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Venezia 2016: Orecchie - Intervista esclusiva ad Alessandro Aronadio e Daniele Parisi
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Orecchie è uno dei quattro film presentati dalla Biennale College durante il Festival di Venezia 2016. Si tratta dell’opera seconda di Alessandro Aronadio, regista e sceneggiatore palermitano. In occasione del festival, a seguito della recensione entusiasta di Spaggy apparsa ieri sul sito e a cui rimandiamo per sapere di cosa tratta il film, abbiamo incontrato il regista e l’attore protagonista Daniele Parisi.

Alessandro Aronadio, Daniele Parisi

Orecchie (2016): Alessandro Aronadio, Daniele Parisi

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Intervista ad Alessandro Aronadio

Ti laurei in psicologia a Palermo nel 2002. Com’è che da psicologia arrivi al cinema?

Il periodo in cui studiavo all’università erano anche gli anni “belli” di Palermo, in cui la città sembra vivere una sorta di “primavera” cinematografica. Ho iniziato come assistente volontario e poi come assistente alla regia nei vari set che a fine anni Novanta hanno popolato la città con autori come Roberto Andò, Ciprì e Maresco, Roberta Torre, Giuseppe Tornatore. Mi aveva spinto la passione.

Fino a quando nel 2010 arriva la grande occasione con il tuo primo lungometraggio, Due vite per caso. Un’esperienza fortunata tra premi e riconoscimenti a cui è però seguito un lungo periodo di silenzio. È il classico blocco dell’opera seconda?

Scherzando, dico sempre di essere rimasto a lungo a guardare serie televisive e mi sono perso. Dovevo fare prima un altro film ma un po’ di problemi e di ritardi hanno fatto slittare il progetto. Nel frattempo, mi sono dedicato alla stesura di altre sceneggiature che in questo periodo stanno prendendo forma. Sono autore di Che vuoi che sia, la seconda regia di Edoardo Leo che uscirà in sala a novembre per la Warner Bros. Italia, e ho scritto Classe Zeta che sarà il nuovo film di Guido Chiesa per Colorado Film (distribuzione Medusa) e un altro film per IIF dal titolo I peggiori. Ovviamente, cercavo un altro progetto anche per me: quando ho cominciato a pensare e scrivere Orecchie, non so perché, ho avuto l’assurda e incosciente sicurezza che quello sarebbe stato il mio secondo film. Non so bene da dove derivava però già mentre lo scrivevo dicevo ai miei amici che sarebbe stato il mio secondo lungometraggio.

Vedendo Orecchie si rimane in primo luogo colpito dalle scelte formali. Giri in bianco e nero e giochi con il formato.

Dal punto di vista del formato, Orecchie fa qualcosa di inedito: c’è un progressivo allargamento del framing per tutto il film. In maniera pressoché impercettibile, l’immagine continua ad allargarsi costantemente per tutta la durata del film. Si tratta di una “follia” pensata con Francesco Di Giacomo, il direttore della fotografia. Pur non avendo nessun tipo di precedente, ci sembrava l’occasione giusta per metterla in atto: un film prodotto dalla Biennale College di Venezia ha assoluta libertà e poi perché, realizzando oramai film in digitale, il mascherino è un po’ una convenzione. Mentre prima si assegnava un mascherino reale al proiezionista, adesso si lavora soltanto con dei file. Orecchie è un film che racconta di un uomo che accetta a poco a poco di aprirsi al mondo e alla sua follia: è un po’ come se il suo universo si allargasse a poco a poco. Si parte con un formato quadrato, un 1:1 molto antico, e in 85 minuti si trasforma in un 1:85, come se a ogni minuto si allargasse impercettibilmente, giocando con il subliminale. Quando lo spettatore lo nota, si accorgesse che c’è qualcosa di strano: c’è più spazio. È un gioco ma racconta dell’universo del protagonista.

