Nella nuova stagione una delle principali novità, sicuramente quella più rilevante per Don Pietro, è la presenza di Patrizia, interpretata da Cristiana dell'Anna, come l'hai vissuta?
Innanzitutto ti racconto un retroscena: io quando posso cerco di costruire un rapporto con gli attori che non conosco, in modo che poi sul set si respiri una certa atmosfera e, visto che con Patrizia le cose dovevano evolversi di puntata in puntata, all'inizio con Cristiana sono stato veramente stronzo. Un po' come facevo con Marco e Salvatore il primo anno ho cercato di garantirmi che lo sguardo del collega con me fosse di un certo tipo, quindi non la salutavo di proposito, arrivavo al trucco senza darle attenzione e la cosa ha funzionato, perché poi lei sul set aveva una certa rabbia nei miei confronti, avrà pensato "Guarda questo come si è montato, chi si crede di essere!". Poi, piano piano, ho scalato le marce e ho iniziato a essere più dolce a darle più confidenza e questa incertezza di rapporto ce la siamo giocata nelle scene. Lei aveva intuito qualcosa ma sono stato così determinato nel fare lo scostante che poi si è convinta fossi davvero così. Verso la fine delle riprese naturalmente mi sono spiegato: per gli attori la cosa più difficile è riuscire a fare il salto dal privato al personaggio e, siccome la concentrazione è merce rara, in questo modo mi garantisco che l'energia in scena abbia una certa qualità. È un meccanismo psicologico piuttosto efficace. Poi comunque abbiamo avuto un buon rapporto.
Riguardo il personaggio di Patrizia, l'ho amato subito già in scrittura, quest'anno devo dire sono contento dello sviluppo della serie: alcune vicende magari hanno delle lentezze ma, se nella macro storia forse c'è qualche passaggio opinabile, quelle dei personaggi tornano tutte molto molto bene. Patrizia è una ragazza fuori dai meccanismi criminali, però per ragioni di parentela fa parte di una sorta di casta ed è in un certo senso condannata a questo ruolo, la sua è una identità rubata.
Il rapporto con il suo personaggio è abbastanza complicato, perché Pietro, per fare quello che fa, deve escludere una certa gamma di sentimenti. Penso che l'abitudine al male, a un certo tipo di azioni violente - ed è una cosa che ho capito progressivamente, perché con la serialità hai modo di far sviluppare alcuni pensieri dentro di te - l'abbia portato a una sorta di disumanità: accogliere dei nuovi sentimenti non gli viene semplice. Ho fatto una sorta di danza, cercato un equilibrio per capire fino a che punto Pietro si accorgeva che qualcosa stava filtrando, ma è solo nel momento del pericolo che ha davvero un'epifania e dimostra preoccupazione per Patrizia, riconoscendo anche a se stesso i suoi sentimenti. Nelle ultime scene è cambiato, è più umano, ed è così che - come per Conte - diventa debole: perché nella visione degli sceneggiatori, che condivido, non c'è una possibilità d'uscita quando hai distrutto più che costruito. Finire con un nuovo amore per Pietro sarebbe stato imbarazzante.
In un'intervista hai detto che "Don Pietro è morto solo, come meritava", quindi come immagini che Patrizia avrebbe risposto a quella specie di proposta che lui le fa sul finale, contemporaneamente però mettendola in guardia dall'accettarla?
Si capirà suppongo nella terza stagione, personalmente credo che avrebbe accettato. Pietro è toccato da lei perché la riconosce come una sua simile, come già era Imma. Lui è come i Re, come i leoni, riesce a riconoscere "la puzza di sangue". Forse Patrizia scopre qualcosa che non sa nemmeno di avere dentro di sé e che Pietro invece vede subito. Per la prima parte della stagione lei esegue gli ordini ma poi, quando Don Pietro inizia a vincere, Cristiana mostra una certa soddisfazione militare, quasi animale. Si brucia anche il tatuaggio, perché c'è un'istanza violenta in queste persone: non penso che Patrizia sia davvero una vittima.
