"Registi che contano" non ambisce, né può essere, una monografia compiuta ed esaustiva sull'autore ogni volta preso in considerazione; tenta piuttosto mettere in luce un cineasta e di presentarne l'opera cronologica che lo ha contraddistinto sino ad oggi. Autori che potrebbe essere interessante conoscere, e che, a giudizio di chi scrive, si sono distinti per un particolare stile o tecnica di regia, per le argomentazioni che contraddistinguono la loro carriera ad oggi, senza necessariamente pretendere di attribuir loro il merito di raccontare cose nuove o mai viste.
NA HONG-JIN, OVVERO: RITMO E TENSIONE ORCHESTATI CON GRANDE PROFESSIONALITA’ NEL RISPETTO DI PERSONAGGI INCISIVI E SPLENDIDAMENTE CARATTERIZZATI.
Si può già essere considerati registi di culto con all’attivo tre soli (seppur notevoli) lungometraggi?
Sergio Leone e Gillo Pontecorvo rimangono tra i nostri registi più conosciuti ed apprezzati all’estero, e il numero delle opere che formano le rispettive filmografie non risulta a conti fatti molto più corposo; lo stesso può dirsi per altri due registi cult di origine francofona, come Jean Eustache (quello di La maman et la putain, unico, ma indimenticabile suo film) e Jean Vigo (L’Atalante, Zero in condotta e pochi altri notevoli gioielli), mentre solo negli ultimi anni la frenesia produttiva sembra aver contagiato il misterioso e venerato Terrence Malick, per oltre tre decenni noto unicamente per le sue prime due osannate e giustamente celebrate pellicole (La rabbia giovane e I giorni del cielo).
E teniamo presente anche che il buon Tarantino, già ai tempi della notevole (ma a mio avviso sottovalutata) sua opera terza, Jackie Brown, era una icona pulp quasi indiscussa.
Lungi dal voler fare un qualsiasi paragone con i meravigliosi cineasti menzionati poco sopra, utili solo a confutare la tesi che il numero dei film non è quasi mai conseguenza essenziale e necessaria di grande levatura registica, ma casomai solo una opportuna conferma, mi piaceva con questo post evidenziare, per chi magari non se ne fosse ancora accorto, il nome e l’opera questo talentuoso cineasta coreano, noto fino ad ora soprattutto tra gli appassionati di cinema d’azione dell’Est.
Circostanza plausibile, questa della mancana conoscenza, considerato che nessuno dei tre film di Hong-Jin ha potuto avvantaggiarsi di distribuzione cinematografica nelle sale - ed è un vero peccato, se si tiene conto della notevole tecnica registica che li contraddistingue, ideale per essere messa in risalto sul grande schermo - ma solo in dvd per quanto riguarda i primi due, mentre per il terzo, The Wailing, presentato Fuori concorso a Cannes 2016, le probabilità di vederlo in sala sono in effetti più po’ più concrete.
Non c’è in effetti molto da dire riguardo alla persona del cineasta, nato nel 1974 in Corea del Sud, dunque ancora piuttosto giovane, ma già maturo e completo, di professione regista, ma anche sceneggiatore delle sue opere.
Meglio cercare di recuperare i suoi due film passati (cosa che non dovrebbe risultare difficile) ed attendere che la nostra distribuzione faccia uscire in sala l’ultimo concitato thriller (incrociamo le dita) dove la tensione da epidemia dilagante e letale si coniuga alla celebrazione/rappresentazione di riti ancestrali dagli effetti difficilmente controllabili, almeno per ordinarie menti mediamente raziocinanti.
La filmografia di Na Hong-Jin si compone di alcuni cortometraggi (Go-su-bu-ji del 2004; A perfect red snapper dish del 2005; Sweat del 2007.
Con il bellissimo, bizzarro, teso e sfaccettato The Chaser, con cui Hong-Jin vinse il premio come miglior regista presso il Grand Bell Award and Korean Film Award, cominciamo ufficialmente ad accorgerci di essere di fronte ad uno dei giovani cineasti coreani più tosti.
Il successivo The Yellow Sea (The murderer), del 2010, mi ha entusiasmato a tal punto da far balzare il regista in cima alla lista dei miei amati cineasti coreani.
Il teso ma anche scanzonato e controverso The Wailing è una valida conferma delle potenzialità di un regista giovane, talentuoso nella ripresa, amante dello scontro frontale all'arma bianca (coltelli, accette, martelli), che promette davvero di fare faville.