Mentre scrivevo il film, le scene mi apparivano sempre in bianco e nero. Per alcuni, pensare di fare un film in bianco e nero era un suicidio. Per una settimana, allora, ho provato a pensarlo a colori ma non ci riuscivo, mi spariva ogni immagine. Ho voluto seguire il mio strano istinto: nonostante il tono grottesco e surreale, Orecchie è un film molto realistico sulla follia che viviamo. Tutte le sequenze che sembrano estreme, sono totalmente plausibili, vissute da noi in prima persona o da qualcuno di nostra conoscenza. Dietro l’allegoria, si nasconde il realismo e il bianco e nero ben si adatta al contesto: è come se, setacciando i colori, venisse fuori solo la realtà. Il bianco e nero sul viso degli attori e sullo sfondo non fa altro che restituire la verità, anche se spietata. Citando Sam Fuller in Lo stato delle cose di Wim Wenders, “Fiction is in color, but black and white is more realistic”.

 

Perché hai lasciato il protagonista senza nome?

Perché non ha nome. Lo cerca. Attraverso la via crucis che intraprende, raccoglie i pezzi di un puzzle che servono a completare la sua immagine: grazie ai vari incontri della giornata, si accorge che qualcosa in lui è sbagliata, che deve cambiare e trasformarsi. È un uomo che ricerca la sua identità. Mentre gli altri, in maniera folle e disfunzionale ai suoi occhi, hanno trovato un posto nella società, lui continua a vagare nelle sue domande. La sfida era quella di dare diventare il suo disagio una commedia con cui far ridere.

Nel suo itinerario dantesco, il protagonista si imbatte in una giungla diversificata di personaggi folli. Su tutti, una menzione merita di sicuro il cassiere del fast food interpretato da Niccolò Senni, perfettamente calato nei panni di un automa da catena distributiva.

Anche il suo è un personaggio che ha trovato il proprio posto nel mondo. A suo modo, è soddisfatto di essere parte dell’ingranaggio. Il protagonista rimane scioccato da chi ha di fronte: un uomo macchina che, non appena si ritrova a dover uscire fuori dai menù preimpostati, va in tilt. Nonostante ciò, il personaggio di Senni ha un posto nella società mentre il protagonista no. Tra i suoi pensieri, infarciti di filosofia e domande, si ritrova a vagare.

Parlare di Senni mi fornisce l’occasione per chiederti del cast. Hai scelto come coppia di protagonisti due attori quasi sconosciuti al grande pubblico: Daniele Parisi, al suo primo ruolo da protagonista al cinema, e Silvia D’Amico, molto nota nel circuito indipendente e che presto farà il grande salto grazie alla nuova stagione della fiction tv Squadra antimafia. Li circondi però di attori notissimi e molto affermati, da Piera Degli Esposti a Pamela Villoresi, passando per Sonia Gessner, Rocco Papaleo e Ivan Franek, solo per citarne alcuni. È stato facile convincerli?

Attorno a Orecchie c’è stato una sorta di piccolo miracolo. Circolava voce che si stesse per realizzare Orecchie. Nelle agenzie di casting giravano molte scene e, in alcuni casi, la sceneggiatura intera. È nato un passaparola positivo sul progetto, strano ma interessante. In molti casi, è capitato che siano stati gli attori a bussare alla nostra porta perché volevano farne parte. Piera Degli Esposti, ad esempio, voleva a tutti costi far parte di Orecchie. Milena Vukotic, invece, ha accettato subito in maniera entusiasta. Ivan Franek, con cui avevo già lavorato in Due vite per caso, ha accettato senza nemmeno leggere il copione mostrando il suo ottimo potenziale come attore da commedia. Rocco Papaleo ha voluto farmi un regalo, interpretando un personaggio che non potrebbe fare in film molto più convenzionali. Altri attori, dai nomi molto noti, hanno accettato il provino. Pamela Villoresi al primo provino per il ruolo della madre è stata perfetta. L’atmosfera intorno a Orecchie è stata fin da subito entusiasta. Un film prodotto dalla Biennale College ha un budget esiguo, 150 mila euro. Di conseguenza, è un film che non può permettersi di pagare gli attori con chissà quale cifra. Orecchie ha un cast che non poteva permettersi se non fosse stato per l’entusiasmo. Come direbbero gli appassionati di New Age, c’era grande energia intorno al progetto.