La sua evoluzione mi ha fatto pensare un po' a Breaking Bad, quando Mr. White si rende conto di poter fare certe cose, come anche a Un giorno di ordinaria follia: una volta che si varca una soglia e si sperimenta il male è come la rottura di un tabù. Questo non lo scopriamo noi, è già nei classici come Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, la pratica del male ti fa scoprire "qualcosa di vitale". Io credo che il fallimento di un certo tipo di comunicazione sia escludere il fascino del male (che non significa l'emulazione): la narrazione ha il dovere di mostrarlo perché così diventa riconoscibile. Una delle cose che ho sempre apprezzato di Gomorra è l'assenza del bene, perché l'essere confortati da una figura positiva assolve in modo un po' ipocrita e la realtà non funziona così.
Non sono certamente i personaggi positivi che vediamo in molti racconti e fiction a fermarci dal commettere un'azione malvagia: è invece vedere le persone che distruggono la loro vita a fare da deterrente. Come riguardo alla droga insistendo sul proibire si finisce solo per generare curiosità. Se la realtà invece viene mostrata nella sua violenza, per esempio con la fine che si fa a farsi di eroina, ci può anche essere una fascinazione per quel che si vede ma poi sfocia in un rifiuto. È un po' come quando c'è un incidente in autostrada e tutti noi rallentiamo, e più è macabra è la scena più ci incuriosisce, ma nessuno di noi desidera essere la vittima per terra.
L'esposizione a un certo tipo di meccanismi del male ha una funzione specifica, com'era del resto già nelle tragedie greche: mostrare le cose come stanno senza facili assoluzioni. Solo così hai una reazione positiva, altrimenti fai della morale che non serve a nessuno, perché la realtà poi ci dice cose completamente diverse.
Venendo invece a Genny: con Don Pietro ha un rapporto piuttosto complesso dove è emblematico il passaggio nel bosco, la notte in Germania, della seconda puntata.
Il rapporto padre-figlio, come in quella scena, ha elementi epici in questa stagione di Gomorra: torniamo di nuovo al vizio della violenza e del male, perché Pietro non può fare altro che essere se stesso. È come la storia della rana e dello scorpione, che avvelena la rana anche se moriranno entrambi perché è nella sua natura. Il male è in tutti quanti noi, siamo sempre di fronte a delle scelte, ma una volta che - come Don Pietro - si incede nella pratica del male questa poi diventa la nostra natura, come un vizio o una coazione a ripetere. Quindi Pietro non può far altro, non è abituato ad accogliere il figlio in quanto figlio.
È come tra le belve: il leone fino a un certo punto coccola il cucciolo, poi questo diventa un altro leone, uno sfidante per il dominio sul branco. E vale anche per questi personaggi che sono disumani perché ormai condizionati dalle loro scelte. Nel parlarne cito a volte Verešchagin, un pittore russo che dipingeva montagne di teschi con città sullo sfondo forse disabitate, e come nei suoi quadri fanno i Pietro e i Genny: erigono pile di cadaveri e per tornare indietro dovrebbero scavarle o scavarle. Più si pratica il male e più diventa difficile redimersi.
Gomorra quest'anno ci ha presentato Don Pietro come latitante, come hai visto questa condizione e quanta attinenza ha la rappresentazione rispetto alla cronaca di altre latitanze?
Mi sono documentato anche personalmente perché noi attori abbiamo fatto diversi suggerimenti sul set. Ne abbiamo parlato già negli incontri preliminari e la cosa su cui ho lavorato di più era che Don Pietro sarebbe stato come una bomba inesplosa in uno spazio ridotto. Ho inteso la latitanza più come una mancata libertà che come una prigionia. Gli dà ancora più voglia di espandersi, è una belva incatenata con enorme volontà di vendetta. Essendo però Pietro Savastano non è semplicemente violento - che può voler dire anche commettere gesti immediati, passionali - ed è invece una sorta di genio del male, lucido, freddo, calcolatore, senza pentimenti. Il malvagio ha un piano preciso e Pietro mi ha insegnato a capire come si muove il male: lui anche quando ascolta pareri diversi, come quelli di Malammore e Patrizia, mantiene una lucidità preoccupante.
