La solitudine è uno stato d’animo che accompagna l’essere umano da che mondo è mondo. Adamo, il primo uomo sulla Terra secondo la tradizione religiosa cristiana, è anche il primo uomo in assoluto a soffrire di solitudine, un male che ammorba lo spirito e intralcia il raggiungimento della felicità stessa. Il XXI secolo è, a detta degli esperti, il secolo della solitudine, quello in cui tutti si è talmente connessi (grazie agli schermi – piccoli o grandi – che fanno da medium) da rimanere fondamentalmente soli. La connessione dei nostri giorni è una connessione puramente fittizia fatta di simulacri e specchi, pronti a infrangersi quando la fibra ottica o il 4G smette di funzionare. È quindi l’uomo contemporaneo colui che concretamente ha portato le sofferenze legate alla solitudine all’apice. Perché si è soli? Ci si chiede. Le risposte fondamentalmente sono due: per scelta o per destino. Entrambe le opzioni prevedono però la stessa via di fuga: entrare in contatto con qualcuno, giusto o disonesto che sia.
Le giornate di pioggia, poi, come quella odierna al Lido, accentuano ulteriormente la sensazione di essere soli, puntini invisibili della materia che ci circonda.
Crescere da soli
I film proposti oggi in cartellone a Venezia analizzano varie sfaccettature e conseguenze dell’essere soli. Sin dal mattino appare chiaro come la solitudine sia il leitmotiv della giornata. Le danze vengono infatti aperte da Lean on Pete (che in italiano si chiamerà Charley Thompson, spostando del tutto l’attenzione dal motore equino degli eventi per concentrarsi sul protagonista umano solo per ricordare il titolo italiano del romanzo da cui è tratto) di Andrew Haigh, adattamento del best seller La ballata di Charley Thompson di Willy Vlautin. La storia in poche parole racconta dell’odissea di Charley, un adolescente cresciuto dal solo padre in cerca di un’identità e di una famiglia a cui appartenere. Charlie è senza paura di smentite un adolescente solo: per scelte narrative, non è dato a noi sapere quale sia stato il suo passato e quali siano le ragioni che hanno spinto la madre biologica a lasciarlo nelle mani del padre Ray, un operaio che spostandosi continuamente da un posto all’altro non ha messo radici in nessun luogo. Per Charley l’idea di casa è data dalla zia con cui è cresciuto e da cui il padre lo ha strappato: Ray e la sorella non si parlano da quando Charlie aveva 12 anni e la ragione sembra essere legata alla sua crescita e al mondo in cui il padre lo fa vivere. Ray, oltre a cambiare casa in continuazione, cambia anche donna, ritrovandosi a trascorrere una sera con una cameriera, moglie di samoano. Quella che è una notte di sesso finisce con il costargli la vita e Charlie si ritrova del tutto in balia di se stesso e del lavoretto che nel frattempo si è trovato per conto di Del Mortimer, un allevatore di cavalli da corsa tanto simpaticamente reso da Buscemi quanto maestro dell’arte di arrangiarsi in maniera illegale. Tra i cavalli di Del Charley trova una certa sintonia con Lean on Pete, un quarter horse (in grado di raggiungere una folle velocità in corsa) da sempre vincente. Con Del e la fantina Bonnie Charley sembra in un primo momento aver trovato una famiglia, disfunzionale e atipica ma pur sempre famiglia, con cui condividere sogni, speranze e vincite. Anche il sogno del nuovo nucleo familiare di cui far parte viene però rotto da un evento imprevisto che vede Lean on Pete perdere le sue qualità da campione e Del decidere la sua vendita. Non disposto a separarsi dal suo miglior amico equino, Charley opta per la più ardita delle soluzioni: rubare l’animale, darsi alla macchia e raggiungere la cittadina in cui la zia si è trasferita dopo essersi sposata.
L’ardita idea e la sfrontatezza tipicamente giovanile che gliela fa mettere in atto portano però Charley verso un percorso iniziatico che gli farà toccare il fondo prima di rinascere. 27 dollari non sono abbastanza per attraversare metà degli States con i suoi deserti da film western e le sue praterie con case diverse da quelle proposte dalla tv degli anni Sessanta. Furti nelle tavole calde lungo la strada, benzina trafugata con la bocca e una sosta in una sperduta fattoria popolata da due ex militari che hanno prestato servizio in Medio Oriente fanno sprofondare Charley nella più disperata delle situazioni. Costretto a vivere come homeless, si macchia anche le mani di sangue prima di poter avere tutto ciò che sogna, una casa, una figura da abbracciare e una scuola da frequentare.
