Qualche mese fa, in occasione del trasferimento di alcuni amici in altre città d’Italia e all'estero e considerata la passione per i film che ci accumuna, io e questi amici abbiamo deciso di aprire un modernissimo “cinewhatsapp”, versione 3.0 del cineforum. Per impedire, come accade spesso in questi casi, di perdere i contatti e di sentirci solo una o due volte all'anno, il che avrebbe causato la prematura morte di questo nostro progetto cinematografico, all'apertura del gruppo è seguita la redazione di regole precise e imprescindibili che regolavano l’ordine di scelta dei film e il tempo disponibile per guardarli, il metodo di votazione e le penalità per chi mancava di vederli. Una delle regole prevede che ogni mese uno di noi proponga un film.
Il film scelto per il mese di ottobre è stato il recentissimo L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, diretto da Jay Roach e nominato agli oscar grazie alla meravigliosa performance di Bryan Cranston. Nel film si racconta la vita dello sceneggiatore Dalton Trumbo, uno degli artisti cinematografici hollywoodiani che durante il maccartismo venne sospettato di comunismo e condannato a 10 mesi di prigione per il suo rifiuto di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane.
La mia impressione è che nel film di Jay Roach ci sia un po’ di tutto, in maniera confusa. Ovviamente è impossibile affrontare in un solo film tutti gli aspetti della vita di Trumbo (ma in generale della vita di chiunque), tuttavia il film sembra non sapere quale frammento scegliere, quale via intraprendere, se la vita pubblica o quella privata, se i rapporti con amici, colleghi e famiglia o gli eventi più cronachistici del processo e finisce per ammiccare a entrambi, col solo risultato di un mediocre pot pourri di elementi, legati con non molta eleganza.
Non avendo trovato un filo conduttore preciso ho deciso di separare io, da questo calderone pieno di roba, un aspetto che ho trovato particolarmente interessante, e cioè il puro piacere della creazione, il desiderio e la gioia di essere autore che vengono rappresentati in due scene in particolare. Una volta uscito da prigione, Trumbo si ritrova a non poter più lavorare se non sotto falso nome e sotto falso nome (usa il nome di un amico prima e uno pseudonimo poi) scrive le sceneggiature di Vacanze Romane e La più grande corrida. Per entrambe, Trumbo vince un oscar. Ed ecco che arriviamo alle due scene in questione. Due scene simili in cui la famiglia dello sceneggiatore è riunita davanti al televisore ed esulta quando i due film ricevono l’oscar alla migliore sceneggiatura. Il nome di Dalton Trumbo non viene nominato nemmeno una volta, nessuno doveva sapere di chi fossero realmente le due sceneggiature e tuttavia il sorriso nei volti di moglie e figli, e dello stesso Trumbo, sembra non far trapelare alcun segno di rancore o di risentimento, solo pura gioia della vittoria. Del riconoscimento, non importa se pubblico. Del sapere dentro di sé che quel prodotto, apprezzato, quel lavoro, sudato, è frutto delle proprie mani e della propria mente. È vero che probabilmente la prima e più importante spinta a lavorare in incognito veniva dalla necessità di portare il pane a casa e i due oscar significavano più soldi (anche se non direttamente dall’Accademy), tuttavia voglio pensare che ci sia qualcos’altro che vada oltre il materiale e che quella felicità sia la felicità di una consapevolezza interiore e condivisa con pochi che il proprio lavoro valga, che <<io>> valgo.
Non sappiamo con certezza se un sorriso si sia realmente dipinto sul volto del vero Dalton Trumbo, ma poco importa. Ciò che il film, forse inconsapevolmente, sembra voler mostrare è che l’orgoglio è meno forte della felicità di riconoscersi, del piacere di sapersi “autore”. L’autorialità allora ha poco a vedere con i vari diritti d’autore e molto con il sapere di aver dato vita a un’opera di valore. Non finisce tutto qui però, una domanda infatti nasce spontanea e riguarda la natura umana: se il piacere tutto intimo e privato di sapere di essere l’autore di un buon prodotto non emerga solo quando questo viene riconosciuto “buono” dagli altri e dai professionisti del mestiere in particolar modo. Insomma, lo sceneggiatore di Vacanze Romane sarebbe stato ugualmente soddisfatto di sé se il film non avesse vinto alcun premio? In fondo, forse, la sicurezza in se stessi e in ciò che si crea non può prescindere da un anche minimo riconoscimento esterno, non importa se diretto alla persona che ha realmente creato o a un suo prestanome. Tuttavia rimane il fatto che non è importante che gli altri sappiano a chi realmente va il riconoscimento, l’importante è che colui cui realmente è riferito provi quella soddisfazione che ogni premio alla fatica suscita.
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