Il mito vive. Il mito del Prometeo moderno che sfidò gli dèi per amore dell’uomo, l’indagine scientifica per vincere la natura e la superstizione, la creatura abbandonata dal creatore, padri, figli, dèi e mostri: il mito creato da Mary Shelley in quella notte di tempesta sul lago di Ginevra nel 1816, retaggio di leggende medievali, furti di cadaveri, assemblaggio degli stessi, esperimenti clandestini in un’epoca di fermento scientifico, homunculus, chimere, golem e quant’altri, ha vissuto più di una vita dopo il suo atto di nascita letterario.
Non solo il muto del 1910 di J. Searle Dawley, Frankenstein, e quello del 1915 firmato da J. W. Smiley, Life Without Soul, e l’italiano Il mostro di Frankenstein (1920), di Eugenio Testa, a ripercorrere a grandi linee la storia partorita dalla Shelley traendo ispirazione più dal soggetto che dal romanzo intero, ma anche il celebre e ancora insuperato horror Universal di James Whale, Frankenstein (1931), seminale iconograficamente e tematicamente, seguito da piccoli gioielli come La moglie di Frankenstein, sempre di Whale (1935), Il figlio di Frankenstein (1939) fino a House of Dracula (1945).
Dopodiché, e dopo la pausa parodica di Gianni e Pinotto in Il cervello di Frankenstein (1948), toccherà alla nascente Hammer e all’estetica pop tipica di quegli anni e del regista di punta della scuderia britannica, Terence Fisher, mettere le mani sul mito shelleyano e rileggerlo alla luce dei mutamenti sociali, ma anche tecnici, occorsi dalle prime apparizioni del mostro. Da La maschera di Frankenstein (1957) a Frankenstein e il mostro dall’inferno (1973), Fisher ha collaborato strettamente con Peter Cushing per dare nuova vita all’icona mostruosa per antonomasia centrando alcuni titoli come La vendetta di Frankenstein (1958) e Distruggete Frankenstein! (1970). Nel mezzo, e per tutti gli anni settanta, uno stuolo di pellicole che cavalcando il successo del genere a quell’epoca, tra alti e bassi, tra titoli più o meno riusciti, hanno saputo giocare sulle variazioni tematiche, apportando nuove interpretazioni e nuovi riferimenti iconologici al mito originario. Film come I Was a Teenage Frankenstein (1958), Frankenstein 70 (1958), il weird western Jesse James Meets the Frankenstein’s Daughter (1966), il crossover Dracula vs Frankenstein (1971), la celebre parodia firmata da Mel Brooks, Young Frankenstein (1974), il cult musical di Jim Sharman, The Rocky Horror Picture Show (1975) e le variazioni italiane sul tema: Lady Frankenstein (1970), Il castello della paura (1973), Frankenstein 80 (1973), Il mostro è in tavola... Barone Frankenstein! (1974) e la parodia di Armando Crispino con Aldo Maccione e Gianrico Tedeschi, Frankenstein all’italiana – Prendimi, straziami che brucio di passione! (1975).
Gli anni ottanta, il primo decennio edonista, ha prodotto, comprese parodie, monster rally e commedie, non pochi film sulla celebre creatura, come Frankenstein Island (1981), Frankenstein 90 (1984), Fracchia contro Dracula (1985), Scuola di mostri (1987) e Frankenstein General Hospital (1988). Gli anni novanta invece, che subiscono un crollo generale del genere horror ripreso in chiave metadiscorsiva con il 1996 di Scream, sono il decennio meno produttivo e meno significante. Se il cormaniano Frankenstein oltre le frontiere del tempo (1990) è una rilettura originale del romanzo della Shelley, il monumentale adattamento di Kenneth Branagh con Robert De Niro come creatura deforme ne fa invece un lungo e irrisolto inseguimento filologico che ha giusto il pregio di portare per la prima volta sullo schermo un tentativo di fedeltà all’opera letteraria originale, di cui resta suggestivo il mai finora menzionato inseguimento tra i ghiacci. Se quindi il Mary Shelley’s Frankenstein di Branagh (1994), è il titolo più riuscito degli ultimi vent’anni, non va dimenticato uno degli ultimi strascichi dell’exploitation horror italiana firmato da Joe D’Amato e con Donald O’Brien nel ruolo di novello mostro riportato in vita da una sua amica per sterminare i teppisti che l’hanno violentata in Frankenstein 2000 – Ritorno dalla morte (1992). Così come non si può non citare Gods and Monsters, di Bill Condon (1998), che racconta gli ultimi giorni di James Whale prima del suicidio, citando la sua celebre creatura cinematografica, gli orrori della guerra mondiale e la sua identità omosessuale.
