CANNES 70, Prime considerazioni.
Il Festival si avvia nella fase terminale: domani, fuori concorso, tocca a Roman Polansky aprire la scena ("D'apres una histoire vraie", con Eva Geen ed Emanuele Seigner), cui seguira' la conferenza di "You were never really here" di Lynne Ramsey e poi sara' il momento dell'attesa. E qui parliamo di Palma d'Oro.
Tra i piu' accreditati, qui in sala stampa, pare esserci il russo che sbanco' Venezia qualche tempo addietro (era il 2003, "Il ritorno"): il cineasta dall'impronunciabile cognome Zviagintsev sembra aver convinto anche i piu' scettici, con "Loveless", forse perche' lo scenario rivale non e' sembrato formidabile come poteva apparire sulla carta. Michel Haneke (in concorso con "Happy End") e' piaciuto molto ma a Cannes difficilmente si ripetono e la sua vittoria e' troppo recente (2012, "Amour") per essere replicata.
L'outsider di lusso pare invece essere quel Todd Haynes che finora ha raccolto poco, soprattutto con l'acclamato "Carol" ed anche se "Wonderstruck" pare essergli inferiore, mantiene buone chance di piazzamento.
Piu' scalpore ancora, pero', desterebbe la consegna della Palma a Bong Joon Ho ("Okya"), cineasta sudcoreano molto amato dai Cahiers du Cinema ma che ha finora mostrato poco appeal commerciale. Mal distribuito in Italia, Bong potrebbe essere sdoganato dalle nostre parti proprio grazie al consenso ufficiale del Festival.
In tal caso, pero' canterebbe vittoria Netflix, che assesterebbe un colpo molto forte all'industria cinematografica: la piattaforma, e' noto, ha altre mire e non e' certo prioritaria la distribuzione in sala.
Se pero' il Festival decide di stare ad Oriente, puo' ancora guardare in Corea: "The Day After" di Hong Sang-soo si e' rivelata un'opera straordinaria, pur se limitata commercialmente per via del bianco nero e degli interpreti poco conosciuti in Europa.
Va qui detto che alcuni autori che aspirano alla Palma sembrano essere cresciuti tra le mura di Cannes, passando prima per la sezione "Un certain regars" in qualche caso, poi per il concorso principale. Questa tendenza implica almeno due cose: piuttosto che "scegliere" il film, il Festival lo "parametrizza" prima del suo compiersi. Insomma, pilota, negli anni a venire, cio' che potrebbe accadere: le vittorie, infatti, sono frutto di un percorso, spesso complesso ma seguito piu' o meno da tutti i premiati.
Non e' esente da questo stesso percorso l'ultimo, serio candidato alla vittoria finale: Yorgos Lanthimos, in concorso con "The Killing of a Sacred Deer".
In tal caso, infatti, il Festival (la cui giuria, ricordiamolo, e' presieduta da un europeo, il regista spagnolo Pedro Almodovar) coglierebbe l'occasione di premiare un autore che gioca in casa (ha sposato l'attrice francese Ariane Labed, vista in "Alps" e "Lobster"), soprattutto di restare in Europa, dopo i premi ad Audiard ("Dheepan") - 2015 - e a Loach ("Io, Daniel Blake") - 2016. Il film del cineasta di origine greca (ma finanziato dal Regno Unito), oltretutto, avrebbe il sapore della continuita' a tutti gli effetti: la lingua inglese, lo sviluppo narrativo. E, in fondo, anche l'unico che ha come protagonista un divo, Colin Farrel. In fondo, anche uno dei pochi che ha come protagonista un uomo. E il Festival, nonostante tutti i proclami (negli ultimi undici anni, solo due presidenti di giuria donna, Isabelle Huppert e Jane Campion, mentre nessuna regista ha vinto una Palma d'oro nei trascorsi 20 anni), e' sempre stato tendenzialmente maschile....
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