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Giochiamo a Stranger Things
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Ci sono arrivato dopo a Stranger Things, causa vacanze, ma ho recuperato subito. Ed è scattato l’amore a prima vista che, come si sa, col tempo si ridimensiona. Perché dico questo? Che Stranger Things non sia quella serie cult che tutti dicono – un po’ come è successo con la prima stagione di True Detective? No, non credo sia questo. Il ragionamento è più complesso: oggi, a causa – per colpa o grazie a? – dei social network, dei canali internauti e dei dispositivi digitali che “aumentano” la realtà e la rendono ipercondivisibile, le serie televisive, ma anche i film, i libri, gli eventi, etc…, diventano subito cult senza nemmeno essere passati al vaglio del giudizio spettatoriale. In definitiva, partiamo con l’idea che quella serie, quel film, quel disco, quell’evento sarà sicuramente degno di venerazione e ricordo ben prima di vederlo, ascoltarlo, viverlo.

Forse, Andrea Bellavita potrebbe spiegarci meglio queste dinamiche, con la terminologia più adeguata – ma ricordo anche un articolo di Menarini a riguardo. Credo comunque di non sbagliarmi quando dico che oggi le case produttrici, siano esse cinematografiche, televisive o colossi social, creino e poi sfornino “narrazioni” strettamente collegate a un target ben preciso, di cui conoscono i gusti, le aspettative e le debolezze proprio grazie ai dati internauti. Non è più un mistero che i bambini e gli adolescenti degli anni ’80, me compreso nato nel ’78, siano una generazione nostalgica per definizione. Siamo i primi ad essere nati e cresciuti nel benessere, ad aver avuto subito la televisione ed un immaginario ad essa collegato, e siamo anche quella generazione di quarantenni che fatica a staccarsi da casa, a fare famiglia, ad essere insomma adulti dal cordone ombelicale reciso.

Ancorati a Indiana Jones, I Goonies, Fantozzi, Pozzetto, Banfi, Spencer, i cartoni giapponesi, i telefilm americani, il Drive In e chi ne ha più ne metta, non riusciamo a concepire le nostre vite totalmente slegate da questo immaginario. Che forse la realtà attuale sia avara di sogni e bellezze come la nostra età dell’oro da indurci a un continuo sguardo al passato? Può essere. Sicuramente gli anni ’80 sono ormai da diverso tempo oggetto di rilancio culturale, fonte di ispirazione e gallina dalle uova d’oro.

Difficile credere quindi, che il successo di Stranger Things non sia dovuto anche e in buona parte a questo gioco commerciale di studio, selezione e creazione. O meglio ri-creazione, dato che rinnovando un immaginario preciso e ricontestualizzandolo si opera una vera e propria seconda creazione. Stranger Things non è un revival, non è puro citazionismo postmoderno, è un vero e proprio prodotto anni ’80 ricontestualizzato.

Pensiamo alla bellissima sigla. Ricalca perfettamente i titoli di testa di film horror di quell’epoca, soprattutto carpenteriani, ma anche di serie tv come Werewolf (1987), oltre a utilizzare il font con cui si conoscono le opere di Stephen King – citato tra l’altro nella serie - ma è autonoma, perfettamente a suo agio nel suo nuovo contesto. Non percepiamo l’estraneità di un corpo anomalo – una serie tv del 1984 in piena estate 2016 – bensì viviamo o riviviamo un’atmosfera, un immaginario e un linguaggio che la nostra cultura enciclopedica, o meglio e con più azzardo, la nostra capacità decodificatrice, già conosce ed è in grado di leggere.

Quindi, al netto del fatto che Stranger Things sia davvero meritevole di lode, bisogna tenere in considerazione il fatto che non è una serie nata a caso, ma ampiamente studiata. Netflix fa le cose fatte bene e se anche la frettolosità delle riprese ha fatto i gattini ciechi – montaggio, raccordi sull’asse e campi e controcampi non perfetti come già segnala Menarini (Filmtv n.33) – il prodotto finale è tra i migliori della serialità contemporanea. Non ho mai creduto nella coerenza della trama o nel valore spiegazionista delle storie – lascio questi dettagli a chi non sa “leggere” l’arte narrativa. Mi interessa molto di più, dato che vengo dalla critica tematica, la forza evocativa, l’immaginario di riferimento, l’impianto iconografico, i temi, i motivi e le figure di detto immaginario, riutilizzati, ricollocati, ricontestualizzati e infine anche risemantizzati. Lo scopo, anche indiretto e inconscio delle produzioni televisive e cinematografiche, il cui obiettivo principale è ovviamente fare cassa, è anche quello di perpetuare la narrazione. Senza narrazione l’uomo sarebbe finito; non saprebbe più spiegarsi, rivedersi, immaginarsi, proiettarsi nel futuro.