Il protagonista è un supplente di filosofia a cui la propria scienza sembra non fornire serenità o felicità. Coloro che lo circondano e che sembrano folli o anormali hanno raggiunto la loro felicità grazie a qualcosa, a un feticcio – reale o astratto - a cui sono attaccati: il telefono, la laurea, il videogioco, le piante, gli elenchi telefonici, la religione. Hanno trovato tutti una felicità in qualcosa che il protagonista, estremamente razionale, non ha. Il prete interpretato da Rocco Papaleo è un po’ la chiave di svolta della vicenda. Nella chiacchierata al bar che ha con il protagonista gli apre gli occhi sulla paura principale dell’uomo di oggi. Nelle sue parole, però, sembra evincersi anche una critica nei confronti della religione, tema che in maniera circolare è presente sia all’inizio sia alla fine di Orecchie.

Non vorrei che ci si fermasse solo all’aspetto della critica nei confronti della religione. Orecchie è un film scritto da un ateo, figlio di una madre cresciuta in un ambiente ipercattolico. Sì, è vero che la religione può essere considerata come l’oppio dei popoli ma è un oppio necessario. Come dice il prete di Rocco, credere in qualcosa serve ad avere meno paura. Sebbene il protagonista consideri i credenti come degli stupidi che si aggrappano a una superstizione, alla fine si rende conto di come questi vivano una vita migliore, più serena, perché appunto credono in qualcosa. L’importanza di credere in qualcosa, anche se in qualcosa di non perfettamente verificabile (che puoi chiamare Dio, Allah o Amore), serve sempre a vivere un’esistenza migliore e con meno paura. Evitare di affogare nelle domande e provare a credere in qualche risposta, anche se non tutto torna, aiuta. Anche perché nella vita non sempre tutto torna: è inutile continuare a cercare un significato. Meglio godersi il viaggio anche nella più totale assenza di significato. Il film è intriso di religione, come ne è intrisa la vita di tutti quanti. Forse rappresenta anche una dichiarazione di sconfitta del razionalismo, che ti inaridisce, ti rende infelice e ti lascia più solo.

Cosa significa lavorare per la Biennale College?

Orecchie è stato selezionato a fine novembre 2015 e doveva essere pronto in tempo per la Mostra del Cinema di settembre 2016. Ho dovuto nel breve tempo a disposizione scriverlo, scegliere il cast, girarlo e postprodurlo. Sono dei tempi folli per un film “normale”. Scrivere di getto mi ha però fatto venire fuori delle cose che ho poi notato me. Cose che riguardano me ma che riguardano anche tutti.

Anche perché, diciamolo, non lesini critiche riguardanti il funzionamento della nostra società: dal settore sanitario a quello editoriale. La scena del triage, ad esempio, seppur paradossale, è molto critica sul funzionamento dei nostri pronto soccorso. Mentre la sequenza con Piera Degli Esposti lo è nei confronti del mondo dell’editoria.

Molto divertente da girare ma molto difficile da spiegare agli stranieri. Il nostro sistema dei codici di emergenza e le sue relative etichettature vengono da noi date per scontate ma non è facile farle capire a chi non vi è avvezzo. Se ci pensiamo, è già una cosa folle di per sé. Come le sabbie mobili della distinzione tra assistenza sanitaria nazionale e il sistema delle visite intramoenia.

