Un errore a lungo riportato sulla pagina Wikipedia a lui dedicata ha indotto più di una testata giornalistica a celebrare il suo centenario almeno due anni fa. In realtà sarebbe bastato consultare una fonte più affidabile (leggasi: la sezione di cinema della Treccani, che da qualche tempo ha messo online le sue fondamentali schede critiche) per accertarne la vera data di nascita.
Si sta parlando di Steno, all’anagrafe Stefano Vanzina, babbo di Carlo ed Enrico ma soprattutto umorista, regista e scrittore nato il 19 gennaio del 1917. Questi anniversari tondi costituiscono l’occasione per ricordare personaggi, se non dimenticati, perlomeno un po’ messi in disparte nell’avventurosa storia, in questo caso, del cinema italiano.
E questo perché Steno è una figura abbastanza curiosa: adolescente piccoloborghese che vive in qualche modo l’esperienza del declassamento economico, ex studente di giurisprudenza diplomatosi scenografo alle Belle Arti, entra ventenne nella grande famiglia del Marc’Aurelio, il principale giornale satirico uscito nel Ventennio fascista.
Accanto al giovane Vanzina, la redazione presenta tipini, per citare i più celebri, come Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Cesare Zavattini, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Gioachino Colizzi (alias Attalo) e, successivamente, Federico Fellini. Appare evidente da questo breve elenco quanto quel giornale abbia formato una generazione di sceneggiatori che, alla fine della guerra, ha (re)inventato prima il cinema comico italiano e poi posto le basi per la cosiddetta commedia all’italiana.
E basta vedere vignette, disegni, calembour per capire quanto quella rivista abbia inciso nel cinema del dopoguerra, fondato sì sul bozzetto e sulla caricatura ma anche sulla consapevolezza che per ridere si debba essere profondamente seri; o comunque quantomeno coscienti delle conseguenze di una risata.
Perciò si tende spesso a dimenticare il sodalizio che legò Steno all’amico Mario Monicelli tra il 1949 e il ’52, tre anni nei quali permettono a Totò di interpretare personaggi realistici senza rinunciare al metodo folle della sua recitazione funambolica e a Aldo Fabrizi di tratteggiare due ritratti in cui la sua prepotenza attoriale è relegata a corollario presupposto di un’umanità sincera.
I loro film rappresentano l’ultimo vero fuoco della stagione neorealistica laddove viene alimentato con i codici dello spettacolo brillante. La parodia del neorealismo diventa l’ultimo avamposto possibile proprio del neorealismo prima del suo definitivo tramonto (Bellissima di Luchino Visconti, Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, i film di Roberto Rossellini con Ingrid Bergman).
Aver capito le potenzialità drammatiche della maschera comica di Totò è un merito non sempre riconosciuto ai due cineasti, che lo rendono uno sfollato con prole (Totò cerca casa, nato quasi per caso e tratto non a caso dai disegni di Attalo), un disgraziato mariuolo (il capolavoro Guardie e ladri), un piccolo borghese nelle maglie della burocrazia (il cecoviano Totò e i re di Roma) e succube del femmineo (Totò e le donne, una delle nostre prime e grandi commedie di costume).
Al contempo hanno garantito a Fabrizi di capitalizzare il suo riscontro popolare mantenendo un legame con le atmosfere del cinema d’autore con cui ha flirtato negli anni quaranta (Rossellini, certo; ma anche Renato Castellani e Alberto Lattuada): e c’è una particolarissima sintesi di grazia e umiltà, brio e patetismo nei caratteri di Vita da cani (il capocomico che sonda le simpatiche politiche del pubblico) e Guardie e ladri (il disgraziato carabiniere che discute di problemi di salute col disgraziato ladro, entrambi affannati).
Separatosi da Monicelli, che sviluppa un tipo di commedia di costume più legata alla società, Steno si mette in proprio e nell’arco di circa trentacinque anni realizza una sessantina di film e un paio di prodotti televisivi, affermandosi tra i più prolifici artigiani della nostra industria. Al pari del vecchio sodale osteggiato dalla censura in Totò e Carolina, è vittima delle forbici di Stato per qualche coscia scoperta nell’invece innocuo Casanova con Gabriele Ferzetti.
