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Il mio commosso addio a Andrzej Wajda
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Andrzej Wajda

Walesa - L'uomo della speranza (2013): Andrzej Wajda

E anche Andrzej Wajda ci la lasciato. Con lui sparisce una delle ultime figure davvero di rilievo  che hanno reso grande il cinema della seconda metà del novecento: senza di lui, senza più il suo lucido sguardo di critico osservatore della storia a stimolarci,  a costringerci a pensare, a riflettere e ad interrogarci, ci sentiremo tutti un po’ più poveri e soli: difficile immaginare chi al giorno d’oggi possa proseguire il suo  cammino di attento testimone delle grandi tragedie  che si sono tragicamente consumate nel secolo scorso.

Permettetemi dunque di ricordare la sua straordinaria statura di cineasta, riproponendo qui in questo post una mia vecchia recensione  di una sua bellissima, struggente fatica nemmeno fra le sue più celebri e ricordate: Paesaggio dopo la battaglia da lui  girato nel 1970, un titolo assolutamente da recuperare.

 

Ogni opera è buona se riesce a esprimere l’anima dell’uomo che l’ha creata (Orson Welles)

 

Che cosa mi viene immediatamente in mente se penso a Krajobraz po bitwie (Paesaggio dopo la battaglia) una delle più straordinarie, potenti opere di Andrzej Wajda che io considero fra i capisaldi assoluti del suo cinema?). Indubbiamente proprio l’incipit, o per meglio dire, quello che il regista ci fa vedere subito dopo i brevi titoli di testa: qui la mobilità della macchina da presa è sorprendente, in sintonia totale con la musica di Vivaldi (l’allegro ma non troppo dalle sue Quattro stagioni) che più che accompagnarla, sembra addirittura guidarla, scandirne i giusti tempi necessari a riprendere e seguire i movimenti sincopati degli internati del campo finalmente liberati dalla prigionia in fuga dall’orrore, ma non ancora pienamente coscienti della nuova condizione che, increduli e stupiti, scappano dal passato ma senza avere una meta certa da raggiungere. Le espressioni guardinghe ed ebbre delle loro facce in quella corsa concitata e folle simile a un balletto sbattuto fuori dai riflessi di uno specchio fatto improvvisamente, violentemente a pezzi (Giandomenico Curi), trasmettono una gioia un po’ dubbiosa, quasi offuscata, come se si trattasse di un sogno e non di realtà, o peggio ancora di una pausa crudele ma di breve durata concessa dagli aguzzini per una momentanea distrazione, prima di ricacciarli di nuovo e con maggior sadismo, dentro l’incubo della detenzione forzata.

Un momento di altissima e tragica poesia “documentale” che ha la forza di farci percepire tutto l’orrore che quegli uomini ossuti e scarni, smarriti e confusi come bambini spaventati dentro le loro tute a strisce bianche e blu insufficienti per difenderli dal gelido abbraccio della neve e diventate ormai talmente ampie da renderli ancor più cenciosi e inconsistenti, si porteranno  per sempre sulle spalle insieme alla dannazione della fame che non darà loro mai tregua, tanta è stata la privazione del passato.

Silhouettes quasi ectoplasmatiche accalcate davanti al filo spinato che delimita ancora il campo di concentramento; consunte larve umane immobili e silenziose che si tramutano all’improvviso in una impetuosa marea capace finalmente di abbattere quella barbara barriera di recinzione con la forza residua della disperazione per correre di nuovo e senza meta verso altri possibili orizzonti alla ricerca primaria di qualcosa da mangiare.

E poi l’incontro con gli americani e gli altri detenuti liberati, l’inseguimento dei Kapò per vendicarsi delle angherie subite… insomma il lento, difficilissimo (quasi impossibile) tentativo di provare a ritornare a vivere dopo aver regolato i conti col passato, ritmato dalle immagini di quei corpi smunti e seminudi impegnati ad eseguire gli accenni di una danza improvvisata e liberatoria intorno al falò che brucia le divise di quelli che erano stati “i guardiani del campo”. Il tutto, registrato come se si trattasse di un rito laico maestoso e commovente, con stacchi di ripresa mobili, precisi, e lampi improvvisi di sottesa tenerezza, sotto una luce livida fatta di grigi, bianchi e blu e qualche guizzo rossastro delle fiamme. Una sequenza memorabile e di forte impatto anche emotivo, che non ha bisogno di inutili parole esplicative (la scena è totalmente priva di dialogo) che sporcherebbero la magia catartica del momento.