Anche la scena nella stanza della direttrice Piera Degli Esposti rappresenta qualcosa che stiamo vivendo: il tentativo di unire l’alto alto con il basso basso per uniformare il tutto e prendere tutto il pubblico. “Kant e il topless” avrebbe potuto veramente essere il titolo di un saggio del povero Umberto Eco. In ogni sfera, anche in politica, si tenta di coniugare temi alti con temi bassi per cercare di allargare il proprio target di riferimento. È una delle follie che stiamo vivendo. Se ci pensiamo, in certe riviste vediamo già qualcosa di simile con delle rubriche in cui il filosofo di turno commenta il gossip.

Hai girato Orecchie a Roma. Una scelta dettata dal fatto che ci vivi o da esigenze sceniche?

Sin dall’inizio volevo che vi fosse sullo sfondo una grande città che facesse da spettatrice. Roma, nella sua dimensione indolente e superiore, è stata sempre spettatrice di tante storie. Si prestava, dunque, molto bene al viaggio ondivago del mio protagonista. Mi piaceva poi l’idea di unire una Roma classica già vista tante volte con le immagini di una Roma segnata da forme d’arte più moderne, come quelle degli street artist visibili in quartieri come Tor Pignattara, Prenestina o Pigneto. Raccontare una nuova Roma e in bianco e nero è stato da sempre nei miei pensieri: una Roma diversa, un po’ meno sognata e più proiettata verso la contemporaneità, rispetto a quella mostrata ad esempio in La grande bellezza. Il bianco e nero rende le immagini meno da cartolina.

Guardarsi intorno, accettare le differenze e metabolizzarle, è uno dei corollari di Orecchie. È percettibile soprattutto nei tre incontri che il protagonista fa con un altro passeggero sopra l’autobus. Le prime due volte non è in grado di vedere dove stava la sua peculiarità, temendolo quasi, mentre la terza e ultima volta riesce a comprendere la sua originalità e realtà.

Non è un caso che il terzo incontro avvenga in un momento specifico della storia, quando oramai ha capito che deve abbandonare i suoi preconcetti e allargare i suoi orizzonti e quando il frame è molto largo. Tra l’altro, piccola chicca, lo sconosciuto dell’autobus è interpretato da Roberto Di Tanna, il montatore del film a cui ho regalato un primo ruolo. Il personaggio dell’autobus permette anche di capire il cambio di tono dell’opera, che da comico diventa man mano intimista.

A proposito di follia, non posso fare a meno di chiederti come hai convinto Sonia Gessner a recitare in un ruolo del tutto lontano da quelli a cui siamo abituati, molto drammatici.

Sonia era entusiasta del personaggio. L’unica cosa su cui ho avuto delle difficoltà è nel farle picchiare delle suore. Di natura, è la persona più buona dell’universo. Girare quella scena, con la violenza che volevo, ha richiesto diversi ciak.

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Intervista a Daniele Parisi

Prima di parlare di Orecchie, vorrei sapere chi è Daniele. Questo è il tuo primo ruolo importante per il cinema e mi piacerebbe conoscere qualcosa in più di te.

