Un ristorantino notturno, aperto da mezzanotte alle sette del mattino, con posti solo al bancone e un menù striminzito che recita un unico piatto, "zuppa di miso con maiale", e alcuni alcolici: il cuoco e proprietario è però disposto a cucinare di tutto, se ha gli ingredienti. E così finisce spesso per preparare piatti caserecci ma pregni di ricordi, equivalenti della celebre madeleine proustiana che gli avventori mangiano per tornare con la memoria a tempi passati più o meno felici.
Un’idea semplice quella di Midnight Diner: Tokyo Stories che deriva da un manga semplicissimo di Yaro Abe (titolo originale: Shinya Shokudo), pubblicato dal 2006 e tutt’ora in corso, con storie di meno di dieci pagine ognuna intitolata come il piatto di cui racconta. Il format arriva in Tv già nel 2009, con la prima di tre stagioni della serie Midnight Diner, che genera anche due film: il primo del 2015 presentato allo scorso Far East Film Festival di Udine e il secondo previsto per il novembre 2016. Netflix fa proprio il progetto e per segnare la differenza amplia il titolo aggiungendo Tokyo Stories ma in pratica realizza una quarta stagione della serie, visto che si avvale dello stesso protagonista, Kaoru Kobayashi, dello stesso regista, Joji Matsuoka, dello stesso scenografo, Mitsuo Harada, e pure di molti comprimari già visti nelle annate precedente. Tanto che la principale novità finisce per essere il coinvolgimento della “food stylist” Nami Iijima che prepara i piatti serviti (e mangiati) nella serie.
L’Oriente di Netflix
Si tratta per Netflix della seconda produzione “originale” (per i motivi spiegati sopra le virgolette sono d’obbligo) giapponese dopo Hibana, diffusa lo scorso 3 giugno e dedicata a due comici Manzai la cui carriera ha un’opposta traiettoria. Se quello era un drama più tradizionale, con una storia che prosegue per dieci episodi della durata di un’ora circa, in Midnight Diner: Tokyo Stories siamo invece di fronte a un formato antologico da mezz’ora, realizzato per altro in gran parte in studio. L’aspirazione globale di Netflix aggiunge però una trasferta fuori dal Giappone inedita per la serie, con alcune scene girate in Corea, coinvolgendo dall’attrice Go Ah-sung (o Ko Ah-sung a seconda della traslitterazione) già vista nei film di Bong Joon-Ho The Host e Snowpiercer, e naturalmente ambientate presso una tavola calda.
La serie è una sequenza di tranche de vie e ritratti umani che attraverso il legame con il cibo, più o meno marcato a seconda degli episodi, racconta storie di persone comuni, non senza sfiorare però altri generi o elementi pop che rendano più vario il tono delle puntate. La prima per esempio è innervata dalla nostalgia per i super sentai visti da ragazzi, ossia quella serie che hanno ispirato i Power Rangers con multicolorate squadre di super-eroi. L’episodio finale contiene invece una piccola storia dell’orrore con tanto di allucinazione e un’altra puntata porta in scena un fantasma, cui tutti i personaggi sembrano credere senza alcuna difficoltà. Non mancano nemmeno le incursioni nel filone Yakuza, con un giocatore d’azzardo tra personaggi più o meno malavitosi, una puntata che gioca a citare anche Lone Wolf and the Cub perché il protagonista ha la scontrosità e la sicurezza di un samurai, è affiancato da un bambino e si chiama pure Ogami (come il mitico Itto Ogami del manga già citato e della serie Tv da noi intitolata Samurai). Il genere preponderante oscilla invece tra la commedia e dramma, con puntate in levare e piuttosto allegre e altre invece più tristi e toccanti (su tutte la sesta con una donna che mantiene un nipote maleducato e nullafacente), ma sempre in fondo tendenti al lieto fine.
Il minimalismo di Midnight Diner: Tokyo Stories
Un prodotto come questo, che racconta piccole storie e incontri, agnizioni e ricongiungimenti, con il riaffiorare di ricordi stimolato dalla buona cucina – il tutto in un angolo di Tokyo per certi versi fuori dal tempo, dove la stradina del locale è così stretta che non ci passano nemmeno le auto – rischia di scivolare nella stucchevolezza. La breve durata, l’onesta semplicità della messa in scena e la limpidezza della scrittura – insieme alla varietà di registri e influenze di cui si è detto sopra – evita però questo rischio e anzi trasforma la serie in un vero antidoto al realismo spesso esasperato e narcisistico del mumblecore e dei suoi drammi da camera.
Aiuta naturalmente la tipicità giapponese non da esportazione (il cuoco per altro non cucina sushi) e la tipica educazione per cui ci si scusa spesso e si cerca di non dire cose troppo inappropriate, né di essere dei ficcanaso. Il riserbo è infatti la principale caratteristica del cuoco, che solo rarissimamente interviene con domande o consigli senza essere interpellato e che rimane la figura più misteriosa della serie, silenzioso, con il volto attraversato da una cicatrice di cui non ci sarà mai data ragione, e soddisfatto da un'esistenza che sembra soprattutto di osservazione e cucina. Il suo è quasi un piacere di servire, di essere testimone e non giudice, di osservare lo scorrere della vita da un punto di vista privilegiato e in qualche modo partecipe attraverso il cibo. Perfetta dunque la presenza attoriale tutta in sottrazione di Kaoru Kobayashi, che per altro era dietro un bancone anche in Hibana e che immaginiamo - se la serie avrà successo - di rivedere presto nei film e nelle stagioni precedenti di Midnight Stories, che Netflix potrebbe acquisire come ha fatto con tutta una serie di produzioni su Pablo Escobar dopo il successo di Narcos.
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