(leggeri spoiler)
Tutto quel che ha amato chi è cresciuto con Steven Spielberg, Stephen King, Joe Dante e John Carpenter, torna oggi in Stranger Things, serie di Netflix in otto episodi a firma The Duffer Brothers (con la coregia di Shawn Levy).
Il risultato è nostalgicamente persino stordente (il fumettista Roberto Recchioni, che quell'immaginario lo ama, mi ha detto su facebook “obnubila le mie capacità di giudizio”), tanto che lo si potrebbe accusare di essere un bigino più che una sintesi, non fosse che il respiro lungo degli otto episodi riesce a trovare l'amore per i personaggi del miglior King. Diversi passaggi sono comunque citazioni quasi sfacciate: la parrucca bionda di Eleven (Poltergeist), i ragazzini che camminano lungo di binari del treno (Stand By Me), le musiche supercarpenteriane, alcuni elementi del mostro che rimandano La Cosa, la ragazza nascosta come fosse un'aliena (E.T.), il governo che insegue la ragazza dotata di poteri paranormali (L'incendiaria) e via dicendo. Non mancano nemmeno i ragazzini parlano più volte degli X-Men, con tanto di riferimento a episodi precisi di cui citano anche il numero: per l'esattezza in apertura si nomina il 134, di Chris Claremont e John Byrne, intitolato Troppo tardi, gli eroi e assolutamente di culto perché qui Jean Grey cede al lato oscuro e si rivela per quel che poi sarà la Fenice Nera. Una storia non a caso tragica e con una donna dotata di poteri mentali micidiali, proprio come Eleven, la giovane "ESPer" di Stranger Things.
Soprattutto però a chiave di volta del racconto troviamo Dungeons & Dragons (con regole reinterpretate, ma è irrilevante): conosciamo i ragazzini protagonisti durante una sessione di gioco (di 10 ore) e qui uno di loro, Will, deve decidere se proteggere se stesso o prendersi dei rischi per il bene dei suoi compagni di avventura (in gergo: il party) e attaccare il terribile Demogorgon. Quando il giorno dopo gli altri scopriranno della scomparsa di Will, si sentiranno in dovere di andarlo a cercare anche in virtù del suo coraggio al tavolo da gioco: lui si è esposto per il gruppo e loro si sentono in obbligo morale di ricambiarlo. Poco importa che Will l'abbia fatto in una fantasia condivisa, perché quella fantasia è per loro reale quanto e più di altre cose, è un mondo di storie in divenire con una complessa cosmologia, è un modo per esplorare la propria etica e le conseguenze che comporta, uno strumento per capire il mondo e se stessi. Che diventa più avanti nella serie ancora più sorprendentemente pertinente: l'aldilà in cui è finito Will viene compreso dai ragazzi – e pure dal loro professore nerd – con un'analogia alla Vale of Shadows, la dimensione delle ombre del multiverso di D&D.
Per il fratello maggiore di Will, reietto sociale allontanato dai coetanei, l'interpretazione del mondo (a lui ostile) passa invece per la fotografia: è un suo scatto quasi casuale che rivela, opportunamente ingrandito (come in Blow up, mi fa notare l'amico critico Adriano De Grandis), la presenza del minaccioso mostro dall'Upside-Down, il mondo capovolto delle ombre. E la sorella di Mike, pur se non ha colpe nella scomparsa del ragazzo, è disposta a tutto per ritrovarlo, persino ad affrontare un altro mondo come in Labyrinth.
Proposta a Netflix come un “very dark Amblin movie”, Stranger Things si è però come schiarita strada facendo, in particolare nel personaggio di Steve, che originariamente dicono gli autori doveva essere un bullo più crudele e che invece trova una redenzione per via dell'umanità che l'attore – il giovane Joe Keery – ha saputo infondere al personaggio. Che i Duffer Brothers non siano autori di un cinema poi così cupo era del resto già chiaro dal loro esordio: Hidden in cui, in uno scenario più o meno da apocalisse zombie, una famiglia sopravvive in un rifugio antiatomico. Anche nella post-catastrofe non mancano momenti umanisti e il finale è in fondo assai più positivo rispetto a molti altri film del medesimo filone. Sia in Hidden che in Stranger Things è figura di particolare forza quella della madre, che nella serie ha il volto di Winona Ryder, davvero disperata e pronta a tutto. Fa piacere vedere che, a partire da Show Me a Hero lo scorso anno, la Tv le sta donando una seconda chance.
Tra i vari elementi ripresi dal cinema anni 80, uno di quelli più centrali in Stranger Things è il bambino con poteri paranormali, che non smette del resto di esercitare un certo fascino ancora oggi. Era in Tv nel 2014 in Believe di Alfonso Cuaron e J.J. Abrams ed è al cinema quest'anno nello splendido Midnight Special di Jeff Nichols. In entrambi questi casi la chiave era messianica, ma non mancano mai associazioni più o meno governative che si dimostrano pronte a tutto nella loro caccia al bambino in fuga. Così come il bambino ha sempre una natura altra, aliena e a tratti inquietante: nel caso di Stranger Things la giovane Eleven proietta la propria coscienza in uno spazio mentale analogo alla misteriosa dimensione di Under the Skin, ossia uno spazio vuoto e nero, dove si cammina su uno specchio d'acqua che sembra petrolio. Per interpretare Eleven l'intensa Millie Bobby Brown, classe 2004, si è dovuta far rasare i capelli con orrore dei suoi genitori. L'hanno convinta, dicono i Duffer Brothers, grazie a Mad Max: Fury Road e alla Furiosa interpretata da Charlize Theron, evidentemente un irresistibile modello di valchiria anche per una ragazzina.
Gli anni 80 si fanno sentire in Stranger Things a partire dalla qualità delle immagini, davvero da film della Amblin, fino al recupero di un attore come Matthew Modine, lanciatissimo ai tempi di Full Metal Jacket ma poi rivelatosi la tipica promessa mancata di Hollywood. Il suo ruolo è in realtà piuttosto sacrificato e bidimensionale, tanto da far pensare a un ritorno del suo personaggio nella prossima stagione. Sebbene non sia ancora confermato da Netflix, visto il gran parlare che si è fatto della serie sui social, appare del tutto scontato il rinnovo della serie.
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