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3% - Una distopia reale
di Andrea Fornasiero ultimo aggiornamento
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L’assunto della nuova serie di Netflix 3%, la sua prima produzione brasiliana, ricorda quelli di The Hunger Games e Divergent, dove i giovani protagonisti sono costretti a un brutale rito di passaggio, imposto loro da una società divisa in caste. Nel caso di Hunger Games il rito è letteralmente un gioco al massacro, trasmesso come intrattenimento per le masse, in Divergent invece si tratta di vedersi assegnato un ruolo sociale a seconda delle proprie attitudini e qualcosa di analogo accade in 3%, dove il concetto di meritocrazia è spinto all’estremo. I ventenni dell’Entroterra, una sorta di grande favelas costruita in un avvallamento (visivamente simile a una cava), affrontano una serie di prove per essere ammessi a vivere nell’Offshore, un’isola di benessere proibita al resto della popolazione confinata in un mondo impoverito.

La valutazione inizia con una sorta di colloquio motivazionale, poi si passa a test d’intelligenza e si arriva infine a prove che riguardano i rapporti all’interno di un microcosmo sociale. Quale sia il merito che i candidati devono davvero dimostrare è sfuggente e, considerati gli ultimi test, sembra si tratti prima di tutto di una cieca fede nel sistema. Un po’ come le grandi aziende pretendono dai propri dipendenti una totale adesione al loro modello e ai loro obiettivi. In questo senso 3% è molto più vicino alla nostra realtà delle annacquate distopie young adult citate prima. Fin dal titolo del resto si evoca il discorso sulla distribuzione di ricchezza nel mondo reale e ci sono pochi Paesi con una maggiore sperequazione censitaria del Brasile.

Ubbidienti o dissidenti

Come ci si aspetta da questo tipo di storie, c’è anche un movimento di resistenza, qui denominato la Causa, che si batte per cambiare il sistema. Sentiamo poco però della loro ideologia, mentre assistiamo a un prete che predica quella delle élite, rinforzando l’idea che la questione sia davvero di fede. Del resto il sistema sociale si rivela alla fine per certi versi più giusto del nostro, visto che è privo di educazioni esclusive o di nepotismi a sbilanciarlo, e offre davvero una uguale possibilità a tutti i candidati, persino a Fernando che gareggia su una sedia a rotelle. Credere nel sistema non è insomma solo una propaganda che viene rifilata alle classi subalterne, ma qualcosa a cui anche le élite devono sottostare e di cui devono essere convinte, pena un percorso di riabilitazione.

Togliendo di torno questioni ancillari come l’ereditarietà della classe sociale o l’operato più o meno criminale della grandi corporazioni (che non sappiamo qui se esistono e nemmeno cosa fanno), la serie si concentra dunque solo sulla disparità di benessere, chiedendoci se sia tollerabile anche di fronte a un accesso uguale per tutti (per quanto spietato e ristretto) alla classe abbiente. Non c’è inoltre un giudizio morale sulle élite, della cui vita sappiamo poco ma che non vediamo dedicarsi a pratiche perverse né frivole. Anzi scopriamo che sono a loro modo sottoposti ad almeno un sacrificio che non è richiesto a chi vive nell'Entroterra. Al centro di tutto c’è il processo di selezione e come questo sia in fondo arbitrario, volto a eliminare chiunque abbia dei dubbi e non sia capace di scelte estreme pur di arrivare a far parte del 3%. Quel che ci chiede la serie è se siamo disposti ad accettare un mondo in cui chi ce la fa ha tutto, mentre la grandissima maggioranza che non ce la fa deve vivere con poco o nulla. Basta una speranza a rendere giusta una società?

La produzione e l’estetica

Supervisionata dal direttore della fotografia di City of God, César Charlone, 3% è una produzione sicuramente a basso budget rispetto agli standard dei Netflix original, ma la povertà spoglia delle location e il grandissimo prevalere degli interni contribuiscono alla particolare atmosfera di una società che si vuole quasi disumana. Ha inoltre un effetto vintage che richiama le produzioni fantascientifiche di una volta, realizzate in ristrettezze economiche e prima della computer graphic, quando dovevano bastare i dialoghi e spazi più insoliti che visionari a descrivere ampi scenari che non avremmo mai visto. La serie funziona paradossalmente meno bene nell’ambiente dell’Entroterra, che sarebbe più vicino alla nostra realtà, ma che appare invece piuttosto fasullo. D’altra parte viene anche esplorato pochissimo nel corso della stagione, quindi non è difficile chiudere un occhio.

Il cast, che anche lo spettatore italiano dovrà ascoltare in lingua originale vista l’assenza di una traccia doppiata, non ha l’intensità cui siamo abituati dagli attori americani e inglesi, ma compensa con volti credibili, tutti adatti alla parte sia che si tratti delle élite, sia che provengano invece dal depresso Entroterra. Tra l’altro i personaggi sono giovani, ma afflitti da problemi molto concreti che li hanno resi già maturi e dunque immuni agli amorazzi adolescenziali di molte serie young adult. In particolare Vaneza Oliveira nei panni della determinatissima Joana risulta davvero convincente, così come funziona la faccia da schiaffi del belloccio Rodolfo Valente per Rafael, mentre nel difficile ruolo di Ezequiel, il leader della selezione, l’attore João Miguel fa del suo meglio ma sembra difettare del necessario carisma.

Narrativamente la serie vanta una buona compattezza, con otto episodi dalla durata variabile ma mai eccessiva e con le puntate intermedie che sono costruite su due piani temporali, secondo il modello di Lost, tra i flashback di un personaggio e le scene al presente. La conclusione trova poi alcune svolte imprevedibili e soprattutto rinforza il tormento personale di Ezequiel, di cui prima viene celato un tassello cruciale e che il finale rimette in prospettiva. In una seconda stagione il budget dovrà essere necessariamente ampliato, perché gli ambienti della serie saranno più diversi e aperti, ma è una preoccupazione per il futuro. 3% è una buona sorpresa, migliore e più genuina di tante dozzinali produzioni di fantascienza seriale americane e canadesi.

 

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