L’abile gioco dei fratelli Duffer non si esaurisce però nell’accostare Stephen King a Steven Spielberg, nel rievocare il mostro del Sottosopra, ovvero il Freddy Krueger di Nightmare (1984) con la livrea aliena di Alien (1979), o citare a random Shining (1980), Halloween (1978), Poltergeist (1982), Il tunnel dell’orrore (1981), Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), Explorers (1985), I Goonies (1985), Stand By Me (1986), E.T. (1982), o l’A-Team (1983-1987), ma si compie perfettamente nella scelta dei giovani attori. Lontani anni luce dagli standard edonistici degli ’80 e di quelli iperedonistici del 2000, i quattro giovani protagonisti, in primis la bravissima Millie Bobby Brown, sfoggiano un’alterità spiazzante. Abili in scena, esteticamente “diversi”, freschi e naturali come solo a quell’età sanno essere gli attori, Finn Wolfhard, Caleb McLaughlin e Gaten Matarazzo sono uno spasso. Ricalcano personaggi già presenti nel nostro database – Finn Wolfhard è il Mikey Walsh dei Goonies e il Gordie Lachance di Stand by Me; Gaten Matarazzo è Chunk, ma anche Vern Tessio; e Caleb McLaughlin è Data e Teddy Duchamp. Manca all’appello il River Phoenix della situazione, il duro, il bullo, il tenebroso, il ragazzino già uomo, ma questo avrebbe dato una direzione al modello narrativo che avrebbe offuscato la matrice rocambolesca e nerd del concept originale. Ma quanto ci manca River Phoenix?

Inoltre, nonostante tutti parlino di Winona Ryder, credo che tra i seniors, a meritarsi gli applausi della platea sia Matthew Modine. Il suo Dottor Brenner ha un non so che di Christopher Lee, ma al tempo stesso sembra un personaggio lynchano. Vecchio, rugoso, allampanato, dal capello bianco platino, un tall man, non coscarelliano, ma altrettanto inquietante a cui certo manca una marcia in più, ma la sua presenza scenica è appunto da applausi. Un cattivo che forse non è convinto fino in fondo di quello che fa. Nei suoi occhi e nelle sue pochissime battute, si intravede la rassegnazione. La rassegnazione a un’ideale, a un progetto, a un’idea di male che non si può guarire.

Tematicamente Stranger Things accontenta tutti, senza approfondire il discorso su argomenti troppo alti per una serie che gioca tutto il suo fascino sull’immaginario rievocato. Il legame quasi religioso dei giovani protagonisti con il loro mondo immaginario, piuttosto che il legame monoaffettivo che li unisce, dove gli amici, si sa, per un periodo dell’infanzia e della adolescenza sostituiscono la presenza femminile, sono legami che la serie affronta superficialmente, articolandoli con motivi topicizzati – già i film di riferimento, Goonies, Stand by Me e Explorers, argomentavano il tutto diversamente.

I binari del treno, le corse in bici, i boschi di notte, la caccia al tesoro, il mostro, i cattivi assoluti – qui il Governo – sono temi che innescano subito un gioco enciclopedico con il nostro immaginario, ormai detto anche cultura visuale, trasformando la visione di Stranger Things in qualcosa di diverso. Da un lato, puro intrattenimento autonomo, dall’altro la possibilità di ogni fruitore di rifarsi il proprio film, la propria storia, scavando nel proprio bagaglio culturale e abbinando temi e figure a piacimento. Quasi una seria interattiva senza esserlo davvero. Il carattere ludico della serie Netflix è il suo contenuto. È un gioco che possiamo fare tutti personalizzandolo, come se fosse un libro game o un gioco di ruolo come il Dungeons & Dragons a cui giocano i protagonisti, azzeccata mise en abyme narrativa – da brivido la previsione del piccolo Mike di essere preso dal Demogorgone all’inizio del pilot.

Interagire con il proprio immaginario e riscoprire da dove veniamo è un’occasione che i nativi digitali e la quasi totalità dei nati dal 2000 in avanti non potranno fare. Oggi, causa internet e i social network, tutto è rapido e vive il tempo di un post, nulla si sedimenta. Il corto circuito affettivo e cognitivo è dietro l’angolo. Quando tra circa un decennio si inizierà a riflettere sugli anni ’90, anni molto interessanti e vedrete quanto sarà acceso il dibattito, sarà l’ultima occasione che avremo. Dopo di che entreremo definitivamente nell’epoca del futile, della memoria azzerata, dell’analfabetismo emotivo, dell’inesperienza sensibile. Tutto sarà autoreferenziale, virtuale, falso, distorto, non più un briciolo di memoria materica.

Godiamo fin che siamo in tempo. Nascere nel Novecento è stato il più bel regalo dei miei genitori.

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