Il cambio di secolo ha giustamente riportato l’attenzione sul mito shelleyano forte anche delle nuove riflessioni sulla carne, sulla corruzione del tempo e del corpo, le nuove tecnologie e i nuovi parametri di accettazione sociale. L’ossessione per la perfezione estetica di questo nuovo iperedonismo supera il precedente anni ’80 in ingerenze, e interviene pesantemente nella vita sociale, politica ed economica di ogni paese, proponendo nuove ed inquietanti coordinate culturali per interpretare ed immaginare la vita, l’uomo e il mondo tutto. Se si tralascia l’imbarazzante ritorno delle classiche maschere del terrore in quell’aborto cinematografico diretto da Stephen Sommers, Van Helsing (2004), non sono pochi i titoli che hanno rinverdito il mito. Molte di queste pellicole vanno interpretate come tra i migliori tentativi di ricreare un orizzonte tematico di attesa in linea con le nueve sensibilità di fine millennio
Va anche notato come il progressivo spostamento della rappresentazione audiovisuale dal cinema alle serie televisive abbia contribuito a una nuova trattazione del mito, con nuovi codici e nuovi simboli. Dal film per la tv diretto da Marcus Nispel, Frankenstein (2004) al gemello Frankenstein di Kevin Connor (2004), miniserie in due puntate con Donald Sutherland e Vincent Perez. Mentre lo storico nemico dei Frankenstein cinematografici, ovvero l’ispettore Krogh di Lionel Atwill, nato ufficialmente con Il figlio di Frankenstein e ritornato poi con altrinomi i quasi tutti i nuovi adattamenti, viene ripreso anche da Sean Bean in The Frankenstein Chronicles (2015-), serie tv incentrata sulle indagini dell’ispettore Marlott convinto che alcuni orribili delitti nella Londra di fine secolo siano commessi da uno scienziato intento a rianimare i cadaveri.
Su tutti però svetta il Frankenstein di Rory Kinnear in Penny Dreadful (2014-), una rivisitazione della mostruosità creata e poi abbandonata che trova il suo posto d’onore nel circo degli orrori creato perfettamente da John Logan. La sua creatura è colta, dotta, con un animo sensibile e poetico, tant’è che si fa chiamare John Clare, come il poeta. Filosofo ed abile oratore, profondo e arguto, non trova corrispondenza con il mondo umano proiettato verso il capitalismo selvaggio, bensì con gli ultimi e gli emarginati, con cui instaura rapporti di profonda comprensione e compassione. Non da meno il suo creatore, il dottor Frankenstein, interpretato da Harry Treadaway, è arrogante, monomaniaco, necrofilo, insicuro ed impulsivo.
Il cinema invece torna ad interessarsi del mostro prometeico solo nel 2014 con l’inguardabile I, Frankenstein diretto da Stuart Beattie, filmaccio dalla rivisitazione imbarazzante con demoni, angeli e gargoyles volanti tra horror, gotico e fantascienza. Anche il ritorno al lungo di un ottimo regista come Paul McGuigan, Victor Frankenstein (2015) è all’insegna del didascalico, dello sfoggio tecnico e produttivo senza anima e senza autorialità. Si rifà al cinema di Guy Ritchie reimpostando le figure di Sherlock Holmes e Watson su quelle del dottor Frankenstein e del fido Igor. Esplosioni, set suntuosi, recitazione gigionesca e puerile, patinatura incomprensibile, sfoggio inutile di giovani attori belli e cool come Radcliffe, McAvoy, Callum Turner e Freddie Fox che poco ci beccano con il tema centrale e l’ambientazione – ma tutta l’impostazione young adult è francamente fuori luogo.
Paradossalmente diverte molto di più Frankenstein vs The Mummy (2015) che, come B movie d’autore, non bada a svolte narrative improbabili, verbosità, lungaggini, messa in scena, etc., e gioca con l’ibridazione orrorifica di due celebri maschere del terrore ancestrale, centrando in pieno l’obiettivo ludico e postmoderno del film anche grazie a un bellissimo e concreto make-up.
