Il mondo malato di Mr. Robot
Dodici puntate, tutte dirette dallo showrunner-regista Sam Esmail che si autoconsacra come autore pressoché totale di una serie Tv, e non una breve e vagamente sperimentale come Easy o The Girlfriend Experience, bensì quella divenuta maggiormente di culto, la serie che sul web ha fatto parlare di sé quasi fosse la nuova Breaking Bad. Questo nonostante la prima stagione di Mr. Robot non fosse a ben vedere irresistibile e anzi tra un pilot che segue la struttura di Dexter e un colpo di scena alla Fight Club, ampiamente prevedibile, ad aver impressionato era soprattutto l’estetica. Aveva aiutato anche la collocazione, questa sì davvero sorprendente, su un canale come USA Network, noto per procedural medici, legali e polizieschi piuttosto innocui (con l’eccezione di Suits) dove nessuno si aspettava sarebbe emersa la nuova serie di tendenza.
Tanto di cappello a Sam Esmail dunque, che è riuscito a rendere cool, se non esattamente popolare, un argomento di solito molto difficile da portare sullo schermo come il mondo degli hacker, avendolo fatto oltretutto con un rigore quasi filologico che ha entusiasmato chi capisce bene l’informatica ed è rimasto oscuro agli altri. Di un’oscurità però affascinante, parte di un mistero che si diffonde in ogni anfratto della serie, in quelle inquadrature dove i personaggi sono schiacciati da un cielo o un soffitto molto infinitamente più vasto di loro, dove lo sfondo di una parete è quasi una minaccia da cui rintanarsi in un angolo e dove porte, finestre e altre fessure offrono gabbie formali in cui rinchiudere i personaggi. Un mondo che già alla vista di poche immagini appare minaccioso, plumbeo, disperato e, quando arrivano quegli schermi pieni di comandi indecifrabili, anche ostile all’umano. I protagonisti sono infatti tutti più o meno squilibrati: Elliot soffre di schizofrenia, Angela è perennemente tesissima; Darlene è asociale e aggressiva; Tyrell è un sociopatico con pulsioni omicide e una moglie, Joanna, masochista e spregiudicata. La seconda stagione ha poi aggiunto o approfondito altre figure che non brillano certo per stabilità mentale: l’agente dell’FBI DiPierro, ossessionata dal caso; il megalomane Philip Price, motivato da sogni di potenza impossibili da soddisfare, e soprattutto il misterioso leader dalla Dark Army, vittima di compulsioni legate al tempo e pure di una doppia identità: l’hacker Whiterose e il Ministro della Sicurezza di Stato cinese. Nientemeno.
Il racconto truccato di Mr. Robot
A quest’ultima informazione dovrebbe essere chiaro che il realismo non è molto interessante per Esmail, del resto il mondo di Mr. Robot non è il nostro e una sola corporazione senza alcun rivale può fare il bello e il cattivo tempo… finché uno sparuto gruppo di hacker non cancella tutti i loro dati di credito e debito, con effetti tali che New York torna vittima di blackout per la crisi energetica innescata dal crollo della borsa. Dunque un capitalismo virulento da combattere con una cura brutale di debilitanti anticorpi, perché si tratta di un sistema gravemente malato, come malati sono i personaggi e pure il racconto. Elliot è del resto un narratore del tutto inaffidabile, che chiama in causa lo spettatore come fosse un suo amico immaginario, ma poi si offende con il pubblico, cioè noi, se non l’abbiamo messo in guardia, tanto che per ripicca arriva a falsare clamorosamente la narrazione.
Sam Esmail sembra innamorato più di questo gioco di specchi che del raccontare una storia, ormai quasi ridotta a pretesto, come se la retorica rivoluzionaria gli fosse già andata a noia. Ancora buona però per motivare trucchi e depistaggi assortiti, spesso poco sensati se ci si ferma a pensarci su (in particolare quelli del finale della seconda stagione), ma sempre eseguiti con perizia da vero prestidigitatore. Esmail attira la nostra attenzione con movimenti di macchina da presa, split screen progressivi fino a dividere in quattro sezioni lo schermo, sequenze oniriche, contaminazioni tra l’immaginario lynchiano e i videogame delle origini in forma di avventure testuali. Un diversivo dietro l’altro per ammaliarci e non prestare troppo caso all’accumularsi di enigmi, chiedendoci di fare attenzione all’uso della musica – molto più ricco che nelle prima stagione – o a dialoghi sospesi e così fitti di sottotesti da sguazzare nell’ambiguità.
Sympathy for Mr. Robot
Il racconto in Mr. Robot è un puzzle ed è lo stesso protagonista a chiedere il nostro aiuto per trovare il pezzo chiave. Lo fa in una delle più riuscite sequenze di quest’anno, che va molto oltre il semplice a parte shakespeariano tanto caro per esempio a House of Cards e ci sfida invece direttamente a risolvere l’enigma. Esmail sa di avere spettatori che studiano ossessivamente la serie, architettando teorie come non accadeva dai tempi di Lost, e decide di stare al gioco, con la differenza che rispetto a Lindelof e Cuse lui sa dove sta andando, ma anche con la coscienza che conta fino a un certo punto. Mai come in Mr. Robot, ad alimentare il piacere della visione è l’esercizio di stile, l’increspatura della superficie, la rottura delle convenzioni formali, il flusso narrativo interrotto e lasciato sospeso come nella sparatoria in Cina o nell’episodio interamente senza Elliot, a ritardare spiegazioni sul colpo di scena con cui il protagonista ci aveva salutato alla fine della putata precedente. Tanto che non ci importa nemmeno della dispersione delle trame, con il personaggio cardine pressoché scollato da tutti gli altri per oltre mezza stagione: anzi più la situazione è anomala e meglio è. Peccato solo che il finale sia stato tra gli episodi più deboli anche visivamente, con un triello non molto fantasioso, un irrealizzato attentato e varie rivelazioni che promettono di rilanciare la prossima stagione verso un intreccio ancora più ampio e complesso. Che dimostrino o meno di aver senso è secondario: parafrasando The Prestige noi non vogliamo davvero trovare il segreto, vogliamo essere ingannati.
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