Nonostante la storia di Charley sia strappalacrime, Haigh decide di mantenere asciutti i fazzoletti e di affrontare il tutto con estrema lucidità. Il che lo porta a non ricercare la lacrima facile o la compassione dello spettatore. Se da un lato ciò è un pregio, dall’altro si rivela un grosso limite del film: si ha continuamente la sensazione di essere fuori dalla storia, di non sposare mai il punto di vista dell’adolescente e di continuare a osservarlo con la consapevolezza di chi sa che ciò che ha davanti è solo fiction. Grossi vuoti narrativi (è mai possibile che nessuno denunci un adolescente che ha rubato un furgone e un cavallo da corsa?) e i campi spesso lunghi delle inquadrature fanno poi il resto, con uno spettatore oramai pronto al momento catartico che da copione non può non essere legato all’happy end delle belle storie. Perché siamo sempre in America, la terra in cui sognare e trionfare è sempre possibile. Anche quando il sogno è trovare se stesso e qualcuno a cui appartenere o a cui sentirsi affine e vicino: in America, nessuno sta veramente solo sul cuore della Terra.
Il variegato numero di personaggi con cui Charley si relaziona ci permette però di ammirare un paio di interpretazioni sopra la media. Con il giovane protagonista Charlie Plummer che ricorda il River Phoenix dei primi tempi, occorre menzionare il lavoro di attori come Travis Fimmel (è Ray), Steve Buscemi (Del) e Steve Zahn (un senzatetto con cui Charley vive per qualche tempo) alle prese con personaggi che, nei pochi minuti in cui appaiono, restano indelebili. Stranamente sottotono invece Chlöe Sevigny, forse non troppo convinta dell’indole della sua Bonnie.
Invecchiare da soli
Se il Charley di Lean on Pete è solo perché non ha più i genitori, i protagonisti di Le nostre anime di notte di Ritesh Batra sono soli perché non hanno più mogli, mariti o figli intorno a loro. Quasi speculari a Charley, verrebbe da pensare, se non fosse che la storia catapulta su una dimensione più armonica e vicina a tutti noi. Siamo infatti in una tranquillissima cittadina di provincia americana in Colorado, uno di quei centri in cui le case in legno sono tutte circondate da un giardino spesso ben curato e i vicini sanno tutto di ciò che accade nella porta accanto. In tale atmosfera, l’arzilla Addie Moore si reca in visita dal vicino Louis Waters per una proposta alquanto insolita: sebbene si conoscano solo superficialmente, Eddie lo invita a dormire a casa sua. Ma non per ragioni amorose, semplicemente per compagnia. Addie desidera avere accanto qualcuno con cui addormentarsi e sceglie Louis perché simile per molti versi a lei: entrambi sono vedovi e con una travagliata storia famigliare alle spalle. Oltre ad aver perso da qualche anno il marito, Addie in gioventù ha visto la figlioletta morire investita da un’auto. È però ancora madre di Gene (con il volto del poco morbido Matthias Schoenaerts) e nonna del piccolo Jaimie. Louis, invece, ha perso la moglie Diane due volte in passato: la prima quando l’ha tradita e ha segnato anche la psiche della figlia Holly (supportata da Judy Greer), la seconda quando, stremata dalla malattia, la donna è morta. Mentre Gene è alle prese con la separazione dalla moglie Beverly, Holly è in procinto per partire per un lungo viaggio che la porterà fino a Firenze, in Italia, dove ha già trovato un nuovo lavoro. Le uniche compagnie che i due hanno durante la giornata sono gli amici del bar che Louis frequenta (tra cui spicca Dorlan, giocato da Bruce Dern) e l’anziana amica Ruth che Addie accompagna come la più amorevole delle figlie.
Dopo un’iniziale riluttanza, Louis accetta la proposta e prova a dormire per una notte a casa di Addie. Cominciano così a conoscersi notte dopo notte, ad aprirsi e a condividere i loro dolori nascosti e fin troppo repressi. Emergono dettagli, si svelano segreti e, in ultima analisi, si aprono i loro cuori per una nuova storia d’amore e per una nuova famiglia, allargata per gran parte della storia dalla presenza del piccolo Jaimie (che come il Charley di Lean on Pete è un bimbo estremamente solo) e di un cane preso in adozione.
Affidandosi a un romanzo scritto da Kent Haruf particolarmente noto in Italia, Ritesh Batra riforma sullo schermo una delle coppie cinematograficamente più interessanti della storia del cinema, formata da Jane Fonda e Robert Redford, compagni di set negli indimenticabili A piedi nudi nel parco e Il cavaliere elettrico. Solo loro due chiamati a rappresentare i due eroi che sconfiggono la solitudine con la più semplice delle armi: lo stare insieme. Poiché le anime sole si riconoscono da uno sguardo, Addie e Louis non impiegano molto tempo a prendersi per mano e a sorreggersi. Dal nulla, scoprono di appartenersi e di avere un senso solo insieme: con delicatezza, Batra affronta i sentimenti della terza età, li scruta senza mai essere invadente e ci trasforma tutti in testimoni della fragilità che una certa età impone. Qualunque sia stato il passato, il dolore inflitto o quello subito non importa, chiunque ha diritto a non essere solo, anche quando gli affetti più cari ma lontani impongono dei limiti dettati dall’egoismo e, forse, dalla paura di non avere più l’esclusiva delle attenzioni.