Riesce invece a piazzarsi a un passo dal capolavoro assoluto il bellissimo indie horror diretto da Bernard Rose con Danny Huston e Cary-Ann Moss come “dottori” Frankenstein e Xavier Samuel inaspettatamente credibile nei panni della creatura. Questa intelligente rivisitazione del mito e la sua attualizzazione, la migliore almeno in quarant’anni, convince fin dalle battute iniziali. Poche le flessioni di ritmo e molte invece le idee, le intertestualità, l’apporto non gratuito del linguaggio splatter, con i suoi codici e i suoi simboli. Frankenstein (2015) è ad oggi uno dei migliori film sul mito shelleyano e, tra le attualizzazioni, è con ogni probabilità la pellicola tecnicamente più riuscita e contenutisticamente più originale e sorprendente.
Nel film di Bernard Rose ritroviamo il modello narrativo classico del mito cinematografico addizionato di una nuova e interessante tematizzazione dei topoi e dell’immaginario di base. Il mostro, in origine, non è un’accozzaglia di membra cadaveriche, ma il corpo perfetto, pulito e quasi androgino di un giovane creato artificialmente secondo i canoni di bellezza della società contemporanea. Ed è il contemporaneo il valore aggiunto della pellicola. Il minimalismo virtuoso della produzione indie e il realismo fotografico della messa in scena, sgomberano il campo da ogni retaggio classico o moderno e potenziano il racconto horror con l’intrusione spiazzante delle categorie del contemporaneo. Il cadavere come oggetto di ossessione scopica, di simulacro mortale, torna qui con tutta la sua forza iconografica giocando sul passaggio dalla bellezza fisica della società liquida alla corruzione del corpo, al suo disfacimento.
A guardare il Frankenstein di Bernard Rose vengono in mente gli zombi romeriani degli Anni Zero, ma anche la maschera inquietante del Joker interpretato da Heath Ledger a cui sembra ispirarsi il trucco di Xavier Samuel, per altro entrambi australiani. Da un lato la feroce critica sociale che dalla zombificazione anni ’80 passa a quella Anni Zero puntando il dito più sulla paura per il diverso e il mantenimento delle distanzi sociali – patologie post 11 settembre – che sulla rapacità del consumismo; dall’altra la follia mista ad alienazione modellata in viso con il sangue e il progressivo disfacimento della pelle che deturpano il volto rendendolo maschera e quindi mezzo intertestuale per connettere testi, iconografie e simboli tra loro lontani nel tempo e nello spazio – coinvolgendo, perché no?, anche il Gwynplaine di Conrad Veidt ne L’uomo che ride di Paul Leni (1928). Inoltre, la deambulazione antagonista della creatura ricorda quella alienante e marginale del giovane zombie di Otto; or Up with Dead People, diretto da Bruce LaBruce nel 2008, chiudendo così il cerchio riguardo una pratica alta e coraggiosa dello young adult.
Anche in Bernard Rose la turba sessuale, il desiderio alimentare per il corpo, la sua irrefrenabile corruzione nel tempo, l’impossibilità di concretizzare il desiderio e il sentimento d’amore, vengono rilette alla luce della tradizione orrorifica e del mito shelleyano. Dal medico ucciso in laboratorio alla bambina gettata nel lago, dal rapporto edipico con Madre Frankenstein all’interdizione dell’atto sessuale con la prostituta, tutto ripercorre il canone originario dotandolo di una discussione contemporanea e al tempo stesso cosmica e universale per cui la natura mostruosa dell’essere umano è la sua prima identità e il suo primo atto relazionale. Non a caso, la creatura esemplare creata dai dottori Frankenstein viene chiamata Adam, il nuovo Adamo. Tuttavia, lungo l’arco della vicenda, alla domanda “Qual è il tuo nome?”, la creatura risponde “Mostro” perché è la sua identità, è il suo aspetto, è il suo mezzo di relazione con un mondo di perfezione e sterilità. Il mostro vagabondo e paria è l’incubo della società civile, è lo spauracchio del mondo adulto e consumista, oggi anche inquietantemente social e aziendalista. Solo con la morte, il mostro avrà la forza e la consapevolezza di urlale al cielo il suo nome: Adam.
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