Da quando l’essere umano ha ricevuto in “dono” la capacità di pensare e, dunque, di essere, ci si interroga su un concetto: la normalità. Interrogarsi su cos’è normale comporta come diretta conseguenza stabilire cosa è differente. La definizione di differenza non è semplice: in base a quale scienza si fa riferimento, esistono delle variabili da considerare e delle eccezioni da scartare. Nel XXI secolo domandarsi cosa sia la differenza comporta che si cerchino risposte in chiave sociologica e antropologica. Da Occidente a Oriente cambiano i parametri sociali che definiscono cosa è normale e cosa non lo è in base a sensibilità (spesso inficiate dalla religione) diverse. Il cinema in quanto arte e manifestazione del pensiero non può esimersi dall’osservare come l’uomo moderno si relaziona con tutto ciò che esula da quei comportamenti socialmente accettati e condivisi.
Anche il Festival di Venezia sembra guardarsi intorno e riflettere sulle differenze, sull’altro da me. Lo fa scegliendo la chiave delle opposizioni Est/Ovest, Forza/Mente, Fantasia/Realtà ed Associazione/Esclusione. Quattro pellicole, disseminate nelle varie sezioni, oggi hanno portato su tale percorso: che sia studiato o meno non è dato saperlo. Spesso le scelte di chi vede un titolo rispetto a un altro sono dettati da fattori che esulano da costruzioni mentali: occorre sottolinearlo per dire che i percorsi in questi giorni da me proposti sono tutti frutto del caso e nati post-visione.
Diverso per natura
C’era una volta in un mondo apparentemente lontano da noi ma cronologicamente vicino un mondo spaccato da divisioni. Occidente e Oriente erano divisi tra Stati Uniti e Russia, due nazioni in lotta per l’egemonia del mondo dalla fine degli anni Quaranta fino alla fine degli anni Ottanta. In piena Guerra Fredda, poco prima della fine degli anni Sessanta, Guillermo del Toro ambienta The Shape of Water, in cui si mischia il racconto per eccellenza, la favola, con la fantascienza. Favola e fantascienza prevedono entrambe che il pubblico sospenda le sue facoltà razionali per immergersi in un mondo popolato di creature magiche e provenienti da un altrove spesso non meglio specificato. Con tale premessa, ripescando nell’immaginario cinematografico dei mostri delle lagune nere e delle isole degli uomini pesce, il regista di origine messicana ci racconta della storia d’amore tra due creature silenziose: una giovane operaia muta e un dio dei mari ripescato dal governo statunitense tra le acque dell’America Latina. Eliza, la nostra eroina umana con il volto di Sally Hawkins, lavora in un centro di ricerca aerospaziale. Muta ma non sorda, è orfana ed è stata ritrovata tra le acque di un fiume con tre strani tagli alla gola, evento che l’ha segnata psicologicamente e che la porta anche in età adulta ad avere un legame quasi osmotico con l’acqua, fonte di ogni suo piacere (anche sessuale). Oltre a prendersi cura di un pittore omosessuale non più in giovane età, Eliza lavora come donna delle pulizie in un centro in cui militari e scienziati lavorano in nome del progresso per mandare l’uomo sulla luna. Collega di lavoro e fedele amica di Eliza è Zelda, una donna nera tanto sagace quanto protettiva impersonata da Octavia Spencer. Nella zona top secret del centro arriva un giorno una strana creatura marina, accompagnata da un militare esperto in sicurezza che ambisce a una promozione. Si tratta di Strickland, portato in scena da Michael Shannon (in una interpretazione che per certi versi ricorda quella prestata in Animali notturni). Ai metodi rudi di Strickland rispondono l’interesse del dottor Hoffstetler e la curiosità di Eliza, che grazie al linguaggio per sordomuti e a un’innata dolcezza d’animo entra in contatto con la creatura. Un luogo comune recita che tra diversi ed emarginati ci si capisce: accade dunque che la creatura umanoide, una sorta di tritone considerato un dio dagli indigeni, ed Eliza nasca un tenero sentimento, fatto di scambi di sguardi, di uova sode e musica suonata da un vecchio giradischi. In breve, però, la situazione precipita e, mescolando spionaggio russo, thriller e commedia, accade che Eliza porti in casa sua la creatura, destinata altrimenti a una brutta fine.