Per esempio la terribile uccisione della figlia di Ciro gli appare come una strada praticabile e (anche se molti poi sul web si sono ribellati a quella scena dicendo che c'è un etica anche criminale e non si commetterebbero gesti del genere) la cosa triste è che diversi camorristi e mafiosi hanno davvero fatto cose terribili ai bambini. La presunta etica criminale - che non voglio dire non esista - viene negata da queste azioni orribili, che saranno magari delle eccezioni ma sono comunque dei fatti.
L'idea di partenza in Gomorra è di riferirsi a storie specifiche e per Don Pietro abbiamo guardato a diverse latitanze. Di solito i bunker sono sotterranei e senza finestre, mentre qui ci siamo concessi una invenzione narrativa, che credo vincente dal punto di vista estetico. Abbiamo creato un bunker all'ultimo piano di un palazzo molto alto, da cui Don Pietro vede il suo impero, come una mappa del territorio. Però, anche se sta in alto, per uscire deve attraversare le fogne, sta in una sorta di nido da cui far discendere i suoi avvoltoi, ma non può lasciarlo spiccando il volo e deve invece attraversare la merda.
È una liberazione non vestire più panni tanto disumani?
Come cittadino sono sollevato dalla fine di Pietro, ma come attore si diventa intimi di un personaggio del genere, è un rapporto quasi frustrante. A volte ti chiedi il perché di certe cose, ed è così che arrivi ad avvicinarti di più al personaggio, ma non puoi comunque condizionarlo. È una sorta di pugilato, stai sul ring, le stai prendendo, ma è anche eccitante, e vale un po' per tutti questi grandi personaggi da Riccardo III ad Agamennone, sono figure che ti danno tantissimo. Quando li lasci c'è una sorta di lutto da elaborare: ho visto l'ultima puntata e ho avuto un momento quasi di commozione, perché Pietro è stato importante, non solo in termini di carriera, ma proprio in senso più intimo. È stato un viaggio affascinante, attraverso il quale ho elaborato possibilità umane che spero comunque di non incontrare mai nella realtà.
Don Pietro è un'icona del male ma nei suoi panni hai partecipato a una pubblicità di Legambiente.
Non è stata una nostra idea, ce l'hanno proposta da Legambiente ma ci hanno subito convinto, abbiamo solo chiesto che fosse tecnicamente ben realizzata e infatti è stata ben accolta. Mi ha ripagato in un certo senso perché ho usato quel personaggio, a cui sono legato da tempo, per raccontare delle cose a cui tengo molto nella mia vita personale [Fortunato Cerlino è anche un testimonial della campagna Adopt Tibet].
Ora sei sul set di Britannia, una produzione anglo-europea dove è coinvolto anche Neil Marshall come regista del pilot.
È così e ci sono inoltre Rick McCallum come produttore, reduce dall'ultimo Star Wars, e Kari Skogland, che ha già fatto molte serie Tv, come regista principale. Il contesto è davvero straordinario, il gruppo è internazionale con molti europei, qualche inglese e anche australiani. Io sono l'unico attore italiano ma mi hanno accolto molto bene, sapevano benissimo chi ero e sono stati davvero calorosi. C'è stato un gran lavoro di preparazione e la macchina messa in piedi è impressionante, abbiamo 20 coach e stiamo lavorando con gli stunt per le scene di battaglia. Del resto si parte subito con un'invasione. Il punto di vista comunque non è solo storico: incontriamo e combattiamo i druidi e ci sono anche scene in una sorta di aldilà. Poi alcune cose stanno ancora cambiando perché gli inglesi continuano a scrivere anche in questa fase, ma credo che le ultime due puntate, la nove e la dieci, rimarranno e insieme formeranno una sola lunghissima battaglia. È una produzione ancora più grossa di Hannibal, ho visto alcuni bozzetti delle ricostruzioni e sono impressionanti, poi ci sposteremo in Inghilterra per i campi dei celti, una cosa da kolossal.