L’apertura è davvero superba preceduta per altro, subito all’alzarsi del sipario, da brevi inserti (secchi, veloci) che ci mostrano il campo di concentramento nazista distrutto dai colpi di mortaio e il conseguente arrivo dei soldati artefici della liberazione su una colonna sonora fatta solo di rumori e un’attenzione visiva verso i dettagli (fili di ferro e reti, gente che corre e vetri rotti) sempre e solo “sfiorati”con sguardo frettoloso prima di disintegrarsi in una sfocatura che lascia immediatamente il passo ad altre immagini altrettanto fulminee, preziose per farci comprendere da subito la semplicità con cui il regista ha inteso costruire il suo racconto puntando, al di là del contenuto che nel suo cinema rimane sempre di primaria importanza e trae forza da una intensità visiva fuori dal comune, proprio sullo “stile”, sulla forma, sui sinuosi virtuosismi della cinepresa e su un montaggio serrato di forte impatto e presa, davvero di eccellente levatura. Contenuto, dialettica e spiccato senso della messa in scena perfettamente fusi insieme, insomma, si potrebbe dire.

 

Il film è tratto da alcuni racconti dello scrittore polacco Tadeusz Borowski (sopravvissuto ai campi di sterminio tedeschi) scritti a caldo (fra il 1945 e il 1947) e tutti concentrati sulla propria  esperienza di internato, una condizione altrettanto drammatica e quasi parallela, a quella che ha portato il nostro Primo Levi a  pubblicare Se questo è un uomo e documentare così la sua altrettanto dolorosa odissea (i due scrittori saranno accomunati anche dalla stessa tragica fine: entrambi morti suicidi, Borowski nel 1951 all’età di 28 anni; Levi molto più anziano, nel 1987)[1].

Wajda (in occasione di un’intervista pubblicata su “Kino” n° 5 del 1970) ha motivato così la sua scelta “ispirativa” che lo ha fatto ritornare a Borowski solo molti anni dopo la pubblicazione dei suoi libri:Borowski l’ho letto allora, appena sono stati pubblicati i suoi racconti. L’ho letto quando l’abbiamo letto tutti. Apparteneva agli scrittori della nostra generazione, appena più vecchio di me. Era anche il mio scrittore. Non so perché non ho pensato prima a portare sullo schermo qualcuno dei suoi scritti: in questo momento non saprei proprio rispondere a questa domanda. Ricordo però che agli inizi degli anni ’60 avevo già in mente di realizzare qualcosa anche se per la televisione, tratto da Bitwa pod Grünwalden (La battaglia di Grünwalden). Un progetto molto ambizioso che avrebbe dovuto dare origine a uno spettacolo da riprendere e trasmettere in diretta con l’aiuto di molte telecamere, da mettere in scena in un unico grande luogo, la caserma, con tutta la folla, i movimenti della gente, ecc. Ma la televisione non era allora interessata a realizzare un’impresa così stimolante e complessa, né era tecnicamente preparata, quindi ho dovuto cassare il progetto. L’idea di questo film comunque, pur riesumata molto tempo dopo, parte proprio da lì, da quell’ipotesi di lavoro e da quel racconto (…) anche se il primo problema che ho dovuto affrontare passando all’atto pratico, è stato quello di trovare il modo per mettere insieme una sorta di introduzione, una “prefazione” al film. Senza inventare nulla però, ma mettendo insieme altri materiali provenienti dalla sua stessa opera letteraria. Ho preso allora spunto dal racconto Milczenie (Silenzio) in cui i prigionieri ammazzano un kapò, poiché ho ritenuto che lì ci fossero gli elementi necessari per rendere palese il bisogno impellente di farsi giustizia subito, senza aspettare, che era uno degli argomenti che avevo in mente di documentare. Questo, al fine di rendere credibile, comprensibile e soprattutto accettabile (anche da parte delle nuove generazioni), l’inizio volutamente violento del mio film. Aggiungerà poi, nell’intervista pubblicata nel 1971 su “Positif” n° 123: per la stesura dei dialoghi, ho utilizzato molti altri racconti di Borowski, ma sempre rispettando tutto ciò che di autobiografico c’è dentro la sua scrittura: anche lui, appena ventenne, subito dopo la liberazione, era stato internato in un “campo di smistamento”,  esattamente come accade al protagonista del mio film, e come lui, prima di rientrare in Polonia, si era fermato per qualche tempo a Monaco alla ricerca di notizie della sua donna scomparsa”.

L’importanza morale di quei racconti, viene dunque perfettamente sublimata (nel senso che si avverte un’adesione profonda, una comunanza inscindibile di interessi e risultati pratici) dalla mediazione visiva di un Wajda che ha ulteriormente affinato le sue già possenti doti di narratore con la complicità primaria di quella cinepresa di cui parlavo prima (quasi l’occhio cattivo” di Borowski e Tadeusz). Una cinepresa che si muove con grande intelligenza e libertà nel seguire e braccare da vicino i personaggi che spesso aspetta al varco, quasi in agguato e che a volte sembra persino voler divagare  soffermandosi a riprendere particolari in apparenza poco significativi, ma che risultano invece poi preziosi elementi esornativi di supporto necessari per definire al meglio questo “teatro delle crudeltà” che gioca le sue carte su più piani.

Un universo “dannato” fatto di gesti facce, parole e improvvisi silenzi, in gran parte affidato  alla superba qualità della recitazione.

 

C’è più fiction nella biografia di un solo cittadino polacco della generazione di Wajda che in tutta la produzione del dopoguerra della “Film Polsky”. (Serge Daney)[2]

 

L’azione è storicamente collocata nel 1945. La guerra è già finita, si liberano i sopravvissuti dei campi di prigionia nazisti e se ne scoprono gli orrori. Le pratiche burocratiche per il rimpatrio (non tutti possibili e immediati) sono lunghe ed intricate e nella prolungata attesa, i superstiti vengono  trasferiti in una ex caserma delle SS che ora funziona da campo di raccolta e smistamento. Tra loro c’è Tadeusz (Daniel Olbrychski, attore “feticcio” del regista insieme al Cybulski di Cenere e diamanti) giovane intellettuale polacco ossessionato dalla fame e fanatico dei libri, che stringe un’amorosa amicizia con l’ebrea Nina (Stanislawa Celi?ska): questo è lo snodo principale del racconto. Il resto, con la sua progressione drammatica degli eventi e i sottotesti politici e morali, è tutto invece da scoprire, ma sarebbe un peccato fare troppe anticipazioni che si limiterebbero inevitabilmente a una mera  esposizione della trama che rischierebbe di far passare in secondo piano il senso ultimo di questa importante operazione di “recupero” della memoria (era il 1970 quando il film fu girato), ora più che mai necessaria. Ricordati di ricordare, potrebbe essere  alla fine il messaggio “forte” che Wajda ha inteso tramandare ai posteri, perché si sa cosa succede (e ormai ne abbiamo la certezza provata): via via che ci si allontana dagli avvenimenti, la memoria storica lentamente si appanna e rischia di sfumare non solo la conoscenza, ma anche l’indignazione e la consapevolezza. Non si possono spiegare diversamente i tanti orrori del presente che indicano chiaramente come nella pratica quella tragedia non ha insegnato nulla.

Non è stato di conseguenza un caso, ma un’urgenza irrimandabile (e non sarà la sola della sua intensa carriera di regista) questo ritorno “tardivo” alle tematiche dei sui film più giovanili, fatto con una  pellicola lucida, disincantata, dolente, terribile e crudele, ma meno disperata di una volta, o per lo meno priva del cupo fatalismo che ha invece contrassegnato tutta la produzione della fase iniziale della sua carriera: con Paesaggio dopo la battaglia la maturazione anche riflessiva di Wajda è davvero sorprendente, diventa addirittura uno dei tratti distintivi di un film che rifiuta ogni forma di certezza e dove i soli punti di riferimento del gruppo umano sradicato e sbandato che lo popola sono la disperazione, la paura e la caparbia voglia di tornare a vivere.

Nessuno, del resto (e lo sappiamo bene), è uscito completamente indenne dalla deportazione anche in tempi molto prolungati, figuriamoci nell’immediato. Sarebbe dunque stato impensabile immaginare che qualcuno avesse potuto trovare una pur minima riconciliazione con se stesso e il mondo, in quella nuova, sicuramente diversa, ma non meno privativa reclusione che si trovava ad affrontare nel campo di smistamento in cui fu ricacciato (potremmo considerarli quei campi un qualcosa che si avvicina biecamente ai nostri attuali centri di accoglienza per gli immigrati?).