Lo attendiamo pertanto nel prossimo futuro con una certa ansia, e soprattutto molto ben predisposti.
Ecco una panoramica dei suoi ottimi tre film, presentati qui in ordine cronologico.
1)
Un bel modo di esordire nella regia, questo The chaser, per un autore coreano ormai tra i più osannati come è ora Hong-Jin Na: tre soli film all’attivo, ma tutti davvero notevoli, l’ultimo dei quali, The Wailing, accreditato a Cannes 2016 nel Fuori Concorso, rassegna in cui si includono generalmente i titoli di rilievo in capo agli Autori (si, con la A maiuscola).
Un thriller a senso alternato questo suo esordio, che intraprende le strade dell’efferatezza, nel descrivere le gesta terrificanti di un folle assassino seriale di donne, ma anche la via scanzonata di un protagonista ex-poliziotto pasticcione e problematico che, cacciato via per chissà quale scorrettezza, ha deciso di sopravvivere nella giungla metropolitana della metropoli coreana riciclatosi come magnaccia.
Quando alcune delle sue protette iniziano a sparire, l’uomo si convince che un rivale gliele abbia rubate. La vicenda invece è ben più drammatica e violenta, dato che le donne sono finite in contatto col folle assassino, che le uccide con un martello sulla testa per problematiche legate alla propria problematica identità sessuale.
Il film, lungo oltre due ore, come è prassi nei film dell’autore, è tutta una rincorsa contro il tempo nel tentativo, ostacolato da comportamenti scellerati ed ingenui da parte delle forze dell’ordine e della burocrazia della legge, del nostro ex poliziotto di ritrovare la sua ultima collaboratrice, minato dai sensi di colpa per aver costretto la donna ad andare all’appuntamento col folle anche se malata, e dopo aver scoperto che la donna lascia a casa una figlioletta nemmeno in età scolare.
Un film che ci sollecita a sperare in una soluzione almeno di compromesso, salvo poi darci una clamorosa mazzata verso i ¾ della pellicola, e ripiombando nella più cupa desolazione e nel raccapriccio che fanno seguito ad una serie di beffardi e incredibili accumuli di combinazioni negative per la giustizia, favorevoli invece affinché il laido e subdolo assassino riesca in qualche modo sempre a farla franca.
Una conduzione concitata, dove il sangue scorre come nei pressi di una mattanza, ma dove l’aspetto della commedia dei (tetri) equivoci si innesta al thriller per complicare la situazione e rendere, se non perfettamente credibile, almeno plausibile una serie di circostanze pazzesche che finiscono per rendere tutto o quasi davvero molto inutile.
La regia è davvero dirompente, efficace, e di gran stile, dettagliata e sconcertante nelle scene più drammatiche e forti, ma anche aperta verso il dettaglio intimo di personaggi anche secondari ma importanti per lo sviluppo dell’intrigo. Una conduzione che non si dimentica dello spettatore, ma anzi gli riserva sempre un occhio di riguardo, giocando sullo stato d’animo di chi affronta la storia, sempre indeciso se prendere sul serio la vicenda, o se lasciarsi un po’ andare, favorito dal comportamento (chissà se) involontariamente comico del nostro un po’ grossolano ed irruento, ma anche maldestro protagonista: un uomo in caduta libera, certo, ma in fondo tutto proteso a venire a capo della vicenda quanto capisce (finalmente) la gravità della situazione e rimane invischiato nella tragedia familiare che lo vede accollarsi addosso il destino assai incerto di una tenera bambinetta tutta sola.
Un esordio che affronto solo ora, dopo aver visto gli altri due notevoli altri film del regista (il secondo, e secondo me migliore fra tutti è The yellow sea), e che conferma le grandi attitudini e premesse esistenti di fronte ad un cineasta di cui probabilmente sentiremo parlare a lungo, in attesa di vederlo nei suoi prossimi impegni.
Di grande contributo alla riuscita del concitato film - notevole già solo dal manifesto, che potete vedere qui sopra, davvero stupendo - due attori che sono delle star in patria: Yun-seok Kim, ottimo, ritroverà Hong-Jin Na in The yellow sea, come pure l’ancor più bravo (dà corpo e voce ad un personaggio subdolo, apparentemente freddo e menefreghista, ma in realtà lucido, scaltro e premeditatore e diabolico) Jung-woo Ha, visto poi anche in altre buone produzioni coreane come nameless gangster e il recente The Handmaiden di Chan-wook Park.