Senza rivelare il colpo di teatro che segna il finale, occorre sottolineare come Guillermo del Toro sembra collocarsi nel solco della tradizione visionaria e citazionista lanciata dal primo Tim Burton. Sfacciatamente, il regista non si nasconde dietro un dito e, grazie a un escamotage narrativo, rende omaggio agli anni d’oro del cinema e della televisione statunitense ma anche a James Cameron e alle sue innovazioni tecnologiche (difficile non pensare a Titanic nella sequenza dei titoli di testa). Eliza con le sue scarpette rosse da indossare e il pittore Giles, un magnetico Richard Jenkins, hanno la loro quotidianità scandita dagli orari in cui la televisione con i suoi broadcast trasmette i vari programmi, passando da un vecchio film con Shirley Temple (di cui Eliza conosce a memoria ogni passo di danza) a Mister Ed, il mulo parlante. Non manca poi un omaggio in bianco e nero ai musical, grazie a un sogno a occhi aperti di Eliza. Donna e creatura, dunque: un ribaltamento di La Sirenetta di Andersen o una versione riveduta di La Bella e la Bestia, in cui Eliza deve dimostrare come la Bestia sia “innocua” e non pericoloso come vorrebbe Strickland, il Gaston di turno.
La Guerra fredda segna indelebilmente lo sfondo. L’Unione Sovietica ha mandato il primo cane nello spazio, gli Stati Uniti pensano a spedirci invece l’uomo e necessitano di capire come la respirazione della creatura, in grado di sopravvivere diverse ore fuori dall’acqua, possa essere di loro aiuto. I segreti militari diventano allora interessi politici e culturali. L’Urss, nazione di cattivi per antonomasia, manda le sue spie infiltrandole laddove nessuno le cercherebbe mai.
Sono anche gli anni della diversità razziale, con i disordini tra bianchi e neri, e di disparità di genere, con le donne sottomesse a uomini incapaci di pensare a una situazione di uguaglianza in casa o al lavoro. Del resto, il mito dell’uomo che non deve chiedere mai passa attraverso il possesso di una Cadillac e dell’uso del dito medio per la clitoride.
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Diverso per religione
Una delle poche diversità che Guillermo del Toro non prende in esame in The Shape of Water è quella di natura religiosa. Dalla notte dei tempi, la religione è stata fonte di scismi, rotture, divisioni e guerre. Dai Romani che perseguitavano ai Cristiani all’ odio di folli come Hitler per gli Ebrei, l’uomo ha sempre fatto leva sulla sua dimensione ultraterrena per trovare giustificazioni ai suoi più beceri comportamenti. Non essendo in grado di spiegarsi ciò che non capisce e, dunque, desiderando assoggettare le credenze degli altri alle proprie, ha dato origine a guerre che ancora oggi interessano il mondo. Senza entrare nel merito di chi abbia o meno ragione o delle pregnanti complicazioni politiche che intercorrono, possiamo sostenere senza paura di smentita che uno dei fattori di origine della causa palestinese risieda proprio nella religione e nel fondamentalismo da essa derivante. Cristiani, ebrei e islamici, lottano da quasi cento anni per ribadire la propria identità e per reclamare la loro Terra, che più che promessa sembra maledetta. Accade così che a Beirut, nel moderno Libano, possa verificarsi plausibilmente la situazione proposta da Ziad Doueiri in The Insult. La trama è presto raccontata: nel quartiere in cui vive il meccanico libanese cristiano Toni sono in corso dei lavori di ristrutturazione e di messa in sicurezza, promossi da un politico in carriera e alla ricerca di voti e portati avanti da una società edile per cui lavora il palestinese Yasser. Poiché, come ricorda astiosamente Toni, “i palestinesi non perdono mai l’occasione di perdere l’occasione”, viene innaffiato dalla grondaia illegale del libanese, Yasser decide di sistemare con cemento e tubi la situazione. La sua presa di posizione genera un alterco, durante il quale Toni si becca letteralmente del “brutto stronzo”. Da quel momento in poi, la situazione precipita e sfugge a tutti di mano: Toni si lascia andare a un odioso “Sharon avrebbe dovuto sterminarvi tutti” e Yasser reagisce fratturandogli due costole con un pugno. Ne deriva una causa che, una volta giunta in appello, si trasforma in caso mediatico (spinto dai due avvocati avversari, un padre e una figlia come in Conflitto di classe di Apted) e, di conseguenza, in guerriglia urbana, al punto da richiedere l’intervento del Presidente libanese in persona.