Curioso, per chi ama i dettagli di colore, come Batra abbia una certa ossessione per i contenitori in generale: ai lunchbox del suo precedente film (Lunchbox, per l’appunto) in Le nostre anime di notte fa corrispondere il sacchetto con gli effetti personali che come un pacco il personaggio di Louis trasporta da casa sua a quello di Addie.
Vivere da soli
Sono in tanti. Abitano in un intero casermone di alloggi popolari meglio noto come Laurentino 38. Madri e figli, mariti e mogli, reietti e cani da combattimento. Eppure sono soli i protagonisti di Il contagio, opera presentata alle Giornate degli Autori e diretta da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, tratta dall’omonimo romanzo di Walter Siti. Togliamoci subito il dente: chi scrive non ha particolarmente apprezzato l’opera seconda del duo che ha esordito nel lontano 2010 con Et in terra pax. Come l’opera di Siti vuole, lo sfondo è l’inferno della periferia romana, quella che abbiamo imparato a conoscere grazie a Non essere cattivo (del resto, una delle case di produzione è la stessa, la Kimera Film) prima e a Suburra (serie compresa) dopo. Non si cada però nella tentazione di dire, come hanno fatto già in molti, che Il contagio si ispira a Suburra: se solo li si collocasse sulla linea del tempo, ci si accorgerebbe subito di cosa ha ispirato cosa. Fortemente descrittiva di uno status quo che non viene mai giudicato, Il contagio di Siti si trasforma in un’opera a due tempi, come i registi hanno tenuto a precisare. Un primo tempo è ambientato nel casermone popolare mentre il secondo nella Roma bene, destinata a trasformarsi in Roma capitale. Il punto di tramite è dato da Mauro, interpretato da Maurizio Tesei, che nonchalance e severa obbedienza al crimine passa dall’una all’altra.
Tanti personaggi soli, dicevamo. C’è Mauro con la moglie Simona, desiderosa di avere prima una casa e dopo un figlio. E c’è Don Carmine, il boss per cui Mauro lavora e grazie a cui ha i suoi guadagni facili. Con l’arrivo di Mauro al Laurentino 38 (equiparabile come giungla allo Zen palermitano) si conoscono meglio i suoi residenti, a cominciare da Marcello, appassionato tanto di palestra quanto di cocaina. Sposato con Chiara, sopravvive grazie ai soldi che spilla a Walter, uno scrittore omosessuale con cui intrattiene una relazione (pudicamente, i registi non mostrano mai sesso tra i due e virano verso atmosfere da rapporto paternalistico abbastanza in fretta). Marcello fa inoltre comunella con Attilio (il figlio squattrinato di un’ex portiera di palazzo di origine siciliana), con Bruno (un giovane ultrà romanista dalle 5 o 6 personalità differenti, impegnato con la colorita – e più grande d’età – Flaminia) e con Richetto, il fratello minore della moglie che lavora come piccolo spacciatore. Una spirale di eventi porta presto la storia a un salto temporale di 3 anni, periodo che sommariamente ci fa intendere cosa ne sia stato di Mauro, che sempre al servizio di don Carmine ha fatto “carriera” grazie a un’azienda di riciclaggio di denaro chiamata ironicamente Renova, e di Marcello, proiettandosi verso un finale senza speranza tante altre volte visto in film di periferia.
Ciò che colpisce dei personaggi di Il contagio è il fatto che a esclusione di Marcello e Anna, degli altri non conosciamo i legami affettivi. Li vediamo quasi sempre a coppie di due, come se fossero stati allontanati perché appestati, come suggerisce il titolo stesso. La malattia di cui sono portatori è talmente letale che occorre stare loro alla larga per non finire in carcere o sotto terra. Anche i pochi legami esistenti e di diverso tipo non vengono quasi mai sviscerati, come se ci si limitasse al buco della serratura o si calasse la tendina per evitare di mettere in piazza un’umanità che sicuramente c’è, ferita ma c’è. Con buoni che restano sempre buoni e cattivi che non si discostano dai luoghi comuni, Il contagio fallisce nel suo intento non fotografando ciò che Siti nelle sue pagine rendeva vivo. Ai due registi inoltre si consiglia di stare attenti con il montaggio: una carta di credito che viene usata per tagliare della cocaina e che è ancora nelle mani del proprietario (da solo in scena) non può magicamente sparire nel nanosecondo di inquadratura dell’atto della consumazione della droga.
Piccola nota a margine: diffidate delle proiezioni in cui è presente il cast del film. Interminabili applausi di fantozziana memoria a fine proiezione in un sala occupata per metà dalla delegazione del film, che si è portata dietro tutto il cast tecnico, gli amici e gli amici degli amici. Gente che il film lo avrebbe visto (o già visto) ugualmente che lasciava fuori numerosa gente con tanto di accredito pagato. All'italiana, sempre, anche quando si cerca di essere alternativi al sistema.
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(3 - Continua)
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