Dopo la non esaltante apertura con Café Society, il 69° Festival di Cannes entra nel vivo. Apriranno le danze del concorso due differenti film appartenenti a due cinematografie tra loro molto diverse: da un lato, abbiamo il realismo del rumeno Cristi Puiu con il suo Sierra Nevada; dall'altro lato, il naturismo - spesso sfacciato - di Alain Guiraudie con Staying Vertical. Il regista di La morte del signor Lazarescu torna a parlare di comunismo, scegliendo la via della riunione familiare, mentre l'autore di Lo sconosciuto del lago affonda nel mito e nell'antropologia per riflettere sui dolori della società moderna.
Ma è anche il giorno dei primi due titoli italiani sulla Croisette. Fuori concorso, nella selezione ufficiale, fa la sua comparsa L'ultima spiaggia, il documentario firmato da Davide Del Degan e Thanos Anastopoulos sulla spiaggia di Pedocin a Trieste, mentre la Quinzaine des Réalisateurs ospita l'anteprima mondiale di Fai bei sogni, ultima fatica di Marco Bellocchio che rilegge l'omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini.
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Sierra Nevada
Scritto e diretto da Cristi Puiu, Sierra Nevada racconta la storia di Lary, medico quarantenne che, tre giorni dopo l'attentato contro Charlie Hebdo e quaranta giorni dopo la morte del padre, trascorre un sabato in famiglia, riunitasi in occasione della commemorazione dei defunti. L'evento, tuttavia, non va come previsto: le discussioni sono accese e le opinioni tra i familiari divergono. Costretto ad affrontare le proprie paure e il proprio passato e a riconsiderare il suo posto all'interno del nucleo familiare, Lary sarà costretto a rivelare la sua parte di verità.
Con la direzione della fotografia di Barbu Balasoiu, le scenografie di Cristina Barbu e i costumi di Maria Pitea e Doina Raducut, Sierra Nevada viene così descritto dal regista in occasione della partecipazione del film in concorso al Festival di Cannes 2016: «Sierra Nevada trae vagamente ispirazione da qualcosa occorso nella mia vita. Nel 2007, mentre ero in giuria nella sezione Un certain regard al festival di Cannes, è morto mio padre. Sono rientrato subito a casa e la prima commemorazione, avvenuta poco dopo il funerale, si è rivelata molto strana. C'erano persone che non conoscevo, amici di mio padre e vicini con cui ho avuto qualche discussione. Ricordo anche di aver urlato con una collega di mia madre a proposito della storia del comunismo. La memoria è un elemento fondamentale per la storia del mio film. Con il tempo, ci si rende ad esempio conto già dall'età di 10 anni siamo stati istruiti sulla storia del nostro paese di appartenenza, vedendo le cose in maniera già segnata o decisa da altri. Ciò porta a uno stato di inerzia per cui accettiamo la verità imposta e chiudiamo gli occhi di fronte ad altre possibili spiegazioni: è il prezzo che si deve pagare per divenire parte integrante di una comunità ed evitare l'isolamento. Essere accettati dalla comunità è fondamentale, strutturale. Come le api e le formiche, gli esseri umani vivono in una comunità e, facendone parte, ne accettano ogni sfaccettatura. Quando qualcuno muore, la struttura della comunità viene rimessa in discussione e si genera una lotta di potere, in cui coloro che desiderano prendere il posto del defunto si mostrano con i loro discorsi come se fossero in campagna elettorale. Discorsi che possono evocare anche i principali fatti storici, come accade con il personaggio che in Sierra Nevada parla dell'11 settembre 2001, anche a sproposito (ciò mi ha permesso però di parlare del comunismo e di rivisitarne la storia, cercando di andare al di là delle approssimazioni).
I personaggi di Sierra Nevada hanno scambi di opinioni, discutono, inveiscono. Hanno anche molto interesse per il cibo: il pasto è un rito comune a molte culture e rappresenta uno di quei pochi momenti in cui si crea un falso senso di solidarietà. Si muovono anche all'interno di un unico luogo, un appartamento. Viviamo in un mondo di cui conosciamo il limite e l'appartamento può essere concepito come un mondo a sé, geograficamente limitato: lo spazio della casa non è altro che un riflesso dello specchio del mondo in scala ridotta. Il poco spazio a disposizione mi ha convinto poi a scegliere di usare la cinepresa ad altezza d'uomo. La camera in tal modo è diventata un personaggio invisibile attraverso cui lo spettatore può osservare da vicino i personaggi. Se vogliamo, è lo stesso padre defunto che, silenziosamente, osserva la famiglia: del resto, nella tradizione ortodossa, l'anima dei morti vaga in libertà per quaranta giorni».
