Al terzo incontro fra cinema e teatro Branagh abbandona Shakespeare per un classico del ‘900, John Osborne, punta di diamante di quella generazione Anni ‘50, The angry young men, che, in una ribellione violenta e globale contro la società dei padri, produsse analisi provocatorie della vita, incursioni sovversive contro la società del conformismo e del benessere ai limiti di quella soglia critica che può anche aprirsi sul vortice della follia.
LA GENESI DEL DRAMMA
The Entertainer (L’istrione) nacque nel ’57 e tutto cominciò il giorno in cui sir Lawrence Olivier fu costretto, suo malgrado, a portare a teatro Marilyn, raggiunta dal marito del momento, Arthur Miller.
Al Royal Court andava in scena Look back in anger (Ricorda con rabbia),e solo l’insistenza dell’americano vinse le resistenze di sir Lawrence. Erano giorni duri per lui, girare Il Principe e la Ballerina con la capricciosa diva hollywoodiana non era uno scherzo, e assistere allo spettacolo di un giovane angry man era davvero l’ultimo dei suoi desideri. Prevalse tuttavia un fair play tutto londinese e i tre andarono.La serata finì dietro le quinte con Miller entusiasta e Olivier che chiedeva a Osborne di scrivere una commedia solo per lui.
E Marylin? Chissà, nessuno si curava di annotare i suoi pensieri, bastava che ci fosse (ma siamo convinti che anche lei abbia apprezzato molto).
Olivier, avuto il copione da George Devine, direttore artistico del Royal Court, scelse dapprima la parte del padre, Billy Rice, poi però decise di essere Archie, il centro della scena, e fu trionfo.Joan Plowright, che doveva ben presto diventare Lady Olivier, fu la prima attrice. Sembra che sul personaggio interpretato il grande attore abbia detto: “E’ il ruolo migliore che io abbia mai interpretato in un testo moderno”, e il successo fu tale che lo spettacolo tenne a lungo il cartellone al Royal Court, per poi passare nel West End e infine approdare al cinema nel 1960 con Gli sfasati per la regia di Tony Richardson.
THE ENTERTAINER DI KENNETH BRANAGH
A distanza di tanti anni avere un predecessore di tali dimensioni non sembra creare problemi a Branagh, che con molta diplomazia ha dichiarato:
“ Io mi limito ad ispirarmi a Olivier, è impossibile misurarsi con giganti del genere. Di necessità, il teatro riguarda il momento attuale e non il tentare di competere con le grandi interpretazioni del passato.”
Greta Scacchi e Gawn Grainger, rispettivamente moglie e padre del protagonista Archie Rice, sono ottime compresenze al suo fianco, mentre la giovane Sophie McShera nel ruolo della figlia Jean si rivela piuttosto acerba, una vocina troppo aspra e sottile e una presenza scenica troppo monocorde per il ruolo di rilievo che Osborne le attribuisce. Quanto a Branagh, le sue indiscutibili doti istrioniche sono pienamente coerenti con il personaggio, anche se qualche critico londinese particolarmente impietoso ha mormorato che “… sembra a volte più preoccupato di esibire la sua capacità ballare il tip tap che non le ferite e i fallimenti del protagonista”. Giudizio troppo impietoso, una certa goffaggine appartiene al personaggio e dunque val la pena di addentrarsi fra le pieghe del dramma per valutarne la qualità.
IL TEATRO AL CINEMA
Come per le recite che l’hanno preceduta, va sottolineato il pregio di questa produzione offerta al cinema partendo dal teatro.
Lo spettatore cinematografico è messo in condizione di non avvertire il disagio di vivere un’esperienza teatrale fuori dallo spazio teatrale propriamente detto, il feedback non s’interrompe, piuttosto cambia, nasce un terzo modo, inedito, di porsi di fronte allo spettacolo, una rivoluzione della visione fino ad oggi tenuta rigorosamente separata da tutto quello che concorre a fare del teatro il teatro e del cinema il cinema.
Non sappiamo se questa terza via avrà seguito, spesso le rivoluzioni s’interrompono sul nascere, vittime di interferenze, e la scarsa affluenza di pubblico cinematografico, tendenzialmente indifferente di fronte allo spettacolo teatrale, potrebbe essere un deterrente per volontà pionieristiche come quella di sir Kenneth Branagh e Rob Ashford.
