(Spoiler)
Se la prima stagione della serie di Gaumont per Netflix raccontava l’ascesa al potere di Pablo Escobar e l’inizio della sua caduta, nella seconda si assiste a un prolungato gioco del gatto col topo, dove il trafficante è messo sempre più alle strette da metodi progressivamente più brutali e disperati. Ma il vero punto della seconda stagione di Narcos è un altro: tutto questo sforzo ossessivo per dare la caccia a Pablo Escobar, come se la sua cattura potesse concludere la guerra alla droga, non ha alcun effetto reale sul narcotraffico, di cui del resto cresce la domanda, ed è piuttosto un esercizio quasi futile, uno specchietto per le allodole.
Ovviamente c’è anche il principio di giustizia di cui tenere conto e sicuramente Pablo Escobar, interpretato da Wagner Moura, è un criminale che merita di essere condannato, ma è altrettanto indubitabile che la caccia al trafficante cattura l’attenzione dei media mentre sullo sfondo gli affari continuano come e peggio di prima. Non solo infatti il cartello di Cali aumenta il proprio potere e assimila il business di Escobar, ma arriva ad allearsi con un gruppo paramilitare fascista che porta a una granguignolesca escalation di violenza a Medellin. Il tutto con il beneplacito della CIA, che partecipa direttamente a spostare l’asse di potere in una sorta di gioco di prestigio: se con una mano mette i suoi mezzi a disposizione della cattura di Pablo con l’altro nasconde e aiuta l’ascesa dei suoi rivali.
Donne e famiglie in Narcos
Anche la DEA si fa più presente sul campo della guerra alla droga con una nuova agente a capo delle operazioni, Claudia Messina, inizialmente decisa a tenere buoni rapporti con l’Agenzia, ma progressivamente convinta che gli obiettivi della DEA e quelli della CIA non procedano di pari passo. Una figura femminile al comando dalla parte delle legge, cui fa da contraltare Judy Moncada sul fronte dei narcotrafficanti, anche lei però in una posizione difficile in quando alleata tutto sommato sacrificabile del cartello di Cali.
Tra i protagonisti già della prima stagione di Narcos, gli agenti DEA Murphy e Peña si ritrovano in mezzo a tutti questi intrighi, tentati dal voler prendere Pablo con ogni mezzo ma poi ricondotti dall’orrore a mantenere la legalità. Una situazione di compromessi insostenibili, che rende Murphy sempre più simile alla disincantata voce del Murphy futuro che narra la vicenda. Sia lui sia Peña appaiono più soli che mai, poco uniti anche tra loro, mentre la latitanza obbliga Pablo a essere vicino alla moglie, ai figli e alla madre. Tata Escobar, Hermilda Gaviria e i bambini sono l’asse che frantuma il manicheismo delle parti in causa illuminando da un lato che banalmente anche Pablo ha del buon cuore e dall’altro che il governo colombiano – con l’appoggio statunitense – sa essere portatore di violenza, usando l’incolumità della famiglia come strumento di ricatto.
E della famiglia di Escobar fa parte anche il padre che appare come ultima spiaggia per il trafficante in fuga nel penultimo episodio e mette a confronto Pablo con un diverso modello di vita, più povero, più terreno, forse anche miserabile, ma macchiato solo di sangue animale. Un ruolo breve ma cruciale, per cui è stato scelto uno attore gigantesco: Alfredo Castro, volto feticcio del cinema di Pablo Larraín e anche qui interprete di grande sottigliezza, che incarna un uomo dai sentimenti ambivalenti e dissimulati, ma non fino in fondo, verso il figlio. L’episodio, come spesso accade alle puntate più compatte e anomale rispetto al flusso seriale, spicca per intensità e rimane tra i migliori di Narcos.
La regia e il futuro di Narcos
Se José Padilha resta producer non è più però tra i registi della serie, che mantiene comunque il proprio stile, con la voce narrante a tratti sarcastica e l’uso di materiali di repertorio, a ricordarci che stiamo vedendo una storia vera. Cosa che diventa impressionante nel finale, quando il tetto su cui si compie la fine di Pablo si sostituisce alle immagini d’epoca, scattate sopra lo stesso palazzo utilizzato nelle riprese della serie. Non manca neppure un piano sequenza virtuosistico, diventato da True Detective in poi una sorta di passaggio cruciale per fregiarsi del titolo di serie di qualità. In questo caso la long take è utilizzata per raccontare l’assalto a una delle ville di Escobar, con la macchina da presa che passa dal seguire un personaggio all’altro, esplorando gli interni dell’edificio e poi girandogli attorno all’esterno. Una sequenza notevole che è comunque solo una delle molte scene d’azione, perché la seconda annata di Narcos è piena di retate e agguati, fughe e sparatorie, tutte girate con un buon senso del ritmo e della spettacolarità senza mai scadere in eccessi di enfasi. Il mondo di Narcos è crudele: ci si ammazza senza perdere troppo tempo e non c’è spazio per l’epica dei sicarios, che rimangono all’ombra della figura bigger than life di Pablo Escobar.
La sua morte alla fine della stagione lascia diversi interrogativi per la annate a venire, dove l’attenzione delle indagini dovrebbe spostarsi sul cartello di Cali che al momento non sembra però dotato di personaggi altrettanto carismatici. Rimarranno comunque i due agenti DEA, in particolare quello interpretato da Pedro Pascal che quest’anno è molto cresciuto, e probabilmente rimarrà anche il mefistofelico Bill della CIA che incarna gli interessi più inconfessabili degli Stati Uniti, il primo paese consumatore di droga al mondo.
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