Il clima del 31 maggio ha garantito non un eccessivo caldo durante le ore diurne e non un eccessivo fresco durante le ore notturne: le maniche corte si rivelano finalmente adatte senza alcun tipo di remora. Mi avventuro dunque nella selva cinematografica che oggi si presentava particolarmente ricca.
Si inizia con Les bois dont les reves sont faits, e c'è da rimanere incantati. Claire Simon, il cui splendido Gare du Nord era stato proiettato proprio al Cinema De Seta qualche tempo fa durante la rassegna annuale di cinema dell'Institut Français, vaga nel Bois des Vincennes con uno spirito libero e istintivo come si addice a un documentario sui sogni della gente come questo, e che ha illustrissimi precedenti come Le joli mai di Marker-Lhomme e forse As I Was Moving Occasionally... di Jonas Mekas. Di Mekas la regista francese riprende anche lo sguardo profondamente pittorico: non solo rielabora inaspettatamente suggestioni alla Seurat (caratteristica del cinema mekasiano, che è forse il più pointilliste che sia mai esistito), ma sembra quasi emulare Millet quando racconta - con una voice over anch'essa mekasiana - l'arrivo della bella stagione. Il film, di lunghezza alquanto poderosa, scorre con freschezza e eleganza, generando nello spettatore un'attrazione davvero inspiegabile e magica: praticamente nessuno dei presenti in sala alle 16 ha lasciato la sala durante il film. L'effetto magnetico deriva dalla perizia visiva della regista, e dalla sua splendida capacità di improvvisare. Il suo documentario, infatti, realizzato con pochissimo, sfiora il lirismo più commovente e l'emozione più profonda con semplici, piccoli movimenti, cogliendo minuscoli dettagli e giocando con l'attenzione spettatoriale. A volte la Simon segue un personaggio discutendo con lui - non ci si stancherebbe mai di ascoltare, in questo film -, trasfigurando sequenze quasi amatoriali in vette oniriche alla maniera di una soggettiva sokuroviana (il viaggio iniziale nel bosco, palpabile eppure rarefatto, può riecheggiare Russian Ark, pur non "ondeggiando" come in quel caso); a volte decide di non parlare e di osservare i gesti più infimi, riecheggiando Man With No Name di Wang Bing (il solitario nella foresta, qui particolarmente loquace, nel film orientale invece silenziosissimo); a volte non disdegna la citazione e l'omaggio, come nella parentesi deleuziana che giustifica autorialmente la struttura collettivistica del film ("una lezione non può essere compiuta in un anfiteatro: anche se stiamo scomodi, qui possiamo parlare tutti") e l'atto stesso della ripresa ("quando passeggio - un po' come passeggia la Simon - smetto di essere io e divento un evento"). Condividendo con Gare du Nord l'unità fulcrale del singolo luogo come palcoscenico di una variegata collettività, Le bois dont les reves sont faits vanta comunque una sua commovente autonomia rispetto all'altro film della regista per come risulta essere materia plasmabile e quietamente anarchica. Piuttosto che concludersi dove più sarebbe ovvio, la voice over dichiara: "Me ne vado prima della fine", e il film si conclude di botto. C'è più libertà nel silenzio di questo film che nel frastuono di molti altri.
Voto: ****
Mai di Giulio Poidomani è invece la deludente visione delle 18,30, seguita dai due documentari di Bartolomeo Pampaloni. Con un bianco e nero stucchevole e un dilettantismo da studente di cinema, Giulio Poidomani non sembra metterci nemmeno il fondamentale entusiasmo che ci si poteva aspettare da un giovane regista, e rispetta canoni visivi alquanto risaputi se non in un paio di immagini, o anche meno. Sorvolando di netto sui fumosi dialoghi, rimane solo la bellezza dei luoghi e la facile presa, sullo spettatore siciliano, dell'ambientazione.