In un continuo gioco di rimandi a fatti storici a noi lontani ma ancora vivi nella memoria collettiva mediorientale (alzi la mano chi in Occidente ricorda la strage di Damour avvenuta nel gennaio del 1976), Doueiri ribalta continuamente il ruolo di vittima e di oppressore, non prendendo quasi mai le difese nette di una delle due parti. Quando l’ago della bilancia sembra pendere da un lato, sovviene sempre qualcosa a spostarlo. Difficile prevedere la sua posizione se non si conoscessero già i precedenti lavori, The Attack e West Beyrouth, anche se, all’inizio del film, una scritta tende anche a sottolineare che il film pur ispirandosi a una storia tristemente vera è un lavoro di fiction e risponde a esigenze narrative che esulano dal pensiero del regista stesso. Poiché “nessuno ha l’esclusiva della sofferenza”, The Insult vuole sottolineare come vittime e aggressori siano figli di una situazione di guerra secolare che, pur senza bombardamenti, continua ancora nelle teste di tutti quanti, divenendo portatrice di ritorsioni e violenze. In nome di una divisione religiosa che costringe a scegliere tra sincerità e stabilità. A chi giova scoprire la verità e chi ha fatto cosa a chi?
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Diverso per scelta
La sera del 19 settembre 1989 Paolo Letizia, il figlio ventenne di un piccolo imprenditore, viene sequestrato mentre si trova appartato con un amico e due ragazze. Nei giorni successivi, il fratello Amedeo, aspirante attore, prova a capire cosa gli è realmente successo, muovendosi in ambienti estranei al resto della sua famiglia. Lo fa con l’aiuto del cugino Marco e del fratello minore Leonardo. Il territorio in cui si muove è però uno dei più criminali d’Italia: Casal di Principe, comune nel casertano tristemente noto per essere la patria del clan dei casalesi e individuato da Roberto Saviano come il centro indiscusso della camorra casertana nel romanzo Gomorra.
Anni dopo Amedeo Letizia a scrivere Nato a Casal di Principe insieme a Paola Zanuttini, in cui ripercorre quei giorni segnati da sangue, mistiche tradizioni e rituali barbari. Divenuto nel frattempo affermato attore e produttore (tra i titoli che si devono alla sua lungimiranza si ricorda con molto piacere Il resto di niente), Letizia ha scelto di lasciarsi alle spalle un passato non facile dimostrando come con forza e determinazione si può scegliere di essere differenti dal contesto che la vita ti impone. Nonostante la sua famiglia fosse lontana dagli ambienti della criminalità organizzata, il fratello Paolo si muoveva nel mondo dei piccoli crimini e a suo carico vi erano anche un paio di giorni di carcere per un furto ai danni del proprietario del tiro a segno in cui anche Amedeo ha imparato a sparare. In una giungla come quella di Casal di Principe, in cui i boss vanno in giro in Mercedes e le armi si riparano dal ferramenta senza che le forze dell’ordine battano ciglio, pestare i piedi a chi non si deve equivale a una condanna di morte. Solo nel 2013 alcuni pentiti rivelano che Paolo è stato ucciso ma non forniscono ulteriori indicazioni su dove sia stato sepolto. Ciò rende la sua storia ancora particolarmente dolorosa per la famiglia, nel frattempo sconvolta dalla perdita anche del figlio minore Leonardo.