Per altre dieci volte dirige Totò, che si affida a lui nel primo lungometraggio a colori del nostro cinema (l’antologico, fumettistico, memorabile Totò a colori) e nella mutazione piccolo borghese della sua maschera (I tartassati, ottimo aggiornamento di Guardie e ladri, ma anche la pochade matrimoniale Letto a tre piazze), ma anche nel comico-nero (l’esilarante Totò Diabolicus) e in una delle idee più assurde e fallimentari di Dino De Laurentiis (L’uomo, la bestia e la virtù, da Pirandello, con Orson Welles!), fino all’epilogo (Il mostro della domenica, episodio antigiovanilistico di Capriccio all’italiana).
Steno ha un ruolo fondamentale anche nella creazione di Alberto Sordi, concedendo al carattere di Nando Meniconi di Un giorno in pretura (tipico prodotto dell’epoca: una passerella di attori in una cornice legale) di diventare il protagonista di Un americano a Roma (raccolta di mirabili sketch tenuta insieme dalla potenza di un personaggio iconico). Con la complicità dell’immensa Franca Valeri aka Lady Eva alias Filomena Cangiullo, mettono a segno il piccolo capolavoro della crudeltà Piccola posta.
Come con Totò, c’è da segnalare un’operazione assurda: il disastroso Mio figlio Nerone, con Gloria Swanson gloriosamente spaesata sul viale del tramonto e Vittorio De Sica meraviglioso Seneca. E mentre il divo romano prendeva strade più mature e meno legate alla macchietta seppur di altissimo livello, Steno battezzava Nino Manfredi (Guardia, ladro e cameriera), consacrava Ugo Tognazzi (Totò nella luna, A noi piace freddo… con l’allora spalla Raimondo Vianello), recuperava Renato Rascel (Un militare e mezzo con Fabrizi).
Ponendosi a metà strada tra la prima fila (Monicelli, Dino Risi, Antonio Pietrangeli…) e i mestieranti del panorama brillante (Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque, Giorgio Bianchi, Giorgio Simonelli…), Steno è un regista affidabile, mai invadente, consapevole del proprio ruolo, esponente di un cinema di consumo fieramente popolare finanche nella sua deriva usa-e-getta, pieno di divi e divetti in raccolta fondi o inadeguati a storie più ampie di una farsa.
Un tipo di professionismo che gli permette di affrontare con lo stesso approccio pratico e semplice il filone bellico post-Grande guerra (I due colonnelli), la parodia western (I gemelli del Texas), la commedia ad episodi (Letti sbagliati), il cappa e spada (Rose rosse per Angelica), la corrente pop (Arriva Dorellik). Al di là degli esiti spesso non memorabili e delle scelte dettate da mode ed umori, dimostra tuttavia uno spirito di servizio non comune che in qualche modo nega l’autorialità in favore del mestiere.
E però negli anni settanta qualcosa cambia, perché accanto ai soliti lavori di consumo si stagliano alcuni film che testimoniano la volontà di affrancarsi dalla precedente produzione, affollata e con rare punte d’eccellenza. L’audace cinismo de Il trapianto, la grottesca provincia de La poliziotta e la divertente cialtroneria proletaria di Febbre da cavallo esprimono un’ideologia d’evasione popolare in un decennio tetro e minaccioso.
Che viene altresì raccontato nella sua dimensione più angosciante ne La polizia ringrazia, il primo poliziottesco ancora immune ai sussulti reazionari dei giustizieri della notte. È il primo lavoro, peraltro drammatico, che Steno firma col suo nome di battesimo, a cui segue Anastasia mio fratello, bislacca e fosca farsa d’oltreoceano con innesti di mafia movie.
Ma Steno resta anche un regista al servizio dei divi: lo dimostrano la serie di Piedone con Bud Spencer, quattro commedie sempreverdi un po’ poliziesche e un po’ d’avventura; il monologo pseudo femminista Amori miei, veicolo per Monica Vitti, inondata di quei pochi premi dei quali può vantarsi la filmografia del regista
E soprattutto i cinque lavori con Renato Pozzetto, quasi un fumetto della sua gioventù, protagonista de La patata bollente, tra i più alti esiti del percorso vanziniano, per la capacità di raccontare l’eterna omofobia e le contraddizioni della chiesa comunista, la scoperta dell’identità sessuale e il quotidiano del popolo operaio.
Piena di ricalchi, riproposizioni e giri a vuoto, la più tarda opera di Steno è un passaggio di consegne ai figli, a tutt’oggi gli unici a continuare quel tipo di cinema, spesso sciancato e discutibile, che azzarda una narrazione popolare priva di sovrastrutture. Con la differenza che oggi applicano una grammatica e un ragionamento perlomeno anacronistici con la contemporaneità cinematografica.
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