Altrettanto certo anche il fatto che questa condizione rendesse ancor più pressante la voglia di vendetta. Inevitabile dunque che il regista abbia scelto proprio come primo atto di una presunta  pace ritrovata, salutata dai vincitori come il ritorno alla civiltà (ma più nelle parole che nei fatti) di proporci la disturbante visione dell’esecuzione di un ex-capò, consumata per altro fra i due estremi altrettanto feroci della partecipazione gioiosa e della più assoluta indifferenza, a cui ho accennato prima.

 

Locandina internazionale

Paesaggio dopo la battaglia (1970): Locandina internazionale

Paesaggio dopo la battaglia (1970): Locandina internazionale

 

I vivi hanno sempre ragione, non i morti”

 

Paesaggio dopo la battaglia si conferma dunque un’opera fondamentale, imprescindibile e persino difficile da interpretare in tutte le sue valenze esplicative da uno spettatore occidentale, poiché contiene molti riferimenti non facilmente leggibili e men che meno interpretabili da uno straniero (o addirittura – adesso più che allora - persino da un polacco di corta memoria storica o che si è poco documentato sul suo passato). Io la trovo infatti, al di là del suo valore cinematografico, una pellicola finalizzata a svegliare il suo popolo e ad incitarlo a liberarsi definitivamente dalla perniciosa malattia (…) della vocazione al martirio che sopisce le coscienze e la capacità di agire degli individui (il Mereghetti) tipica di quel popolo, ma che da un po’ di tempo sembra aver colpito anche noi italiani che purtroppo non abbiamo a disposizione un altro Wajda capace di darci una scossa altrettanto violenta e necessaria.

Piuttosto che concentrarsi sulla storia, credo che sia in ogni caso più importante soffermarsi sulla complessa figura del  protagonista (per le azioni ci sarà semmai tempo di ritornarci sopra in un secondo momento): che cosa vuole, che cosa cerca, e soprattutto cosa fa Tadeusz che non a caso, porta lo stesso nome di Borowski?

All’inizio sembra essere uno che ha capito tutto, un furbetto un po’ cinico, un disincantato un po’ ossessivo che (a suo modo) tenta di scaricarsi dalle spalle il peso dell’esperienza terribile che ha vissuto, ma senza riuscirci troppo bene, poiché quella riemerge sempre con tutta la sua inesorabilità e la sua odiosa violenza che unisce vittime e carnefici, a impedire  la completa cicatrizzazione delle ferite che sono  più dell’anima che del corpo. Un uomo insomma che se ne sta per conto suo indifferente e isolato, che non partecipa né tantomeno condivide.

I progetti legati al recupero di un’esistenza  normale che sembrano impegnare i suoi compagni, la stessa voglia di riscattarsi al più presto e ad ogni costo dagli anni perduti nella sofferenza e nella crudeltà dell’internamento, non sembrano infatti minimamente interessarlo. Sprezzante persino nei confronti dei regolamenti e delle leggi imposte dalle autorità del campo, il suo unico obiettivo sembra essere quello di vivere alla giornataannotando di tanto in tanto sul proprio quadernetto versi poetici a cui pare non credere più, raccogliendo libri che altri buttano, e soprattutto  escogitando ogni possibile stratagemma o escamotage che gli permetta di saziare la sua fame arretrata a cui non pone certo rimedio lo scarso cibo passato dalla mensa.

