E’ morto ieri a Parigi il regista iraniano Abbas Kiarostami all’età di 76 anni. Regista fra i più apprezzati del cinema internazionale negli ultimi trent’anni, era considerato uno dei più grandi cineasti viventi da personalità influenti come Martin Scorsese, Akira Kurosawa e Jean-Luc Godard (famosa la sua frase “il cinema inizia con Griffith e termina con Kiarostami). Nato nel 1940 a Teheran, all’inizio si dedicò alle arti figurative e negli anni Settanta si avvicinò al cinema, esordendo nel lungometraggio nel 1974 con “Mosafer” (Il viaggiatore), che parla di un bambino che vuole andare allo stadio per assistere ad una partita di calcio. Il primo film che lo fa conoscere in Occidente è “Dov’è la casa del mio amico?” del 1987, vincitore di un premio al festival di Locarno e anch’esso centrato sul mondo dell’infanzia. La trama è semplice e riguarda un bambino di 8 anni, Ahmed, che vuole riportare un quaderno scolastico che aveva preso per sbaglio ad un suo compagno che vive in un villaggio rurale del nord dell'Iran. La vicenda serve da pretesto per mostrarci la realtà sociale del paese, ancora molto arretrata, mentre il giovane studente percorre i campi della regione di Koker e si avventura per le strade del villaggio sconosciuto, incontrando adulti per lo più ostili. Semplicità dell'approccio, purezza di uno sguardo registico di tipo semidocumentaristico, vicenda che si presta come una metafora dell'innocenza infantile capace di rimettere in questione i fondamenti di una società basata su regole arcaiche e piuttosto rigide: il film di Kiarostami ha ereditato il meglio della lezione neorealista, è un'opera importante e di rottura per tutto il cinema mediorientale, forse un po’ ripetitiva nella ricerca di Ahmed, ma che rivela un grande talento sulla scena internazionale.
Nel 1990 esce “Close-up”, un esempio di meta-cinema o “docudrama” che col passare degli anni è stato sempre più acclamato come capolavoro da molti critici e registi. Prendendo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, Kiarostami segue un giovane disoccupato, Hossein Sabzian, che si fa passare per il regista cinematografico Mohsen Mahkmalbaf e promette ai membri di una famiglia benestante di Teheran di coinvolgerli nella realizzazione di un film; l'inganno regge per un pò di tempo, ma la menzogna è infine svelata e Sabzian deve difendersi in tribunale (da notare che le scene in tribunale, che occupano la maggior parte del film e sono fittamente dialogate, sono riprese dal vero, col permesso delle autorità iraniane). Kiarostami rievoca meticolosamente tutte le fasi di questo fatto di cronaca, a partire dal primo incontro sull'autobus fra Sabzian e la signora Ahankah, con la particolarità che ad interpretare i vari ruoli sono gli stessi protagonisti dei fatti accaduti, con un gioco di rimandi tra realtà e finzione che non può non destabilizzare lo spettatore. E' una sorta di sottile provocazione intellettuale, un cinema che non ha paura di ostentare la sua povertà di mezzi anche nella qualità della fotografia (soprattutto nelle scene in tribunale), ma dove la ricchezza di idee diventa feconda anche a livello formale.
Nel 1992 torna invece nella regione di Koker per “E la vita continua”, che viene a costituire il secondo tassello di una trilogia. Nel film, un regista alter-ego di Kiarostami viene a sapere che la città di Koker, dove girò il suo film "Dov'è la casa del mio amico?", è stata colpita dal terremoto, e decide di partire insieme al figlioletto per cercare di avere notizie sui due bambini che furono protagonisti del film. Quando giungono nei pressi della regione, trovano lunghe code automobilistiche che gli impediscono di arrivare a destinazione: allora il regista decide di prendere un percorso alternativo, lungo il quale sono accampati molti sopravvissuti in sistemazioni di fortuna. Il regista ne approfitta per intervistarli... E' uno dei film più semplici e diretti del regista, probabilmente ispirato allo stile del Rossellini neorealista, privo di una certa sofisticazione formale che si troverà in opere successive, anche se si tratta comunque di un'opera che mescola la realtà colta nella sua immediatezza con i procedimenti della fiction. E' anche uno dei suoi film più emozionanti nel mostrare la dignità e la perseveranza di una popolazione che non intende abbattersi, e mi è piaciuto molto per come ha saputo combinare le dinami che del rapporto padre-figlio e il loro evolversi al cospetto di varie tragedie personali degli abitanti della regione di Koker. Un film che sprizza verità da ogni fotogramma, tanto da poter definire Kiarostami uno dei migliori eredi della lezione neorealista.
Nel 1994 Kiarostami conclude la trilogia di Koker con “Sotto gli ulivi”, anch’esso un esempio di meta-cinema molto apprezzato nel circuito dei festival, dove si conclude anche la vicenda che aveva ispirato la trama di “E la vita continua” col ritrovamento del giovane attore che era stato il protagonista di “Dov’è la casa del mio amico?”