Comincio a fare teatro da piccino, da minorenne, al liceo. Nell’ufficializzare la cosa, tento l’ingresso all’accademia D’Amico per ben tre volte prima di venire ammesso a 23 anni. Ho frequentato nell’attesa l’università (il Dams, letteratura drammaturgica) e una scuola di teatro a pagamento, che mi ha permesso i primi esperimenti con degli spettacoli in cui andavo in scena da solo. Giravo per i localetti di Roma, dove si esibivano già attori comici molto più esperti di me. Ricordo che non facevo mai ridere, ogni volta era una tragedia. Con l’ingresso in accademia, abbandono per forza di cose tutto ciò che era legato al comico: occupato dalla mattina alla sera, ero immerso in un’atmosfera più totalizzante. Dopo l’accademia, inizia per me la carriera da scritturato: lavorando con una produzione stabile per tre/quattro anni, ho fatto quattro spettacoli che mi hanno riempito le giornate. La mattina facevamo le prove e la sera andavamo in scena. Nel 2010, però, entro in crisi: la vita da scritturato cominciava a starmi stretta, inizio a sentire un’esigenza più autorale. Capisco il perché della crisi nel 2011 grazie a Paolo Rossi. Lo incontro alla Maddalena per La valigia dell’attore: ero fermo da qualche mese, lui portava avanti un lavoro sul teatro popolare, sul teatro all’improvviso, e di conseguenza sulla scrittura comica. In qualche modo, mi dà la spinta per ricominciare e cimentarmi con la scrittura autorale. E adesso sono cinque anni che scrivo e dirigo i miei spettacoli teatrali. Ne ho già scritti tre e sto scrivendo il quarto. Lo scorso anno poi ho avuto una parentesi teatrale molto bella: mi sono riavvicinato al teatro con gli altri attori con Antonio Calenda per uno spettacolo storico. L’incontro con Calenda è stato molto particolare. Calenda, che ha scritto pagine molto importanti nella storia del teatro italiano, ha iniziato con Gigi Proietti e con Piera Degli Esposti, con cui mi sono ritrovato a lavorare in Orecchie.

Cosa ti ha spinto verso la recitazione? Cosa ti affascinava della professione di attore?

Fondamentalmente, la dimensione ludica. Una dimensione che ricorda il gioco da bambini e che mantengo sempre nei miei one man show. Nei miei spettacoli, faccio le stesse cose che facevo a otto anni, le vocine e gli stessi giochi scenici di quando ero piccolo. Si tratta quasi di un ritorno all’infanzia e di un abbandono totale dell’essere adulto.

Una dimensione ludica che anche Orecchie ha.

Infatti. La cosa bella del gioco è che è spietato e che ha delle regole molto ferree. Orecchie è ironico ma è anche spietato. E ciò lo rende comico nella sua concezione più alta. Racconta di un personaggio che si ritrova intrappolato nella rigidità del meccanismo. Non c’è pathos e non si cade mai nel patetico. Anzi… nella più assurda delle situazioni si continua a ridere, restituendo la spietatezza del gioco e della vita stessa, che è tragicomica.

Il tuo personaggio va incontro a un cambiamento esistenziale notevole.

È interessante come cambia il punto di vista. Il protagonista è un uomo estremamente razionale, che impronta la sua visione del mondo sulla razionalità, con una visione critica sull’esistenza. Quando ciò viene messo in crisi, si passa da uno stato a un altro. Il fischio è il simbolo di questo passaggio, è lo stridio della contraddizione, dei bisogni diversi dell’umano che non dialogano più e danno origine al viaggio alla ricerca del sé. È come se avesse avuto un paraocchi, che non gli ha permesso di guardare oltre la propria visione del mondo portandolo verso una chiusura e non facendogli notare cosa lo circonda. La crisi è interessante perché ribalta il punto di vista, la prospettiva, e concede la possibilità di percorrere molte strade. Nella dispersione in cui avventura va incontro a quelle che reputa come follie della contemporaneità: ovviamente, valutare la follia dipende sempre da un punto di vista e da come guardi il mondo. Nella sua visione, si ritrova in un universo quasi assurdo e incomprensibile. La sua forma mentis (ha studiato filosofia) lo porta ad avere un approccio dialettico nei confronti dell’esistenza: è sempre stato un integralista del principio razionale e ciò gli blocca l’ipotesi del ribaltamento di visione.

Come ti sei preparato al personaggio? Oltre a avere una mente nazionale, è molto naif nel suo modo di essere.

Io e Alessandro abbiamo lavorato molto sull’arco del personaggio. Era importante mettere a fuoco tutti i passaggi che c’erano, altrimenti ci saremmo smarriti anche noi insieme al nostro Lui. Per raccontare bene uno smarrimento occorre avere ben chiare le direzioni. Ci siamo posti da subito la direzione chiara da seguire e ciò ci ha permesso di giocare sia con la dimensione ludica sia sugli obiettivi di ogni singola scena. Avendo chiara la struttura, era possibile anche divertirsi e lasciarsi abbandonare consapevolmente.