Voto: **
Di stampo pasoliniano-agostiano il Come una stella di Bartolomeo Pampaloni, che introduce idealmente al cinema del regista. Primi piani invadenti e ravvicinatissimi, telecamera a mano e suono a presa diretta: Patrizia racconta la sua terribile infanzia e la sua solitudine, la discriminazione nei suoi confronti (è una transessuale napoletana), e alcuni suoi randomici sogni. Quasi un compendio di ricatto emotivo.
Voto: *1/2
Di poco più interessante Roma Termini, in cui il mondo di una delle stazioni centrali della capitale diventa un microcosmo di esseri umani ai margini, ideali stampi di personaggi alla stregua di Christiane F., condannati dalla povertà, dalla disperazione e dalle dipendenze. Lo sguardo di Pampaloni è facile, e cerca di dissimulare il buonismo di fondo con una certa dose di ironia e di tempi morti che però farebbero fatica a convincere chiunque. Anche qui la telecamera è mobilissima, e la sfida è quella di Come una stella: rendere possibile l'empatia con individui che la vita ha imposto come freak, reietti, scarti umani. Tra sequenze vagamente shock (l'assunzione di metadone di uno dei personaggi principali), e una costruzione documentaristica che getta più di un dubbio sull'onestà veritiera dei fatti (molto sembra ricostruito e recitato, finzionalizzato, per il bene dell'immagine), alla fine ogni dubbio viene fugato dal finale. Forse avrebbe giovato ripassare Grifi e Sarchielli.
Voto: **
La commedia di Lionel Baier, delle 20,30, prosegue con la sezione Presenze del festival, ed è preceduta da alcuni interventi di Baier stesso alla presenza di Andrea Inzerillo, direttore artistico del festival, e Eric Biagi, direttore dell'Institut Français. Una volta confermata l'assenza definitiva di Valérie Donzelli al festival, si è avuto modo di godere delle amenità dell'ottavo film del regista svizzero, un gradevole pastiche che guarda costantemente ai classici di Lubitsch e, per transitività, anche a quelli di Billy Wilder. Con lo stesso sguardo sarcastico sulla Storia che poteva caratterizzare i film di questi due grandissimi registi del passato. La storia del gruppo svizzero della SSR, stazione radiofonica di Losanna, che cerca di "propagandare" l'intervento della Svizzera nell'inferiore (politicalmente e socialmente) Portogallo nel 1974, si confonde con la Rivoluzione dei Garofani e l'avvento rivoluzionario del popolo, che sogna la democrazia. Il tutto filtrato dalla solita consapevolezza visiva di Baier, che non disdegna qui come nei suoi altri film l'ausilio di un modo di filmare assolutamente scanzonato e pop, ricco di esibiti vivaci tecnicismi (lo split screen, che in quanto a mise en scène verrà sostituito dai dolly de La Vanité) e di una struttura finzionale evidente e stimolante (il gioco coi generi, tra cui la commedia, la ricostruzione storica e il musical, servono proprio a riflettere sulla messa in scena in quanto tale). Benché sia meno divertente di quanto vorrebbe, il film è comunque espressione di uno stile particolare che ha una sua encomiabile unicità.
Voto: ***
Si dice spesso che è stimolante domandarsi continuamente perché durante un film. Ma a dover essere corretto, nello sguardo dello spettatore medio, è la passività del proprio rapporto con l'immagine. E' questo che insegna, a posteriori, il progetto trilogico Spectrum SQ3105OG del collettivo CaneCapovolto. La proiezione poco affollata delle 22,30 dell'Arena dei Cantieri Culturali è stata ad ora il momento più suggestivo e stimolante dell'intero festival. Dopo la presentazione del progetto Sicilia Misteriosa, web serie che si propone di diffondere le notizie delle ingiustizie e dei disastri ambientali compiuti in varie parti della Sicilia tramite corti che chiunque voglia aderire può realizzare stressando più il contenuto che la forma (ben accetta qualsiasi essa sia), e dopo dunque la visione di Sicilia Misteriosa #1 - Un porto turistico a Naxos? realizzata da Alessandro Ajello, componente di CaneCapovolto, e Zoltan Fazekas (la prima pietra scagliata di un fruttuoso esperimento di denuncia), si parte con tre progetti di CaneCapovolto, che meritano comunque un'analisi particolare presi singolarmente.
