“Le testimonianze che possono mandare un ragazzo alla sedia elettrica debbono essere precise”. Questo dice il giurato “numero otto”, che usa le parole per smascherare un pregiudizio e vestire di altri significati possibili la ricerca della verità. Agisce con calma, senza fretta, come chi sa che la maggioranza decide ma non ha sempre ragione, che è tutt’altro che infallibile il metodo di adottare un comportamento adeguandosi al senso comune senza che esso sia stato sottoposto a un confronto dialettico ragionevolmente argomentato. Un uomo sta per essere condannato a morte, ma la superficialità di atteggiamento di undici sui dodici giurati chiamati a sentenziare all’unanimità su un caso di parricidio fa prevalere la voglia di terminare al più presto il dibattimento, sulla necessità imposta dal valore sacro di una vita umana di arrivare a una decisione definitiva solo dopo aver sgombrato ogni dubbio sulla possibilità di essersi sbagliati. Chi pensa alla partita di baseball allo stadio e chi si preoccupa delle condizioni metereologiche, chi si mette a fare giochi d’abilità mentre si sta discutendo il caso e chi aspetta soltanto di tornarsene a casa. Il caso sembra di facile soluzione fin dall’inizio, c’è chi giura di aver visto qualcosa e chi di aver sentito qualcos’altro e tutto riconduce alla colpevolezza dell’imputato. Tranne la certezza assoluta che più elementi indiziari facciano necessariamente una colpa sicura. E’ in questo spazio che si inserisce l’eloquio semplice e incisivo del giurato “numero otto”, che si prende tutto il tempo che ci vuole per ribadire la natura criminosa di una decisione presa in maniera pregiudizievole e comminata basandosi sulle sole sensazioni di partenza. Lo fa insinuando il ragionevole dubbio in argomentazioni che si ritenevano acquisite una volta e per tutte, facendo emergere particolari non tenuti in debita considerazione in precedenza, che aiutano a inquadrare il fatto incriminato da una diversa angolatura e a palesare tutte le crepe di un pronunciamento di condanna adottato con colpevole faciloneria. Così riesce a montare un caso di coscienza di stringente complessità psicologica e a portare uno alla volta a dubitare delle proprie iniziali certezze. Non per condurli a pronunciarsi a favore dell’innocenza, ma per sancirne solennemente la presunzione fino a prova contraria.
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