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Sempre la stessa storia. Ovvero del marketing e della cultura
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Lo sapete tutti: se chiedete a un bambino “che storia vuoi che ti racconti?” non è che poi lui vi risponda inventandosene una nuova. Vi chiederà di raccontargliene una che sa già, probabilmente quella che gli piace di più e che è anche quella che ha sentito già molte volte.
Spiegare come questo si combini con la storia dell’editoria e poi con quella del cinema è un’acrobazia che passa per una parola magica: la parola “marketing”, l’arte di interrogare non i bambini ma i mercati, di relazionarsi con essi, per capire cosa sia bene produrre e come venderlo.
A mio parere, personalissimo, si tratta di una scienza assolutamente inesatta, checché se ne dica. Probabilmente valida e necessaria quando si tratta di produrre e distribuire beni di consumo, ma possibilmente disastrosa quando si tratta di applicarla all’”industria culturale”. Soprattutto se si pensa - come è facile che sia - di usare gli strumenti del marketing non tanto per “piazzare” un’opera, quanto addirittura per decidere quale opera sia bene produrre.
Ho un po’ di esperienza su questo, Non nel mondo del cinema, ma in quello dell’editoria. La storia dell’editoria italiana è esemplare per raffigurare l’evoluzione dell’industria moderna: non solo di quella culturale. Del resto potremmo anche parlare di auto e non sarebbe differente. All’inizio infatti c’è un imprenditore, che per farcela deve essere in qualche modo illuminato (limitatamente al suo mondo, sia ben chiaro): che si parli di Enzo Ferrari o Giovanni Agnelli anziché Giulio Einaudi o Valentino Bompiani fa poca differenza.
La stirpe dei fondatori - che nel corso attuale dell’industria mondiale nasce più o meno tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 - è quella da cui muove il tutto. Al di là di ogni altro giudizio (politico, ideologico, morale) si tratta di visionari, tipicamente conoscitori o esperti del loro settore, a volte addirittura pionieri o inventori. Sono loro quelli che azionano il volano, che innescano la scintilla e che - in un mondo in trasformazione e in crescita - avviano attività di successo. Se le cose sono andate bene (per ogni Agnelli c’è sempre un Bugatti) alla loro morte, in genere, i fondatori lasciano l’azienda, già solida, ai figli, la seconda generazione: se va bene ce n’è almeno uno che porta avanti l’opera del padre, anche perché in genere la passione è contagiosa. Le cose a quel punto si fanno grandi: entra n gioco il capitale, se non era già entrato. Le banche, gli affari, la crescita: più o meno in Italia chi ha superato la Seconda guerra mondiale arriva al boom e lo cavalca con le seconde generazioni che completano l’opera dei fondatori e la portano a piena maturazione. A questo punto si arriva alla terza generazione: fine dei giochi. Se è sopravvissuta sin qui, a questo punto l’azienda ha misure notevoli e la terza generazione non è cresciuta, come magari la seconda, sporcandosi le mani. Piuttosto è cresciuta nell’agio e, se ha imparato qualcosa e non si persa nella deboscia (succede, succede), non è che sappia come si fanno le macchine o come si scelgono i libri da pubblicare, ma più facilmente come si fanno i soldi. In genere a questo punto gli eredi sono anche molti, la proprietà si divide, magari in fazioni in lotta tra loro. Ecco che arrivano quindi loro: i manager. Dovrebbero far camminare l’azienda, facendo le veci dei proprietari. Ma i manager, generalmente, non hanno studiato “macchine” o “libri”. Hanno studiato economia aziendale e finanza. Se sono capaci si fanno ben consigliare, ma il tema è che nel mondo dei manager si tende a evitare il rischio: quello che implica la responsabilità personale. Si tende quindi a evitare di scegliere rischiando: quella era una prerogativa dei fondatori. Del resto i fondatori avevano uno scenario ben differente: l’azienda era loro, il capitale era loro. Rischiavano, magari sbagliavano, ma dovevano risponderne solo a loro stessi. I manager no: sono stipendiati e magari riccamente premiati, ma se le cose vanno male c’è un consiglio di amministrazione, una proprietà o un’azionariato a cui devono rispondere. Camminano costantemente sulle uova.
Ecco allora la salvezza: il marketing. Il marketing è spesso la stampella dei manager che non hanno fiuto o che non osano decidere. Perché fornisce strumenti d’indagine che sembrano offrire obiettività. Cosa di meglio dei risultati di un bel focus group per sapere se quel certo prodotto può piacere? Cosa di meglio di dati e ricerche ai quali appoggiarsi per poter eventualmente giustificare la propria scelta e dover difendere dei risultati?
Eppure quasi mai le innovazioni nascono dal marketing. Possono nascere prodotti di grande successo commerciale, questo sì. Ma che da lì arrivino le innovazioni è difficile. Più facile che nascano in un garage, magari a Cupertino.
Il motivo di questa incapacità del marketing di inventare è strutturale: non si può inventare qualcosa di nuovo chiedendolo ai mercati. È esattamente come chiedere ai bambini che storia vogliono sentirsi raccontare, Non funziona così: per avviare un nuovo pensiero ci vuole un cambio di paradigma (sì avevo letto anche Kuhn a suo tempo) e il marketing per sua definizione opera all’interno del paradigma esistente. Ci vogliono nuovi pionieri che battano strade alternative per incontrare le innovazioni.
Così nessuno scrittore che volesse scrivere un nuovo romanzo chiederebbe ai suoi lettori cosa scrivere: gliene verrebbe indietro un guazzabuglio di cose che lui stesso o altri hanno scritto prima. In più il marketing è un po’ come la statistica, che funziona bene quando tutto è stabile e avviato, ma perde completamente la bussola quando si tratta di predire davvero il cambiamento, non avendo modelli a disposizione.
E ora con un capitombolo fenomenale, torno da voi. Perché questa storia serve semplicemente a dirvi come mai nelle sale trovate oggi Alice attraverso lo specchio, e avete trovato ieri X-Men 3, e troverete domani film tratti da videogiochi e sequel di sequel, e prequel, e “Alien 6 si fa o no?” e “torna Cameron con ben tre nuovi Avatar” e “avremo Star Wars per i prossimi sei anni, a Natale, di rigore”.
Se Walt Disney, i fratelli Warner, Harry Cohn, Zukor e Lasky, Irving Thalberg e Dino De Laurentiis (per dirne uno dei nostri) fossero ancora al comando, credete che vorrebbero raccontarvi ancora una volta la stessa storia? Non è così, ahimè, non più. Le aziende che loro fondarono oggi si chiamano ancora Disney, Columbia, Paramount… ma alla guida ci sono banche, fondi, finanziarie. E i dati su cui valutano i dirigenti che pongono alla testa delle loro società controllate non sono la loro capacità di innovare. Certo sembra scontato, non lo è mai.

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