Si capisce però quasi subito che questa non è la sua vera natura, ma una barriera difensiva necessaria per la sopravvivenza e che un tale ripiegamento nella dimensione del presente e della propria individualità, è semplicemente l'ultima ancora di salvezza a  cui è stata costretta ad aggrapparsi una sensibilità prostrata come la sua che ha dovuto giocoforza chiudersi a riccio su se stessa per non soccombere a quanto ha dovuto sentire, vedere, provare e sopportare: c’è nel racconto di Borowski  – è ancora Wajda che lo dice – una scena davvero raccapricciante che testimonia quello che ha subìto nel campo di prigionia.  Parla ovviamente della sequenza tremenda - che Wajda ci fa percepire con la forza terribile della sua crudele tragicità -  della ragazza tedesca che per un po’ di cibo si è concessa al cuoco del centro di smistamento, sorpresa dagli altri internati in cucina come se rubasse, e che per questo suo “reato” ai loro occhi davvero più grave di ogni altra cosa, viene spinta  a forza nel cortile mezza nuda, le vesti lacerate, e lì praticamente giustiziata per punirla dell’”orrendo crimine” di cui si è macchiata, mentre  la macchina da presa  indaga impietosa le facce livide dei nuovi improvvisati aguzzini, e poi impudicamente registra e ci rimanda, il terrore della donna soffermandosi sul suo volto, sui dettagli del corpo martoriato, sulle lacrime che sgorgano copiose dai suoi occhi, mentre più in disparte il prete  (altra figura importante della storia) resta immobile, incapace di fare qualunque cosa, persino di provare a trattenere quella massa furente, fiche non arriva Karol il giovane comunista al quale però non resta altro da fare se non sottrarre quel corpo nudo esanime a quella folla urlante e rivestirlo pudicamente con i sui calzoni. Quando Tadeusz vede la ragazza uccisa, si comporta in modo stranamente tranquillo, come se la cosa non lo toccasse minimamente (l’unico atto  che riesce a compiere, è quello di spolverarsi i pantaloni sui ginocchi). Ma ancora più terribili sono le parole che pronuncia: “quando mi trovo in compagnia, ripeto con un certo orgoglio che ho visto circa ventimila donne nude che venivano portate nelle camere a gas” (…) che sono la conferma della ancor più temibile tragedia dell’indifferenza che si consuma inesorabilmente in chi ha dovuto subire troppi orrori…

Poi piano piano però l’altro Tadeusz, quello vero e nascosto, viene fuori, torna a palesarsi in più occasioni. E’ sempre meno larva indifferentemente amorfa. Al contrario, infatti, torna ad essere una presenza umana e problematica al tempo stesso  rosa dalla paura e annichilita dalla propria rabbia impotente (lo stesso Olbrychski  ammise a suo tempo in più di un’occasione, di aver trovato molte difficoltà nell’individuare la chiave più appropriata per dare il giusto spessore interpretativo a una figura divisa fra generosità e vigliaccheria come quella di Tadeusz. E’ l’incontro con Nina (la polacca ebra fattasi cattolica per un pregresso amore) durante la messa celebrata al campo e la successiva nascita del loro breve amore, a rendere possibile quel cambiamento e a farci apparire ancora più brutale la drammatica, improvvisa conclusione della storia.

 

Siamo in quarantena. Non è né un campo di concentramento né la libertà. (…) . Tu confondi un paese  con un paesaggio….”

 

Il film è davvero zeppo di sequenze memorabili (non solo quella che ho descritto in apertura) come ad esempio quella che racconta la passeggiata di Tadeusz e Nina oltre i confini del campo, fuori, all’aperto, catapultati  tra  gli alberi del bosco, accompagnati da una musica che cresce sul totale quando  la macchina da presa si allontana e li ingloba dentro al suggestivo paesaggio circostante  che fa da cornice.

Ma i  ricordi della guerra e della prigionia, prendono il sopravvento anche quando si distendono sull’erba con il palese desiderio (e la voglia) di fare qualcos’altro. Nemmeno lì gli spettri del passato danno loro tregua:  li assalgono con le loro angosciose  sensazioni forse impossibili da esorcizzare (la fame, le persecuzioni, il ghetto, la minestra fatta con le ossa dei morti raccolti lungo la ferrovia).

Poi di nuovo fra gli alberi, nella dolce luce di un paesaggio d’autunno che ravviva una momentanea serenità quasi stupita di fronte a posti ancora così belli e “intatti”:

Mi ero dimenticato che esistono posti così”.

"Devi imparare a camminare di nuovo per la strada, tra la gente come facevi prima..."

Le loro labbra alla fine si sfiorano, poi, vinti dal desiderio, fanno finalmente all’amore rotolandosi piano sull’erba soffice del prato…

E’ dunque il contatto fisico a sciogliere Tadeusz dal suo ghiaccio, a mettere finalmente in crisi il suo cinismo radicale fondato sulla certezza acquisita dell’inumanità dell’uomo. Attraverso quell’atto compartecipativo, ritrova la sua umanità perduta e la sua forza. Diventa così meno emarginato, meno vulnerabile, meno solo, meno sarcastico e fragile.

