Dal gotico rurale di Eraldo Baldini al distopico rurale di Sergio Baratto. O, per essere più specifici, dall’horror padano di Pupi Avati al distopico padano di Sergio Baratto. Il suo secondo romanzo, La Steppa (Mondadori Strade Blu, 2016) è qualcosa di unico e (s)travolgente.
Lo dico subito per non dare adito a facili commentini pruriginosi. Conosco Sergio Baratto da quando ero bambino. Fino ai primi anni delle superiori si giocava insieme in cortile. Suo fratello è uno dei miei migliori amici. Sua sorella, suo padre e sua madre sono una parte della mia bella infanzia. Ecco che per qualcuno questo articolo potrebbe già puzzare di encomio di convenzione, di applauso clientelare o addirittura di bieca marchetta. No. Perché non è un mistero che con La Steppa ci troviamo di fronte a una felice novità dell’attuale panorama letterario italiano. Lo confermano anche le parole con cui la Giuria del XXIV Premio Berto presieduta da Antonio D’Orrico motiva la vittoria di Sergio Baratto: «E’ questo un romanzo di iniziazione che sottintende un lucido giudizio morale, un’utopia negativa che non rinnega la terribile bellezza di una storia d’amore, un angolo della provincia lombarda che si allarga a contenere il mondo intero. Sono questi gli elementi più caratteristici di un esordio che si segnala per la forza e l’esattezza di una lingua severa e commovente, implacabile come l’incubo che descrive».
Non è proprio un esordio visto che già “esordiva” nel 2012 con Diario di un’insurrezione (Effigie), oltre che ad essere cofondatore e redattore della rivista cartacea e telematica Il primo amore. Parole forti, quelle della giuria, che scomodano, nella mia memoria, João Guimarães Rosa e il suo Grande Sertão: Veredas (Livraria José Olympio Editora, Rio de Janeiro, 1956) che ho discusso nella mia tesi triennale e di cui è riconosciuta la forza universale del particolare. Così, quell’angolo della provincia lombarda che si allarga a contenere il mondo intero, è lo scenario per un coming of age amaro in cui c’è spazio per tutto, dall’amore adolescenziale alle fughe nella natura, dalla maturazione sessuale all’amicizia virile, dalla decadenza della società borghese alla deformazione totalitarista di un futuro molto vicino.
Inutile indugiare sulla trama. La Steppa è un grande romanzo che va letto. Punto. Un imperativo cortese, il mio, perché credo che ogni lettore, di ogni ordine e grado, sarebbe capace di interpretare, con i suoi personalissimi mezzi enciclopedici, la storia rocambolesca del giovane protagonista e dei suoi amici. Credo anche che ogni lettore, messo davanti alla deformazione distopica di un reale che potrebbe essere il nostro, già domani mattina, non potrà non riconoscere, oltre il proprio impeto ribelle e avventuroso, anche le proprie debolezze, il proprio populismo, il proprio piccolo borghesismo e la clamorosa mancanza di salde strutture culturali e formative alla base del blocco sociale più ampio.
Tralasciamo temi e motivi del romanzo, con cui si giocherebbe facile la carta per un plauso unanime – gusti di genere letterario a parte, ovviamente. Pensiamo soprattutto alla forma, mio personale rovello con cui sono solito cestinare o apprezzare letture e visioni – pur venendo dalla critica tematica, quindi fondando l’analisi di un’opera narrativa su temi, figure e motivi.
Se dovessi scegliere un aggettivo con cui descrivere il romanzo di Sergio Baratto, userei “pregno” – e suo fratello mi è testimone. La sua è una scrittura pregna di vocaboli, di aggettivi, di orazioni che rafforzano altre orazioni. L’uso di un lessico vivo e viscerale, in alcuni casi didascalico, aiuta a rievocare un mondo reale, ben conosciuto da chi come il sottoscritto ha vissuto e bazzicato le stesse strade, le stesse campagne, gli stessi ambienti, sia un mondo immaginario, ricostruibile attraverso la sensibilità di ogni singola parola del testo. Inoltre, l’uso del passato prossimo che collega direttamente e in modo inquietante, il nostro presente con il tempo dell’azione, rafforza l’immanenza del racconto. Non lo colloca in un impreciso tempo del passato, ma nemmeno in un futuro lontano e improbabile. Tutto, dal lessico alle scelte stilistiche, dai tempi verbali alla modulazione narrativa, dai personaggi principali ai bizzarri e inquietanti personaggi di contorno, tutto permette non solo una lettura coinvolgente e drammaticamente personalizzabile, ma permette anche di fotografare in modo implacabile l’attuale società italiana, del nord come del sud, ricca come povera, di destra come di sinistra, conformista come ribelle. Un po’ come ha fatto Paolo Virzì con Il capitale umano (2013), ma la forza de La Steppa sta proprio nel tanto martoriato genere che, con buona pace dei detrattori parrucconi, può andare a colpire l’immaginario di un essere umano molto più significativamente di una sterile operazione intellettuale.