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Staying Vertical
Scritto e diretto da Alain Guiradie, Staying Vertical racconta la storia di Léo, film-maker che in caccia del lupo nel vasto altopiano della Lozère incontra la pastorella Marie, con cui pochi mesi dopo ha un bambino. In preda alla depressione post partum e senza alcuna fiducia in Léo che va via e poi ritorna senza preavviso, Marie abbandona sia Léo sia il bambino. Lasciato da solo a prendersi cura del piccolo, Léo tenta di farcela da solo ma nel frattempo, lavorando poco, affonda progressivamente nella miseria. Sarà il degrado sociale che lo riporterà nuovamente verso la Lozére e il lupo.
Con la direzione della fotografia di Claire Mathon, le scenografie di Toma Baqueni e i costumi di Sabrina Violet, François Labarthe e Adelaïde Le gras, Staying Verical viene così raccontato dal regista in occasione della presentazione del film in concorso al Festival di Cannes 2016: «Come nei miei precedenti lavori, si distingue un certo amore per la natura e per l'incarnazione sessuale. La questione sessuale mi affascina tanto quanto mi fa paura: forse è questo l'aspetto che la rende interessante. Il mio approccio parte da molto lontano, da un punto di vista non facilmente rintracciabile e procede per ostacoli superati: dopo avere superato le prime paure, procedo spedito verso le altre... Posso sembrare poco pudico ma non è mai volontario.
Staying Vertical all'inizio sembra un racconto per bambini che si sviluppa pian piano: un vecchio orco, un giovane uomo, il bordo di una foresta e un nobile cavaliere... Per me è sempre stato importante costruire ponti tra la vita di ieri e quella di oggi attraverso la narrazione, la leggenda, il mito. E' importante per me seguire tale direzione così com'è importante per noi guardare alla notte dei tempi per prendere cognizione della grande epopea dell'uomo e dell'universo. Il personaggio di Jean-Louis, ad esempio, è piuttosto mitologico grazie a un corpo e a una testa fuori dal comune ma ci sono anche altri elementi che ricordano l'immaginario del racconto: il borgo di Séverac dominato da un castello, le zone misteriose del Marais Poitevin e, naturalmente, il lupo.
Il registro del racconto in alcune scene sembra trasformarsi in sogno o incubo: le mie opere sono tutte segnate da una certa dialettica tra sogno e realtà. Ciò non mi impedisce però di parlare di alcune delle molte questioni urgenti che interessano la società contemporanea, questioni intorno al genere, alla procreazione, all'utero in affitto, all'eutanasia e al suicidio assistito. Ma Staying Vertical è anche un film per certi versi politico... La questione politica più diretta la si trova nella domanda sul lupo: che si fa con quest'animale che alcuni vogliono proteggere e che altri, come i pastori, vogliono annientare? Il lupo diventa quindi metafora politica ed esistenziale di tutte quelle questioni che dividono e spaccano l'opinione pubblica.
La storia in sé parla poi di uomini e di donne soli, di persone che sono sole anche insieme. E ho voluto anche invertire la classica immagine della famiglia monogenitoriale: in Staying Vertical c'è un padre che cresce un figlio da solo e una donna che è priva di istinto materno».
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L'ultima spiaggia: Intervista ai registi
A Pedocin, come tutti chiamano lo stabilimento balneare Alla Lanterna di Trieste, uomini e donne sono separati da un muro in cemento alto tre metri. In una città dove i confini sono profondamente mutati, dove per andare in Slovenia non occorre nemmeno più mostrare un documento d’identità, dove le barriere (reali o metaforiche che siano) si sono sgretolate col passare degli anni, dove il famoso muro dell’ospedale psichiatrico è stato abbattuto negli anni Settanta grazie alla rivoluzione basagliana, il muro impone una riflessione sui confini e le identità per quella che i registi Thans Anastapoulos e Davide del Degan definiscono "una tragicommedia sulla natura umana".
Conoscevate la spiaggia?
D.D.D.: Ci sono stato spesso quand'ero bambino. Ho avuto il privilegio di frequentare entrambe le spiagge divise dal muro. I bambini al di sotto dei 12 anni possono andare sia in quella delle donne sia in quella degli uomini. Ho sempre sognato di raccontare quanto il luogo fosse bizzarro e unico, sospeso nel tempo e nello spazio.