Nina per lui rappresenta veramente la libertà ritrovata, la vita stessa, ed è una sensazione così piacevole, così enorme e inaspettata, che quasi stenta a crederci. Una felicità che durerà però solo lo spazio di un momento fugace e passeggero vissuto dentro a  un paesaggio che fa sparire l’angoscia, un… paesaggio dopo la battaglia (Giandomenico Curi).

Finita l’euforia dell’evasione, i due ritornano sui loro passi, verso il campo, e nel cammino, incrociano persone che scappano (sembrano topi che fuggono dalle loro tane), gente che è stufa di aspettare e che ha deciso di tornarsene in Polonia ad ogni costo, anche a piedi, sfidando le leggi restrittive del momento…

“State attenti – grida un amico in fuga – è pieno di sentinelle che sparano!”

Devono assolutamente rientrare nella caserma prima che sia troppo tardi riattraversando quel buco che ha permesso loro quella momentanea fuga. Nina è la prima a farlo: si protende in avanti per saltare, ma prima che riesca a completare il movimento, viene colpita a morte dai proiettili sparati da una delle tante improvvide sentinelle americane messe a presidiare quel campo che è diventato di nuovo una prigione.

Una morte assurda,insopportabile e crudele che ancora mancava alle esperienze drammatiche di Tadeusz, che ha finito per portargli via  l’unica concreta possibilità che aveva di ritornare a vivere:

Prima i tedeschi… e adesso gli americani…  che differenza c’è?"

Nessuna, poiché ancora una volta tutto passa nell’indifferenza generale: “Niente, non è successo niente…” è morta solamente una ragazza del campo (ma nessuno che pronuncia la parolauccisa).Tutto apparentemente normale, perché la vita inesorabilmente continua nonostante quest anuova trragedia: la brodaglia del rancio, la sigaretta accesa consumata con avide boccate, lo zingaro che canta come sempre, quelli che fanno casino davanti alla autorità allineate…. Di diverso a fare la differenza, c’è solo la faccia folle, incredula di Tadeusz  piegata sul cadavere di Nina mentre più in là sta già cominciando lo spettacolo previsto dalla scaletta della giornata, la ridicola solennità becera e blasfema di una recita di guitti organizzata per la commemorazione della battaglia di Grünwalden, con la sconfitta dei Teutoni simboleggiata  dal manichino di un SS gettato nel fuoco davanti a una vittoriosa Polonia alta e bianca come una Madonna, mentre la gente insoddisfatta di ciò che sta vedendo, comincia a fare a botte e a distruggere tutto il teatro, mentre un pianoforte intona la Polonaise.[3]

Segue lo scontro col prete che cerca di consolarlo.. arrivando persino a “pretendere” di convertirlo[4]che fa esplodere di nuovo la rabbia di Tadeusz che dopo averlo quasi assalito, gli strappa il breviario dalle mani e lo butta sul fuoco prima di nascondersi con il suo dolore, sotto il tavolo di pietra dell’obitorio improvvisato sul quale è disteso il corpo inanime di Nina… Poi, di nuovo solo, esce e si perde fra la gente che ha sfondato i cancelli del teatro e ha distrutto tutto.

E’ lì in quel momento – ed è ancora Curi a scriverlo – che Tadeusz perde l’ultimo segno della sua  condizione di reduce e di intellettuale: gli occhialetti che cadono a terra e che la gente calpesta, è il segnale che davvero è tutto finito, mentre la cinepresa si sofferma sul totale del cortile. Tadeusz raccoglie i suoi libri su una carretta ed esce. Prende il treno (i titoli di coda saranno sui vagoni in movimento), per rientrare nella nuova Polonia passando prima da Monaco: non gli resterà dunque altro che il tempo (…) di  confondere definitivamente il suo destino e la sua vita con quelli di un certo Borowski in un mondo ormai fatto solo di fantasmi (la bionda ragazza sulla bicicletta della Gestapo; il teatro in demolizione; il vecchio della Wermacht che  mendica una sigaretta, la scena del bastone) dove l’esterno non esiste più e il “divenire storico” della Polonia è ancora così lontano…C’è insomma  rimasto ormai poco spazio per portare ancora a spasso quella trasparenza di sguardo e quell’atrocità che ha dentro”: ormai sa, è cosciente, che nei libri che raccoglie non è rimasto alcun valore da salvare!.