 

Essendo un film molto parlato, hai lavorato molto di mimica e postura. Oltre al cambiamento di formato, si nota anche il tuo cambiamento “fisico”.

Da sempre, anche in accademia, mi dicono che sono un attore che lavora con il corpo. Essendo più di scuola mejerchol’diana piuttosto che legata al metodo Strasberg ed essendo noi italiani dei comici dell’arte, lavoro più con il corpo. Questo non significa che io non pensi alla memoria emotiva. Credo semmai che il corpo abbia più memoria della testa. Il che comporta che l’obiettivo del personaggio ne influenzi la postura: ciascun obiettivo è legato a un motore fisico e, inevitabilmente, ciò cambia anche la postura. Nella prima parte del film, il corpo del personaggio è in un certo modo ma, andando incontro a una trasformazione di climax, cambia. Dai balbettii iniziali passa a un finale in cui tiene un’orazione funebre di uno sconosciuto, dopo aver trovato una ragione di essere e aver preso coscienza di sé. Sin da ragazzino, mi è sempre venuto naturale lavorare con il corpo. Lo faccio anche nei miei spettacoli one man, in cui l’approccio di natura fisica è fondamentale. 

Nell’andare alla ricerca di se stesso, il tuo Lui si relazione con dei folli, tutti interpretati da dei mostri sacri della recitazione. Com’è per un attore quasi esordiente confrontarsi con chi ha alle spalle la storia del cinema e del teatro italiano?

Da loro non c’è altro che da imparare. Prima di tutto, mi ha impressionato molto la consapevolezza che hanno, forse dettata dall’esperienza, nel mantenere salda la struttura del personaggio e delle dinamiche della scena. Poi, l’adesione che hanno nei confronti del testo e la capacità di ascolto – altissima - che hanno dell’altro attore. Per me il set di Orecchie è stata una scuola. È un grande privilegio aver lavorato con loro: sono convinto che molte scene siano andate bene perché c’erano soprattutto loro: c’era un bel dialogo tra attori che giocano insieme.

Quali sono state invece le direttive di regia per il personaggio?

Alessandro è stato molto bravo. Mi ha sempre messo nella condizione di sapere dove stavamo andando. Ciò ha dato a tutti la possibilità di stare tranquilli e sereni. Quando un attore è diretto bene e ha chiara la rete sotto ai piedi, è possibile il salto.

Cosa ti aspetti da Orecchie e dalla sua presentazione a Venezia?

Non saprei. Sono curioso anch’io di vedere le reazioni. Spero che il pubblico apprezzi film e intenti. Tutto ciò che verrà sarà guadagnato. Per me, è già una grande cosa aver preso parte a Orecchie e essere lì. Spero di continuare con il cinema ma so per certo che il teatro mi appartiene e farà sempre parte della mia esistenza. La scrittura è insita in me, possono cambiare anche le forme… Mi piacerebbe continuare con il cinema in un ambito che prevede l’utilizzo del proprio corpo e della voce in maniera simile a quella teatrale. Del resto, le direzioni sono sempre le stesse.

Beh, con il cinema però manca quella che è la valvola che decide l’andazzo di uno spettacolo: le reazioni dirette del pubblico. Su un set, non hai la consapevolezza di ciò che arriva.

Esatto, su un set non ti accorgi della reazione, non sai se una battuta funziona o no. È anche questo il fascino del cinema. Proprio per questo motivo, vedrò Orecchie per intero la prima volta a Venezia, in mezzo al pubblico, per vedere da vicino la reazione che avrà. Voglio regalarmi questo privilegio. Vedi? È il teatro che ritorna… è l’attore stesso che si siede in mezzo al pubblico per guardarsi e studiarsi.

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