Il primo è Condominio. Il retroscena è quello del progetto bislacco di un'amica del collettivo di distribuire nelle cassette delle lettere di alcuni condominii dei messaggi strani che modifichino in qualche modo le relazioni fra i condòmini. Il film è la trasposizione semica di questa confusione: il loop delle immagini reitarate allo stremo, i coloratissimi interni di una festa elegante, alcuni minacciosi primi piani di una donna e la facciata rovinosa di una vecchia palazzina, sono i materiali d'archivio assemblati in un video che ha come obiettivo quello di riflettere soprattutto sul montaggio (aspetto caratterizzante il cinema e la videoarte di CaneCapovolto). Alienandoci dalla classica visione inerte di un'immagine cinematografica ordinaria, siamo spinti a domandarci cosa avviene fra le immagini, qual è il senso percettivo delle cose, ancor più di quello narrativo.
(Voto: ***1/2)
Il secondo corto è Slaughter. Diviso come le tragedie in quattro movimenti, è il vero e proprio squartamento di uno strabordante loop. Il primo movimento mostra le immagini di un irruento corteo di tifosi del Catania. Nel secondo movimento si intromettono alle sequenze ripetute del corteo ritratti eterogenei di alcune impassibili o allucinate marionette. Nel terzo movimento alle due rappresentazioni suddette si aggiungono le scene di un party in piscina in cui gli invitati inseguono e sacrificano un maiale all'insegna di una noia e di una crudeltà totalmente gratuite. Il tutto è una premonizione dell'effettivo squartamento ai danni di un maiale, di cui non vediamo la morte ma di cui sentiamo le strazianti urla (come nel massiano Dell'ammazzare il maiale del 2011). Il messaggio animalista, se di messaggio si vuol parlare, è incanalato da un primo filtro percettivo (lo shock e il malessere dello spettatore) e poi rielaborato dalla mente, che riconsegna un senso invisibile a ciò che la superficie filmica mostra. Il risultato è, più che un messaggio animalista, uno scandaglio dell'elaborazione mentale dei segni visivi, uno squartamento dell'occhio nella direzione di un'auto-interpretazione.
(Voto: ****)
Il terzo corto è Nembutal, il più bello dei tre. CaneCapovolto rielabora due scogniti lungometraggi erotici svedesi girati in Super8 negli anni Settanta come in un allucinato What's Up, Tiger Lily? alleniano, e li rimonta tramite un cut-up burroughsiano che diventa un vero e proprio thriller della filiazione visiva. In un prima parte, una donna racconta delle immagini che vede. In una seconda, vediamo un montaggio narrativamente sconclusionato delle sequenze di questi due film erotici. In una terza, infine, un'altra donna racconta ciò che abbiamo visto. Il risultato è che con questo cut-up si è creata una nuova storia, totalmente anomala, su una compagnia farmaceutica produttrice di Nembutal, un medicinale letale che fu trovato nel cadavere di Marilyn Monroe e che veniva fondamentalmente utilizzato per uccidere equini e bovini. Un trip che è una lezione di montaggio, che in qualche modo distacca in maniera importante l'opera di CaneCapovolto dal primo, superficiale, ispiratore, che è l'ultimo cinema di Godard (che influenza altre opere di alienazione mente-corpo del collettivo siciliano, come Queer (Copiare Beckett)). Una martellante ma soffusa esperienza sensoriale, che non distingue più l'emozione e l'intelleto, il malessere fisico e quello psicologico.
(Voto: ****)
L'intervento, poi, di Alessandro Aiello, è stato uno stimolo in più per la visione di queste opere anomale e suggestive, per le quali si spererebbe una maggiore diffusione.
Domani in programma: Dora Oder Die Sexuellen Neurosen Unserer Eltern di Stina Werenfels; De l'ombre il y a di Nathan Nicholovitch; La belle saison di Catherine Corsini e Batguano di Tavinho Teixeira.
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