 

“Cos’è il tuo paese?”

“Non lo so. Il popolo, prima di tutto, la gente. Poi una tradizione, un linguaggio”.

 

Mi accorgo di aver fatto un’analisi un po’ sconclusionata (e soprattutto incompleta) saltando spesso di palo in frasca, ma è la struttura narrativa del film ad avermelo suggerito come unico possibile mezzo per provare a far percepire il senso di un’opera tanto poderosa quanto problematica  e farne venire a galla le motivazioni e i bisogni di chi si è posto con tanta determinata convinzione dietro la macchina da presa.

Spero di esserci riuscito in qualche modo.

 

Se sul personaggio del prete  mi resta solo da sottolineare la doppiezza anche morale di una figura che vorrebbe proporre la religione come unico punto di riferimento in un naufragio complessivo, ma ha scelto invece impropriamente e al contrario, di salire sulla scialuppa del potere, credo invece che sia necessario spendere qualche parola sulla figura  del militante comunista (Karol), tratteggiata  in modo da sottolineare sia gli slanci ideali che la loro fragilità in una situazione in cui ogni forma di utopia viene soffocata dalla ferocia della lotta per la vita.

Da ricordare infine che soprattutto in patria, (e questo attiene a quelle problematiche  tutte interne a  quel paese) il film ebbe una  storia abbastanza travagliata e fece esplodere violentissime polemiche con un dibattito che invece di concentrarsi sul valore formale e contenutistico dell’opera, finì per svilupparsi esclusivamente sul versante ideologico e politico. Furono in questo senso davvero in molti a porre forti riserve e a lanciare accuse, poiché individuavano nell’impostazione data da Wajda alla sua storia, la voglia di oltraggiare il “polonismo” e di  voler sferrare un duro attacco contro le virtù, la nobiltà e tutto ciò che ne consegue, della nazione “Polonia”… Furono di conseguenza fatte molte esplicite richieste di inibire la circolazione della pellicola rea di aver  trattato i polacchi come idioti isterici.

Nonostante tutto questo can-can in negativo, il film invece non solo circolò liberamente, ma si aggiudicò anche il premio della critica cinematografica polacca  che aveva ritrovato nell’opera un Wajda molto più maturo, in grado di inventare nuove forme persino in contrasto col suo stile realistico di una volta. Gli riconobbe insomma il merito di aver effettuato una esplorazione introspettiva più poetica,  complessa, inventiva e problematica anche nei contenuti, e di aver trattato i problemi dell’individuo rispetto alla società (e ai tempi) di riferimento, privilegiando soprattutto i ruoli e gli ideali ai quali il film fa costante riferimento.

 

 

 

[1]  “C’è un aspetto quasi documentaristico in tutto quello che Borowski ha scritto, perché allora era molto giovane e quelle sono le sue prime opere (purtroppo poi non ha avuto modo di invecchiare) e ha sentito soprattutto l’urgenza  di annotare, di registrare, tutti gli avvenimenti che man mano lo coinvolgevano e lo stavano distruggendo. Quando giravo questo film pensavo che avrebbe dovuto farlo lui se non si fosse ucciso, perché la sua scrittura  è talmente personale, talmente vissuta, che è stato per me molto difficile trovare un’adeguata mediazione ed evitare il pericolo di un possibile “tradimento”. La sua è un genere di letteratura (…) che funziona molto bene per un film d’autore, poiché non si parla solo della sua detenzione, ma anche di quello – altrettanto importante - che gli è successo dopo il ritorno in Polonia e la conseguente pubblicazione di questi racconti  che sono stati  un vero choc negli anni ’47-’48 per i miei conterranei.  Borowski nel 1949 si è schierato poi improvvisamente fra le fila dei giovani scrittori favorevoli ad una letteratura realista-socialista. In quel periodo ha fatto uscire altre due raccolte di novelle: “Il mondo di pietra”, il cui titolo  traduce esattamente lo stile della sua prosa, molto cristallino e molto duro, e “Addio a Maria”. (…) Poi nel 1951 si è suicidato. Si può trovare più di una spiegazione a questo suicidio. Bisogna stare attenti a non semplificare troppo, ma credo che  siano state proprio quelle esperienze drammatiche che ha vissuto che non è riuscito a lasciarsi alle spalle ad averlo distrutto interiormente. Penso però che si sia trattato anche di una conseguenza inevitabile dei dubbi che lo hanno attanagliato riguardo alle sue scelte successive. E’ stata insomma a mio avviso  la sua purezza intellettuale e morale, ad averlo condannato a morte. (…)  Man mano che il tempo passa, quello che ha scritto sui campi di concentramento ha acquisito una straordinaria, straziante purezza molto vera,  personale e priva di sentimentalismo, molto lontana dal martirologio, che privilegia, al contrario un aspetto decisamente più violento e aggressivo, quasi cinico. La descrizione che fa di se stesso (…) è dunque finalizzata a mettere in luce il fatto che le distruzioni, i cedimenti derivano da motivazioni più profonde, interne a ognuno di noi (…) capaci di farci perdere l’innocenza a causa di una detenzione così prolungata e crudele, e forse proprio per questo, i suoi libri sono pieni di frasi terribili, delle quali qualcuna viene riportata anche nel film: “I vivi hanno sempre ragione sui morti”;  “Tra il primo e il secondo corner, 10.000 persone sono state gasate” (pronunciata durante la descrizione di una partita di calcio); Il cervello si mangia crudo. E’ molto delicato, che è in  pratica l’unico commento esterno a una fucilazione.”(Andrzej Wajda, intervista realizzata da M. Ciment e B. Cohn e pubblicata su “Positif”  n° 123, gennaio 1971)