Nel 1997 la consacrazione della Palma d’Oro a Cannes con “Il sapore della ciliegia”, uno dei suoi film più conosciuti dal pubblico occidentale. Non c'è una vera e propria trama, poichè il film segue un uomo maturo che circola per la periferia di Teheran, cercando una persona che possa aiutarlo a commettere un gesto suicida, e non c'è un vero e proprio scioglimento della narrazione, ma un finale "in sospeso". Si tratta di una meditazione sul significato della vita, svolta attraverso un argomento tabù nella cultura islamica (e non solo) come quello del suicidio. Kiarostami assume un punto di vista laico, resta neutrale senza prendere parte attiva nella storia, ci mostra il disperato protagonista in tre episodi-confronti con un soldato curdo, un seminarista afgano e un anziano signore di origine turca, Bagheri: i primi due si rifiutano nettamente di collaborare nel suo progetto, il terzo sembra accettare, ma gli offre comunque diverse motivazioni per restare in vita, a partire da un episodio in cui lui stesse tentò di uccidersi impiccandosi ad un albero di gelsi e fu trattenuto proprio dall'invitante profumo dei frutti. E' un film impegnativo e profondo, di impronta filosofica, un'opera estremamente rarefatta e scarnificata nello stile in cui vi è poca azione e i dialoghi rivestono un'importanza non indifferente, e in cui credo che vi siano anche allusioni politiche piuttosto cifrate ai governi oppressivi che si sono succeduti in certi paesi medio-orientali. E' un'opera che ho trovato stimolante per il pensiero, affascinante nella veste figurativa soprattutto in certe inquadrature ambientate in una discarica in paesaggi montagnosi, ma forse un pò troppo ascetica, in cui l'estrema rarefazione in qualche momento rischia di tramutarsi in noia, come se Kiarostami avesse preteso troppo dallo spettatore, anche perchè il finale di carattere meta-cinematografico non l'ho capito fino in fondo e mi è sembrato piuttosto dissonante col resto del film.
Nel 1999 il regista si presenta in concorso a Venezia con “Il vento ci porterà via”, forse l’ultimo dei suoi grandi film, vincitore di un Gran Premio speciale della giuria che suscitò la delusione di Kiarostami. Qui si parte da uno spunto narrativo che vede un "ingegnere" (ma in realtà si tratta di un regista televisivo) arrivare in un remoto villaggio del Kurdistan per fare un reportage sul funerale di una vecchia centenaria, e delle varie interazioni che intrattiene con alcuni abitanti del villaggio, fra cui un bambino che deve fare gli esami, il suo maestro, una scontrosa proprietaria di una sala da té, una mite ragazza che munge una mucca nell'oscurità, una donna in procinto di partorire il suo decimo figlio, un medico che lo accompagna in un giro in moto esaltando la bellezza del creato... Ogni situazione offre lo spunto al regista per costruire un inedito poema cinematografico, che lascia nel dubbio diversi particolari della storia, gioca con intelligenza sul "fuori campo", esalta la maestria visiva di Kiarostami con bellissime composizioni paesaggistiche, soprattutto all'interno del villaggio, tutto sparso di vicoli e viuzze che collegano le abitazioni in un intricato labirinto che, dal punto di vista figurativo, resta senz'altro affascinante. Conoscendo già le altre opere del regista, non ho trovato il film ostico o noioso, anche se mi rendo conto che si tratta pur sempre di un film per un pubblico di intenditori... Qualche ripetizione si poteva evitare? Può darsi: il motivo ricorrente della telefonata con relativo viaggio in macchina in cima alla collina per sfruttare il campo del cellulare, l'ho trovato un pò pedante. Per il resto, però, mi è sembrato che i vari episodi si integrassero in una visione d'insieme coerente, in un tessuto visivo e (anti) narrativo gestito con mano ferma da Kiarostami, che non aveva voglia di raccontare una storia tradizionale, ma voleva farci partecipe di una situazione, un luogo sperduto, un modo di vivere lontano da quello di noi occidentali, ma anche da quello degli iraniani "cittadini" che abitano a Teheran.
I film successivi sono “Dieci”, un episodio del film collettivo “Tickets”, “Shirin”, “Copia conforme” realizzato in Italia e “Qualcuno da amare” realizzato in Giappone, ma non li ho visti come i precedenti e non posso esprimermi… Kiarostami si era allontanato dall’Iran, evidentemente a disagio col regime di Ahmadinejad, e aveva tentato strade diverse. “Copia conforme” ha trovato comunque molti apprezzamenti nei paesi anglosassoni.
Chi vuole può ricordare le sue esperienze di spettatore dei film di Kiarostami con un commento e, se vi va, indicate quale secondo voi è il suo film più bello. La mia preferenza va a “Close-up”
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