VOTO ****
2)
Thriller coreano di ottima, sorprendente fattura (sorprendente soprattutto per chi non è avvezzo a lasciarsi irretire dalla maestria di molto cinema sudcoreano, a mio giudizio uno degli esempi più vitali, estrosi e sublimi della moderna arte cinematografica), The Murderer (conosciuto anche come "The yellow sea" quando fu presentato nel 2011 al Certain regardi di Cannes)) racconta con ritmo incalzante che ci fa viaggiare nel tempo senza accorgercene durante le oltre due ore e venti di pellicola, la lotta per la sopravvivenza di un disgraziato autista sino-coreano, Gu-nam, un meticcio scacciato e visto in malo modo da entrambe le etnie. Un poveraccio verrebbe da pensare, che da tempo vive in Cina spendendo tutti i già miseri guadagni al gioco d’azzardo, lontano dalla figlioletta accudita dalla madre. Tra l’altro l'uomo è costantemente minacciato dagli strozzini presso i quali si è indebitato per affrontare le spese legate al trasferimento della moglie coreana, della quale tra l’altro non ha più notizie da mesi e che tutti ormai ritengono si sia fatta una nuova vita nonostante il marito si sia rovinato per riuscire a garantirle l’espatrio. A soccorrerlo e a cercare di tirarlo fuori (non senza il suo sporco, sporchissimo tornaconto)da questo precipizio senza fondo, interviene ad un certo punto un losco figuro, l’assassino Mung-ga, una iena senza pietà che gli propone una ingente somma di soldi (quelli necessari per pagare i debiti contratti e salvarsi la pelle) in cambio dell’eliminazione di un misterioso individuo in Cina. Il ritorno laggiù potrebbe fornire la possibilità di recarsi nella stessa città ove risiedeva con la consorte, dando modo al protagonista di indagare sulla sua scomparsa.
Ma in realtà tutto ciò è l’inizio di un incubo senza fine, perché il piano meticolosamente costruito da Gu-nam si sgretola presto non appena egli scopre che c’è qualcun altro che vuole morto l’individuo. Qualcuno ben più organizzato di lui e ad un livello ben superiore nel variegato strato sociale di quel paese. Naturalmente lo sventurato protagonista finirà per accollerarsi ogni colpa, per finire su giornali e televisioni come uno dei ricercati più pericolosi del paese perché il morto è un' pezzo grosso, un professore che nasconde informazioni che lo rendono pericoloso a molte organizzazioni criminali. Addossate tutte le colpe possibili, Gu-Nam dovrà pure guardarsi dalla furia impressionante del suo mandante, un cattivo coi fiocchi che mette davvero i brividi. (l'ottimo Yun seok-Kim, una furia della natura).
Il film si avvale di inseguimenti a perdifiato girati meravigliosamente, tamponamenti di auto senza fine che rimangono indelebili nella memoria per il fragore della ferraglia che si deforma in seguito agli urti frontali che lacerano carni e devastano i due irrefrenabili protagonisti in una caccia all’uomo che non concede nessuna tregua. Mung-ga armato di accetta che elimina uno ad uno i sicari che lo minacciano e parte all’inseguimento di Gu-nam, è una furia della natura che inquieta e fa davvero paura: è la belva che ci fa sentire indifesi, il Terminator terrestre invincibile ed ineliminabile. La sua accetta lacera carni e crani lasciandoci nelle orecchie l’eco sordo della lama che incide la carne, con un effetto realistico stordente che ben si intona all’irrealistica coreografia delle rincorse a perdifiato che durano decine di minuti. senza mai smorzare l'effetto attanagliante dei primi minuti.
Sotto questo aspetto, che a mio giudizio rappresenta il vero valore di questo straordinario film, emerge con vigore lo stile incalzante del thriller lunghissimo che ricorda inevitabilmente certi capolavori senza tempo come l’altrettanto infinito ma perfetto "Heat" di Michael Mann. In questo contesto sanguigno troviamo al centro uno spaesato Gu-nam ormai alla deriva, personaggio dolente meraviglioso, accentuato e reso immortale da quel suo efficace drammatico monologo iniziale sul proprio cane rabbioso, generatore a suo dire di un sentimento diffuso e generalizzato nella società come l’ira, la rabbia diffusa, che genera mostri e crea mostruosità inenarrabili. Una follia collettiva dalla quale dipende l’inrrinunciabilità della violenza come mezzo per farsi valere e per raggiungere uno scopo: un atteggiamento che è peraltro il motore conduttore di tutto un vortice di violenza che regna incontrastato in questo splendido noir della disperazione e della follia più brutale.