T.A.: Io invece no. Ma mi ha ricordato la mia infanzia. Mio padre era solito fare il bagno in mare durante l'inverno con i suoi amici. Non c'era alcun muro ma l'idea di un gruppo di persone che si incontrano su una spiaggia, che sia in inverno o in estate, mi fa sentire a casa.
Come avete lavorato insieme?
T.A.: Avevamo entrambi il desiderio di osservare l'umanità che frequenta il Pedocin e abbiamo stabilito regole comuni di lavoro: essere sempre insieme, evitare le interviste e non provocare niente. L'idea di base era quella di trascorrere del tempo in spiaggia ed aspettare che qualcosa accadesse davanti ai nostri occhi.
D.D.D.: Eravamo del tutto d'accordo sulle scelte essenziali e siamo stati incoraggiati dai nostri punti di vista simili ma al tempo stesso differenti.
Secondo voi, cosa rappresenta il muro? È discriminatorio?
T.A.: Per chi come me viene da fuori è incredibile. Capisco la tradizione austro-ungarica ma il fatto che la parete sia ancora lì, resistente, a separare uomini e donne mi fa pensare. Mi fa pensare all'identità, alle frontiere, alle discriminazioni, alle differenze tra i sessi. Quando abbiamo cominciato a girare ho avuto l'impressione che questo muro fosse l'ultimo rimasto in Europa come espressione del folklore locale. Due anni dopo, invece, ci ritroviamo in un'Europa che alza muri e crea frontiere.
D.D.D.: Per la gente di Trieste, la spiaggia di Pedocin con il suo muro non è un luogo di separazione o di solitudine ma è piuttosto un simbolo di libertà assoluta. Il muro preserva e protegge le donne dagli sguardi indiscreti degli uomini.
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Fai bei sogni
Diretto da Marco Bellocchio e sceneggiato dal regista con Valia Santella ed Edoardo Albinati, Fai bei sogni è basato sull'omonimo libro autobiografico di Massimo Gramellini e racconta la storia di Massimo, la cui infanzia è stata segnata dalla misteriosa morte della madre. Nell'apprestarsi a vendere l'appartamento dei genitori, Massimo è tormentato dal traumatico passato e la compassionevole dottoressa Elisa lo aiuta ad aprirsi e a confrontarsi con le ferite risalenti al 1969 quando di fronte alla perdita della madre ha dovuto accettare una brutale verità che lo ha segnato per sempre.
Con la direzione della fotografia di Daniele Ciprì, le scenografie di Marco Dentici, i costumi di Daria Calvelli e le musiche originali di Carlo Crivelli, Fai bei sogni viene così descritto dalle parole dello stesso Bellocchio in occasione della presentazione del film alla Quinzaine des Réalisateurs 2016: «Il film nasce dal romanzo di Marco Gramellini, uno dei più grandi successi editoriali italiani degli ultimi anni per merito delle situazioni e delle emozioni che descrive. Non ho voluto farne un film solo perché il romanzo era un best seller: sono semmai rimasto colpito dai temi del libro, dalle situazioni drammatiche e dal perdere una madre quando si è ancora un bambino. La sofferenza di Massimo, nove anni, è ancora più forte dato che l'amore che condivide con la madre è reciproco, assoluto ed esclusivo.
Il giovane Massimo si ribella contro una tragedia che ritiene ingiusta ma con il tempo prova a sopravvivere all'incomprensibile perdita. L'adattamento a ciò che gli è accaduto presenta però un conto salato: Massimo diventa cupo e ferito a causa della necessità di stare sempre in guardia per sopravvivere. Ciò compromette la sua capacità di amare, lo trasforma in un uomo freddo e rende vuoti i suoi anni di adolescenza e maturità. Circostanze complesse e relazioni casuali non lo aiutano poi a rompere l'armatura di indifferenza che si è costruito.
L'adulto Massimo, giornalista affermato, un giorno si "risveglia" e deve confrontarsi con le radici del suo dolore. Potremmo parlare di "guarigione" ma in maniera più prudente direi che ha inizio concretamente il suo cambiamento.
La storia mi ha colpito profondamente. Tratta temi che ho già sviluppato nei miei precedenti film: famiglia, maternità, paternità, una casa in vari periodi di tempo e i cambiamenti radicali che occorrono in Italia. I cambiamenti del Paese sono letteralmente osservati dalle finestre della sua abitazione.
Roma, Sarajevo e Torino, le tre città presenti in Fai bei sogni, sono viste e vissute da un giornalista affermato. Lavorando per un importante quotidiano nazionale, Massimo è un cronista della realtà, un testimone distaccato. Forse aspira a diventare qualcosa di più che un semplice e compassionevole partecipante agli eventi del mondo».
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