 

[2] Serge Daney è stato un importante critico francese che dopo aver fondato la rivista Visages du Cinéma (1962) nel 1964su invito di Jean Douchet, passò ai Cahier du  Cinéma rivista della quale fu anche direttore insieme a Serge Toubiana a partire dal 1973. Finita questa esperienza, passò  a Libération e – dal 1985 al 1990 - condusse su Radio France Culture la trasmissione Microfilms. E’ morto prematuramente di Aids nel 1992 all’età di 48 anni (era nato nel 1944). Molto impegnato anche politicamente (la sua ultima battaglia, fu un’aspra polemica sul modo in cui la televisione aveva coperto l’informazione sulla prima guerra del Golfo) svolse per molti anni una attività più trasversale, ma alla fine tornò a privilegiare il suo mestiere primario di critico cinematografico e a fondare, proprio poco tempo prima di morire, una nuova rivista cinematografica, Trafic.

 

[3] Danza nazionale polacca di origine popolare e di carattere cerimoniale utilizzata soprattutto nell’ottocento come movimento di alcuni concerti. Le più famose, sono quelle  di Chopin che debuttò come compositore proprio con una Polonaise e successivamente scrisse molte altre composizioni autonome con questa forma.

 

[4] “Nel personaggio del prete ho unificato due personaggi: il prete ed il redentore. Solo così è diventato interessante. Bisognava mettere anche lui in rapporto  con qualcosa che rivelasse il fatto che anche lui è un sopravvissuto, un reduce da un campo di sterminio, che ne porta il marchio.  (…) Credo di esserci riuscito nella scena in cui  il prete trascina  Tadeusz a pregare sul corpo di Nina sistemato nei bagni che fungono da obitorio,  esanime e nudo. Tadeusz si toglie il pullover e lo copre perché si è accortocce quella nudità mette il prete a disagio. Il prete prega e lui se ne sta immobile, mezzo nudo, a guardare la ragazza. E improvvisamente il prete comincia a raccontare – quel racconto di Borowski che si intitola “Kolacja” (Cena) :avevano fatto uscire  degli uomini russi legati con il filo spinato, gli avevano sparato e i loro cervelli erano schizzati da tutte le parti… Il prete lo racconta come se fosse stato presente, come se fosse stato uni di quelli che si erano trascinati fino a quei cervelli… Quello è stato l’unico momento della sua vita on cui ha dubitato dell’esistenza di Dio, un Dio che non ha il diritto di pretendere niente da noi se ci mette alla prova in quel modo. A questo punto Tadeusz si riprende il pullover e dice queste parole stupende che ho preso dal racconto: “Si è veramente affamati quando si guarda un altro uomo come una cosa da mangiare: io ho provato questa fame, io li capisco…”. Credo che in questo modo si approfondisce anche la figura del prete”. (intervista a Wajda in “Kino” n° 5, 1970)

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