Io sono Vespasiano, che parte in sordina ma è uno dei circa quattordici personaggi principali, e nel corso della serie diventa imperatore. In questo si sono presi qualche libertà perché storicamente è ricordato come un comandante piuttosto "pacifico", mentre nella serie è parecchio feroce. Vespasiano del resto era uno che dava un ultimatum prima di attaccare ma è stato comunque artefice di carneficine vere e proprie: prenderà il comando della legione Seconda Augusta e metterà a ferro e fuoco il Sud della Britannia. La cosa più difficile per me, su cui sto lavorando molto (insieme all'esperto di romanità e codirettore de “Il Foglio” Alessandro Giuli) dal punto di vista psicologico, è capire cosa era normale allora. Sentirsi romani giustificava una enorme arroganza, ma era necessaria per farsi rispettare e poi, raggiunta una cerca carica, si doveva essere scortati in ogni momento per non rischiare di essere uccisi. L'idea che si aveva dei barbari, ossia in non romani, conferiva quasi ogni diritto su di loro perché erano visti come creature inferiori, popoli che forse non hanno nemmeno il diritto di esistere, senza dignità. Poi va anche considerato che per esempio i primi Re romani erano quasi dei sacerdoti: i romani ritenevano di avere dalla loro parte Marte e quindi conquistavano per diritto divino.
Visto che stai lavorando a una produzione anche inglese, è d'obbligo in questi giorni chiederti due parole sulla Brexit.
Ho fatto parecchie ricerche sull'Europa della caduta del Muro e sul rapporto con la Germania per lo spettacolo che ho scritto, Potevo far fuori la Merkel ma non l'ho fatto, e ho realizzato che abbiamo costruito e accelerato l'Europa sulla paura del Marco Tedesco, che in quegli anni era molto potente. Lo stiamo pagando adesso perché la percezione dell'Europa è totalmente cambiata. Pur se personalmente ritengo che non ci sia un'altra strada, bisogna ammettere che i burocrati hanno sbagliato tutto, anche la comunicazione.
E poi c'è il cinema.
Ho girato tre film di prossima uscita, il primo è Falchi con Toni D'Angelo alla regia e nel cast Michele Riondino, Stefania Sandrelli e il grande Pippo Delbono. È un film di genere su due poliziotti di un gruppo speciale napoletano, i Falchi, che equivale grossomodo all'antiscippo. Viaggiano in moto quindi c'è qualcosa di epico in quello che fanno, il film infatti ha momenti quasi da western. Abbiamo lavorato con alcuni ex Falchi, che hanno un rapporto molto diretto con la criminalità e, anche se pochi lo sanno, hanno collaborato anche a grossi arresti come quello di Sandokan dei Casalesi. Viaggiano in borghese, senza schemi precisi, sembrano quasi criminali e sono conosciuti e rispettati nel territorio, anche perché molti tra loro vengono dai quartieri di periferia. Noi raccontiamo di questi due agenti a contatto con una la comunità e la criminalità cinese di Napoli, che non era mai stata raccontata così.
Poi ho fatto un film low budget di Fabio Venditti, Socialmente pericolosi, che riprende anche alcuni materiali dai documentari che Venditti ha girato anni fa e li inserisce in una struttura narrativa con me e Vinicio Marchioni. È tratto da una storia vera di Fabio, quando come giornalista ha conosciuto un camorrista in carcere. Il rapporto fra i due diventa molto intimo, tanto che quando il mio personaggio si ammala lui decide di ospitarlo in casa, ma è un'amicizia pericolosa, perché quella natura di cui parlavamo all'inizio poi presenta il suo conto. È un'eccezione che abbia accettato il ruolo di un altro camorrista, perché di solito li rifiuto subito, ma questo era l'occasione giusta visto che è una storia vera.
Infine c'è il film con Francesca Neri e di Raffaele Verzillo, Senza fiato, che trovo molto coraggioso. Racconta come siamo condizionati dal mutato sistema economico tenendo un punto di vista umano. Il mio personaggio è un quarantenne che perde il lavoro e sta per avere un figlio, sembra banale ma è una condizione comune a molti.
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