VOTO *****
3)
Un brano tratto dal Vangelo di Luca ed inerente il mistero della resurrezione, con il Cristo che invita i fedeli più scettici a toccare le proprie carni martoriate con ancora visibili i segni delle torture accusate durante il calvario sulla croce, ci introduce con una certa coerenza, anche se molto di tutto ciò lo capiremo più avanti, nella complessa, intricata vicenda.
In una contea di campagna, presso un villaggio modesto abitato da gente umile, alcuni omicidi terrificanti scuotono la tranquillità del luogo inducendo la polizia, che brancola nel buio, a propendere a spiegare gli accadimento come conseguenza di una strana, morbosa, orrenda epidemia. L’autorità segue la pista indicata dai più, ovvero quella dell’avvelenamento presunto da funghi tossici.
Un poliziotto di nome Jong-Goo, che vive nel posto, di animo piuttosto indolente e sfaticato, si occupa a malavoglia delle prime indagini, ma poi quando comincia a capire che pure la sua figlioletta presenta piaghe attorno al corpo e sbalzi d’umore che fanno pensare che stia incubando il male misterioso, ecco che lo stesso inizia a prendere sul serio l’indagine.
E considerati i pochi passi fatti avanti nelle investigazioni, decide di impegnarsi indagando di persona tra la gente coinvolta. Scopre che la gente si è fatta un’idea precisa su chi sia il responsabile, da tutti additato nella persona di uno straniero misterioso, un giapponese solitario che vive poco distante, di cui nessuno sa nulla di preciso, se non che pare abbia cercato di violare una donna, la quale da tempo vaga spesso nuda nella notte, pronunciando frasi sconnesse ed aggredendo la gente.
Venuto in contatto con uno sciamano, e considerato che la chiesa cattolica non gli offre aiuto alcuno se non generici inviti alla preghiera, il poliziotto si fa convincere a sottoporre la figlioletta ad una pratica di esorcismo.
In un crescendo di tensione, la situazione si complica ed i casi di follia aggressiva - che rende i colpiti dalla malattia come degli invasati senza tregua, quasi degli zombie - si moltiplicano in modo esponenziale.
Assieme ad un gruppo di amici e ad un prelato conoscitore del giapponese, Jong-Goo farà di tutto per venire a capo della tragedia, incerto se credere ai riti un po’ assurdi ma di una certa efficacia dello sciamano, o a quello che via via apprende nel corso della sua terrificante indagine.
Il gran regista coreano Na Hong-Jin di The Yellow Sea e di The Chaser ci incanta nuovamente con un noir poliziesco-orrorifico strambo e contraddittorio, ma girato splendidamente e molto affascinante.
L’indagine complessa e tortuosa si contorce su se stessa con lo svelamento graduale di verità che poi vengono contraddette, creando da un lato una certa confusione, lo stesso disagio che devasta il protagonista ed i suoi amici e colleghi.
Difficile credere ad una versione, e poi al suo esatto contrario, quando il fantasma, che poi è il diavolo in persona, potrebbe essere davvero lo straniero misterioso da tutti additato come colpevole, o invece una donna di belle sembianze che appare misteriosamente lungo il corso dell’insanguinata indagine.
Non è mai facile parlare del diavolo al cinema senza banalizzarlo, tantomeno risulta semplice rappresentarlo. Na Hong-Jin riesce a farlo e dalla sua rappresentazione se ne esce a tratti agghiacciati, a tratti sbalorditi ed increduli, come fossimo vittime consapevoli di uno scherzo pesante in cui non sappiamo più come raccapezzarci per venirne fuori.
Gran talento registico da parte di un autore che con soli tre film all’attivo può già far parlare di sé solo in modo positivo e lusinghiero.
E soprattutto gran spettacolo per un cinema coreano in gran forma da anni ormai, e che non cessa mai di stupirci ed entusiasmarci, anche quando, come in questo caso, a tratti sembra pure stia prendendoci in giro con i suoi toni grotteschi e forzati, le sue scene madri esagerate, i riti simil-woo-doo che sembrano spettacoli da fiera, l’atmosfera tetra e sanguinolenta, i cieli torvi e plumbei pieni di pioggia incessante, solcati dal volo nervoso di corvi spettrali.
VOTO ****
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