Subito dopo la scomparsa di Paolo e una strana telefonata, la famiglia si convince che il ragazzo sia vivo. La madre Teresa è stremata dal dolore e l’unica fonte di conforto per la donna, splendidamente ritratta da una ritrovata Donatella Finocchiaro, è rappresentata dalla religione tanto che il suo credo la porta fino al cospetto delle visioni della “santa” Natuzza Evola (interpretata da un’altra attrice siciliana in grande forma, Lucia Sardo). Il padre Arturo, con il volto di Massimiliano Gallo, invece spera nelle autorità e si aggrappa a una cartolina. L’unico che indaga nel territorio è Amedeo, che conosce codici, rituali ed esponenti della malavita. Ha la mentalità dello scagnozzo e insieme al cugino Marco e al fratello Leonardo non teme i probabili nemici, organizza anche la sua personale vendetta ma sceglie poi di differenziarsi. “Non hai avuto le palle di ammazzarlo”, inveisce Marco non capendo come invece il cugino abbia finalmente fatto il grande salto, affrancandosi da una vita senza speranza. Scegliendo di non macchiarsi le mani di sangue, Amedeo accetta la proposta di lavoro che cambierà la sua vita per sempre e che gli aprirà le porte della serie tv targata Rai I ragazzi del muretto.
Nel trasporre la storia sullo schermo Bruno Oliviero si affida a un soggetto firmato da Amedeo Letizia, Massimiliano Virgilio e Maurizio Braucci. In maniera ammirevole, evita il rischio di proporre un Anime nere in salsa campana (le tematiche del resto sono simili e Braucci firma anche il film di Francesco Munzi) e affida alla tensione tra criminalità e normalità il compito di sorreggere il racconto di un viaggio iniziatico che porterà a una catarsi totale. Affrontando famiglia, contesto sociale e anche se stesso, il ventenne Amedeo Letizia diviene nelle mani di Oliviero un giovane che tra dolore, violenza e orrore, sfida i propri demoni e le sue origini per fare nascere un nuovo io differente. Cinema di denuncia o sociale, come si diceva un tempo, Nato a Casal di Principe non si concede orpelli narrativi e rimane concretamente ancorato alla storia, con una serie di scene madri naturali e realistiche che riflettono come l’anima in pena di Amedeo scelga di lasciare il girone infernale a cui la vita sembrava predestinarlo. Come il giovanissimo Marlon Brando di Fronte del porto si muove anche l’Amedeo Letizia raffigurato da Alessio Lapice, attore napoletano che, dopo le esperienze televisive di Gomorra – La serie e Fuoco amico, ha esordito al cinema con Il padre d’Italia e che è da tenere d’occhio.
Divertente poi la scelta di Oliviero di regalare un cameo ai veri attori che hanno accompagnato Alessio Letizia sul set di I ragazzi del muretto, da Elodie Treccani a Francesca Antonelli passando per Claudio Lorimer e Lorenzo Amato.
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Diverso per esclusione
Il 7 novembre 2007 una sparatoria in un centro scolastico di Tuusula in Finlandia uccide nove persone: sei studenti, un’infermiera scolastica, la rettrice e l’attentatore stesso, ovvero Pekka-Eric Auvinen, studente della scuola. Dodici restano invece ferite dagli spari e altre undici dalle schegge di vetro. La ragione del gesto sembrano incomprensibili ma le indagini rivelano pian piano come Auvinen avesse nel tempo caricato diversi video su YouTube che lasciavano presagire qualcosa di tragico. Il suo essere studente ha poi portato in superficie i suoi interessi culturali e la sua stessa vita scolastica, fatta di mancanza di integrazione e di atti di bullismo di cui era spesso vittima. Emarginato perché considerato strambo, Auvinen ha trovato nella strage il suo riscatto.
