppo cieche per lasciare le loro poltrone e avventurarsi laddove si fa la vera storia.
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(4 - Continua)
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