Non trattandosi di semplice registrazione con strumentazione audiovisiva di uno spettacolo teatrale ma di qualcosa di molto diverso, va colta la cura registica nell’organizzazione globale (luci, tecniche di ripresa, scelta delle inquadrature) e l’attenzione ai contenuti con cui sono riempiti gli spazi morti, quelli, cioè, in cui a teatro si aspetta che il sipario si alzi o, durante i lunghi intervalli fra gli atti, si va al bar o si fa un giro nel foyer. In quegli spazi vengono proiettate interviste di vario genere o arriva uno dei registi a introdurre lo spettacolo o ancora, come per The entertainer, sullo schermo di un vecchio televisore Anni ’50 passano didascalie. In tono leggero, sotto forma di domanda e risposta, si parla della crisi di Suez (sfondo storico del dramma) nell’autunno del 1956, quando Inghilterra, Francia e Israele invasero l’Egitto ma furono costrette a ritirarsi dalle pressioni degli Stati Uniti e delle sorti del music hall nel mondo, del suo tramonto e della fine del razionamento alimentare in un’Inghilterra che in quegli anni assisteva alla fine del suo ruolo di impero coloniale.
IL DRAMMA DI OSBORNE
The Entertainer, l’istrione, è Archie Rice.
Chi è Archie Rice?
Archie è un uomo in disarmo. Mezza età, attore di music hall in un tempo in cui il music hall è in pieno declino, soppiantato da cinema e televisione, si trascina fra sale di quart’ordine in spettacoli melensi rivolti ad un pubblico annoiato. Ma Archie non è una vittima della Storia, non c’è nulla in lui che ne faccia un eroe. Cinico quanto basta per mimetizzare quella che in realtà è solo apatia, ha affogato nell’alcool tutti i suoi ideali e sembra non avere nessun futuro che non sia un insensato trascorrere dei giorni. Intorno a lui il microcosmo della famiglia dà vita ad un movimento sulla scena che non si articola in una vera e propria trama. Osborne ritrae brandelli di vita in un interno, quello che vediamo è l’approdo al presente di storie individuali consunte dal tempo, traiettorie di cui si sono quasi cancellate le tracce.
Se del passato è rimasto poco, davanti c’è il vuoto.
Per brevi flash lo spettatore ricostruisce l’insieme, dà un ordine al caos, legge come racconto qualcosa che racconto non è ma vita in diretta. E allora il padre di Archie, Billy, cittadino dei tempi gloriosi dell’Inghilterra imperiale e attore dei tempi d’oro del music hall, è un vecchio che vive di ricordi ed è appena tollerato dal resto della famiglia. Phoebe, seconda moglie di Archie, che per lei aveva tradito senza scrupoli la prima moglie, è una donna spenta, che ha dovuto sopportare solo la miseria e ora beve, parla senza tregua in un cicaleccio convulso e si rifugia spesso al cinema. Dei tre figli di primo letto di Archie, uno muore a Suez, dai giornali arriva la notizia mentre lo schermo sul fondo fa passare filmati di repertorio che ricordano “la grande umiliazione” del Paese. L’altro è un ragazzo incolore che si proclama obiettore di coscienza solo per pigrizia e la più piccola, Jean, appena tornata dopo la fine della sua storia di coppia, è l’unico personaggio positivo che ancora crede in valori come libertà, impegno e solidarietà. Sarà infatti lei a dire in faccia al padre la verità, che è piccolo uomo illuso e senza decoro, sulla scena e nella vita, artefice con le sue mani dei suoi fallimenti.
Si respira il grigiore di quegli anni in questo dramma, quella pena del vivere che non è tragedia, non ne ha la nobiltà, è piuttosto lento brulicare sul fondo di reduci da un passato che nulla ha insegnato in marcia verso un futuro ammantato di nebbia.
La grandezza di Osborne è stata in questa capacità di unire gli opposti, di suscitare pena e invettiva insieme, disprezzo e pietà.
“Il suo vero talento è il dissenso” si è detto di lui e le svolte della sua vita lo hanno dimostrato, guadagnandogli l’etichetta di “dandy con il mitra”. Vita lussuosa, ossessione di diventare povero, contraddizione eretta a sistema, Osborne non rappresenta, è i suoi personaggi, li mastica e li sputa, si contraddice ogni volta e continua a colpire: “ Un testo è scritto senza pensare ai significati. Quelli usciranno fuori. Stimolare, colpire, ferire, discutere: a tutto questo l’autore vuole arrivare”.
Intere generazioni di giovani si sono riflesse nei suoi personaggi senza speranza, in rotta di collisione contro muri invisibili. Nel suo orizzonte smarrito, senza eroi né martiri, quei giovani si sono rispecchiati, persi tra le maglie dell’economia del benessere, schiacciati fra carrierismo e conformismo, affogati, diremmo oggi, figli dell’era Bauman, fra i flutti della società liquida privi di salvagente.
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