Poiché eventi di tale portata non sono soventi nella placida e innevata Finlandia, la regista siculofinlandese Anne Riita Ciccone è rimasta molto colpita dall’episodio e ha maturato nel tempo il desiderio di portarlo sullo schermo con I’m – Infinita come lo spazio, affrontandolo però da un punto di vista fittizio, ovvero quello della liceale Jessica. Jessica vive in un mondo distopico fuori dal tempo e dallo spazio: nessun dettaglio ci indica dove siamo e in che anno. Ci sono boschi coperti di neve e fitta vegetazione in cui la nostra moderna Cappuccetto Rosso scappa dal lupo e ci sono smartphone, internet e musica alternativa. Ma c’è soprattutto il disegno, talento di cui è straordinariamente dotata la ragazza che a scuola viene considerata una reietta a causa delle sue abitudini, delle sue passioni e delle origini familiari. Di Jessica capiamo subito che ha un papà immaginario, con tanto di testa di zucca, e una mamma invece eccessivamente invasiva con cui non ha un rapporto felice. Sorella maggiore di una bambina, Jessica non accetta nemmeno la sorella e fa di tutto per non vivere una distesa dimensione domestica. Rinfaccia alla madre di non capirla e di non essere riuscita a darle una vita migliore di quella prospettata dal suo essere una madre single lavoratrice, commessa di un ipermercato. Le uniche persone con cui Jessica ha un sottile legame sono un’amica come lei esclusa, un compagno di scuola che vive nel suo stesso triste condominio di periferia e una cantante non più in tenera età che cerca disperatamente di agguantare il successo. Non le va bene neanche con il preside e le sue insegnanti, troppo attenti a regole e programmi scolastici per lasciare adito e spazio a personalità lontane dai comportamenti da squadrone accettati.
In un mondo costantemente connotato da colori grigi, dall’hockey e dalla passione per la caccia, Jessica ha il potere (visionario) di trasferire i suoi fumetti dalle pagine del suo quaderno alla realtà. Citando ora Alice nel paese delle meraviglie o Cappuccetto Rosso come già si diceva prima ma in chiave gotica e non nei toni fin troppo consueti scelti invece da Guillermo del Toro in The Shape of Water, la Ciccone si diverte a sperimentare proprio nella dimensione onirica del fumetto trasformando il dramma socio-adolescenziale in un drama fantasy tridimensionale. Il mondo del fumetto assume colori che il mondo reale non è fino al momento in cui esplode la violenza di un reietto. Nell’asfittico panorama cinematografico dei prodotti generazionali italiani, I’m - Infinita come lo spazio è sicuramente innovativo per forma. Qualche difetto invece lo subisce nel sovraccarico di spunti di riflessione che la Ciccone dissemina: se sia dettato da fattori contingenti o frutto di volontà, non è dato saperlo. Prevale poi un fondo ottimistico quasi utopico: si invita a perseguire comunque i propri sogni e a provare ad agguantarli una seconda volta qualora un primo tentativo fallisca per volontà di un destino avverso. Altrimenti, si può essere felici anche con una vita semplice, una casa modesta e un lavoretto per sbarcare il lunario per evitare di fare la fine di Susanna, la vicina di casa che, tra i pregiudizi di chi la circonda, sogna ancora di fare la rockstar. E, a proposito di Susanna, va dato plauso alla regista di avere affidato a Barbora Bobulova, fin troppo sottostimata per colpa delle tante fiction rassicuranti interpretate, il ruolo della sua vita.
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(2 - Continua)
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