Ovviamente, anche il cinema in questi ultimi decenni, ha dato agli spettatori alcuni tra i più importanti film appartenenti al distopico/postapocalittico. Se La Steppa potrebbe essere, molto semplicisticamente, l’incontro tra Stand by Me (1986) e V for Vendetta (2005), è anche vero che, pur radicando nell’immaginario rurale padano, può inserirsi al fianco di capolavori del genere come la serie dedicata a Mad Max, in particolare l’ultima follia di George Miller, Fury Road (2015), oppure L’esercito delle 12 scimmie (1995), L’uomo del giorno dopo (1997), I figli degli uomini (2006), Codice Genesi (2010), o ancora Terry Gilliam con The Zero Theorem (2013). Ma ancor di più, il romanzo può essere accostato al postapocalittico italiano, nonostante fosse una exploitation metropolitana e non rurale, girata negli Stati Uniti e non nelle nostre campagne. Fatto sta che titoli come I nuovi barbari (1983), 2019 – Dopo la caduta di New York (1983), Rats - Notte di terrore (1984) e la serie dedicata al Brox come idealizzazione perfetta del non-luogo postapocalittico: 1990 – I guerrieri del Bronx (1982), Fuga dal Bronx (1983), Endgame – Bronx lotta finale (1983), commentano anche indirettamente un decennio in cui, giovani, bambini e adulti, non possono non rivedere in certe ambientazioni di un futuro distorto, una proiezione efficace dello spettro delle guerre e delle dittature del novecento. Oltre, ovviamente, a un più ludico e sereno pretesto intrattenitivo e commerciale.
Questa particolare variazione tutta italiana sul tema fantascientifico, origina ovviamente da pellicole americane di successo, in particolare 1997: Fuga da New York (1981), che ne mutua sia la titolistica che l’ambientazione postapocalittica, e I guerrieri della notte (1979), da cui l’estetica della violenza urbana e il mito anarchico dell’underground metropolitano.
Sergio Baratto, ovviamente, non scrive un postapocalittico appartenente puro alla fantascienza del secondo novecento, ma restando ben ancorato alla realtà italiana e al quotidiano comune, fatto di segni popolari e riconoscibili da chiunque, introduce il fattore distopico all’interno del domestico. Inoltre, attraverso l’immaginario marziale di distruzione, degenerazione e totalitarismo modella il suo personale mondo utilizzando esistenti di più immediata riconoscibilità. L’orrore, quindi, l’orrore di un futuro imminente, fatto di centurie e volontari militarizzati che vogliono uccidere e bruciare tutti coloro che attentano alle loro tradizioni, alla loro piccola borghesia, al loro piccolo mondo antico fatto di menzogne e ipocrisie, è un orrore che si svela attraverso il racconto di formazione, la presa di coscienza dell’altro e di se stesso, del corpo dell’altro e del proprio corpo; un orrore che si svela attraverso la ristrutturazione gerarchica e fascista di truppe di strenui difensori della comunità, abitando ruderi, edifici abbandonati, strade deserte e là fuori, una steppa che molti vedono solo come il nemico da abbattere; un orrore combattuto attraverso la cultura, i libri, le fughe, la natura, l’aspetto avventuresco della minaccia imminente della catastrofe. E c’è pure il tempo per ridere davanti alle ottime caratterizzazioni di molti personaggi di contorno. Così come molte loro storie ci rattristano, ci commuovono.
Vi lascio con un piccolo estratto, senza dirvi chi lo pronuncia, quando, come e perché. Fuori contesto tutto può essere frainteso. Questo pezzo invece no. Potere del linguaggio “pregno” con cui Sergio Baratto inaugura, forse – dipende se il sistema in cui è inserito è capace di leggerne l’alto contributo culturale, civile ed etico – una nuova e fertile stagione di ipotetici giovani scrittori italiani che, attraverso il genere, potrebbero evocare gli spettri, gli scheletri, ma anche i sorrisi e gli amori, le bellezze e gli slanci vitali, di un’intera generazione.
«[…] La lotta contro la Steppa ci teneva svegli, tonici, ci sentivamo come soldati, anzi, meglio ancora, come volontari della guerra di liberazione! E anche senza ronde e truppe paramilitari sapevamo presidiare il territorio! La nostra piccola patria! Arimiate! Città minore ma di antica schiatta! Provinciale, ma che personalità! Sangue celtico, ostrogoto, longobardo! Facce indoeuropee! Chiesa tardobarocca! Castello medioevale! Cultura modesta ma secolare, con le sue belle tradizioni da difendere! Ma questo succedeva ai tempi in cui tutto stava appena incominciando e nessuno aveva idea di cosa ci aspettasse… le dimensioni della catastrofe… l’esondazione della Steppa… l’invasione…».
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta