Ho visto il primo film di Stefano Lodovichi casualmente. Mi ispirava la trama e, dopo le prime scene, mi ha conquistato l'atmosfera che questo regista riusciva a trasmettere. Mi sono incuriosita, e non ho smesso di “tenere d'occhio” il lavoro di Lodovichi, fino a quest'anno quando è uscito il suo secondo lungometraggio “In fondo al bosco”. Quando la buona prima impressione mi viene confermata da una seconda, la mia curiosità aumenta a dismisura; e così il mio “tenere d'occhio” è diventato un “voler saperne di più”. Per questo mi sono fatta forte della mia proverbiale faccia tosta e ho conosciuto questo giovane e promettente regista toscano. Il 13 marzo “In fondo al bosco” avrà il suo primo passaggio televisivo su Sky Cinema 1, ma Lodovichi sta già lavorando ad un nuovo progetto e ha voluto condividere con noi qualche notizia al riguardo. Credo che le interviste siano la maniera migliore per conoscere un certo tipo di cinema e ringrazio ancora Stefano per la sua disponibilità e per la sua voglia di raccontarsi in maniera tanto generosa.
(foto di Claudio Dalla Bernardina)
Sei un giovane regista toscano (la mia regione per giunta). Solitamente la Toscana ha una tradizione cinematografica rivolta alla commedia. Tu hai posto l'attenzione su tutt'altro genere. Chi e cosa ha influenzato le tue scelte e i tuoi studi iniziali? La toscana è da sempre terra di commedia. Penso a Monicelli, Virzì, Nuti e altri ancora che hanno raccontato questo paese con una risata, quasi sempre amara. E forse è questa amarezza che mi ha caratterizzato, aiutandomi anche a superare, sicuramente con cinismo, momenti difficili e portandomi a raccontare storie senza venirne schiacciato dal peso. Se è vero che “da noi si ride anche dei morti” è anche vero che abbiamo avuto, e abbiamo ancora, autori impegnati e capaci di muoversi alla grande attraverso il dramma: Zeffirelli, i Taviani o anche l’ultimo Virzì hanno fatto e stanno facendo la storia del nostro cinema in Italia e all’estero. Essere toscano è una fortuna e un peso allo stesso tempo: l’arte che ci avvolge, le bellezze paesaggistiche e un accento ingombrante, amato ma quasi mai preso sul serio, sono l’eredità che ci portiamo dietro. Ho iniziato studiando critica del cinema a Siena e forse questo tipo di approccio mi ha portato a prendermi un po’ troppo sul serio, facendomi allontanare anche però dagli stereotipi comici. Poi, dopo aver conosciuto il set da “schiavo”, ho iniziato a farmi una mia idea di cinema. Il passo dal primo corto al primo film non è stato breve, ci sono voluti quasi dieci anni di lavoro e studio, ma una volta che chiudi “l’opera prima”, il resto si semplifica. E non parlo di facilità nel realizzare i progetti che seguono, ma di visione di un mondo, di un’industria, con regole e dinamiche che inizi a comprendere e ad anticipare.
Nel 2013 firmi regia, sceneggiatura e soggetto del tuo primo lungometraggio: “Aquadro”. Regista e scrittore: in quali di questi ruoli ti senti più a tuo agio? E quali sono state le difficoltà iniziali che hai incontrato in un progetto così coraggioso? Aquadro è nato dalla volontà precisa di rispettare una deadline che mi ero dato. Non sono mai stato un bravo studente e, fin dalle medie, mio padre mi ha sempre detto di farmi una tabella di marcia, un’agenda precisa da rispettare per riuscire ad avere un ordine prima nello studio e poi nella vita. Così, una volta laureato, mi sono dato tre scadenze precise: la prima era di entrare al CSC, poi di realizzare un corto e infine di girare il primo film entro i 30 anni. Al CSC andò male (in realtà mi è andata male ben due volte su due, finendo per essere scartato al termine del periodo propedeutico), così la mia agenda di vita saltò al secondo step, il corto: nel 2011 realizzai “Dueditre”, un piccolo progetto su un padre e un figlio: un nucleo famigliare dove la madre era assente. E poi, poco tempo dopo, ho incontrato Davide Orsini con il quale ho iniziato a scrivere Aquadro. La sceneggiatura del film vinse il premio Mattador e arrivò finalista al Premio Solinas Experimenta. Fu grazie a questi momenti che le cose iniziarono ad andare benino: il Mattador ci diede un premio economico che ci ripagò non soltanto moralmente degli sforzi fatti fino a quel momento (mesi di scrittura, sopralluoghi a Bolzano a nostre spese) e il Solinas ci mise in contatto con chi cinema già lo faceva: è grazie a quel premio che ho avuto modo di conoscere professionisti che adesso sono colleghi o amici. Dopo il Solinas, Rai Cinema ci propose di realizzare il film per un progetto di Web Movies (pochi film ultra low budget pensati per la rete) per giovani registi. E così è nato Aquadro, avevo 29 anni, ed ero in linea con la mia tabella di marcia.
Regista o sceneggiatore? Mi ritengo un regista che si presta alla scrittura. Amo lavorare sull’immaginario delle storie che racconto, creare mondi che vorrei visitare, conoscere, studiare… o evitare (se fossero horror). Mi piace il genere fantastico, di avventura, con azione e rimandi di fantascienza. Sono cresciuto con il cinema di Spielberg, Lucas, Zemeckis, Columbus e tanti altri che sicuramente sto dimenticando, ma allo stesso tempo all’università ho amato alla follia Reitz, il cinema espressionista tedesco, Truffaut e anche i grandi autori della nostra cinematografia. Ma non credo di essere portato per un genere preciso. Anche perché sopporto con difficoltà quei film che si dichiarano aderenti al 100% a un solo genere, quelli che chiamo “mono-genere".
(foto Claudio Dalla Bernardina)
Personalmente il tuo primo film mi è piaciuto molto. L'ho visto per caso (lo ammetto), ma da allora ti tengo d'occhio. Nonostante tu fossi un esordiente, ho notato una tua impronta personale sia per quanto riguarda la storia, sia per lo stile. Ti ispiri a fatti di cronaca recente per scrivere? O cerchi di rimanere “sospeso” tra il personale e l'immaginario? Credo che ogni film racconti una storia che nasce dal quotidiano, personale o comune. Aquadro nacque da un fatto di cronaca italiana, da uno dei primi video porno amatoriali realizzati da una coppia (lei minorenne ai tempi del video), che divenne virale nei primi anni del 2000 e che rovinò la vita della ragazza. Negli anni questi eventi sono divenuti comuni e la volontà mia e di Davide, ai tempi della scrittura, fu quella di raccontare l’umanità che può esserci dietro a eventi come questi e quanto possa essere complesso capire le difficoltà che caratterizzano una generazione come quella di Amanda e Alberto, una generazione di ragazzi “soli”, cresciuti con genitori surrogati (il web con le sue risposte comode, i suoi forum, i suoi tutorial…) e con un’educazione senza riferimenti reali, dove il sesso è quello mutuato dal porno e dove si preferisce nascondersi dietro un avatar piuttosto che confrontarsi con persone reali.
Dopo nemmeno un paio di anni ritorni sul grande schermo con “In fondo al bosco”. In questo secondo film ho ritrovato il tuo stile e un gusto narrativo rivolto al genere horror (che amo profondamente). Pensi che oggi sia possibile riportare al cinema il “giallo all'italiana”? O credi che sia un prodotto più adatto ad un mercato straniero? (che lo apprezza molto di più). Non so dirti cosa succederà. Di sicuro ci troviamo di fronte a una primavera del cinema italiano. Sorrentino, Rosi, Garrone, il solito meraviglioso Moretti, Tornatore, Sollima in particolare con Gomorra in tv, e molti altri ancora, hanno fatto sì che il cinema italiano sia tornato a grandi livelli anche a livello internazionale. Anche grazie a loro adesso c’è più possibilità di spaziare generi differenti, che si tratti di documentario o cinema di finzione. E questo è il compito che la mia generazione di autori e registi deve fare. Continuare a osare, raccontando storie e pensando anche che facciamo film per il pubblico e non per noi stessi.
C’è un esempio recente che riguarda il genere: Gabriele Mainetti, con il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, è riuscito in qualcosa di strepitoso, portando in sala con un ottimo risultato anche in termini di incassi un film action con un supereroe dal cuore italiano. Mainetti, che in questo caso è anche produttore, dovrebbe farci riflettere perché se un regista ha una visione precisa, allora questa va assecondata (a meno che non si sfori nella follia), e non castrata o sporcata dalla visione di altri. Perché è soltanto quella visione, il punto di vista di quel regista, che può rendere il film un bel film.In Fondo al Bosco è un thriller dalle componenti mistery e horror evidenti. Ma è anche un dramma famigliare. Questo è quello che intendevo prima con la volontà di non incasellarsi in un genere preciso. Da spettatore diffido sempre di quei film che mi vengono proposti, venduti il sabato sera, come mono-genere. Mediamente non mi interessano
(foto Stefano Lodovichi)
Levami una curiosità. Vedendo “In fondo al bosco” ho avuto l'impressione che fosse nato inizialmente come un progetto più ampio, quasi come se potesse essere una serie televisiva alla “Twin Peaks” (per intenderci). La leggenda iniziale, i tanti personaggi, i flashback, sembrano soffrire nei “pochi” minuti riservati al film, mentre avrebbero avuto una soluzione più soddisfacente in una “serie”. E' stata solo una mia impressione?Ho scritto In Fondo al Bosco con Isabella Aguilar e Davide Orsini in un periodo nel quale stavamo lavorando a differenti suggestioni seriali. E sì, anche questo film inizialmente era stato pensato come una serie, nello specifico una miniserie sullo stile di Twin Peaks. Alla fine abbiamo lasciato nel film alcuni semini, o spunti validi per eventuali riadattamenti. Non si sa mai....
L'inizio de “In fondo al bosco” è molto suggestivo: il bambino che sparisce durante una festa paesana. Sono rimasta con un dubbio: esiste davvero in qualche località la festa con i diavoli “Krampus”? A quale festa di paese ti sei ispirato?La festa dei Krampus è una ricorrenza reale che si celebra la notte di San Niccolò, il 5 di dicembre, nell’ arco alpino (Trentino Alto Adige, alto Veneto, Austria…). Alcune delle immagini che si vedono nel film sono state realmente girate durante alcune di quelle feste.
Penso sempre che sia molto difficile lavorare con i bambini, soprattutto su una storia macabra come quella di “In fondo al bosco”. Hai avuto difficoltà a gestire il tutto?Lavorare con i bambini è sempre complicato. Nel nostro caso ne avevamo due, Alessandro di quattro anni e Teo di dieci. Con Alessandro è stato difficile perché un bambino a quattro anni non recita. Ma grazie anche ai miei assistenti è stato possibile confrontarsi con lui come se vivessimo sempre in un gioco e, alla fine, il piccolo Alessandro è stato meraviglioso. Per Teo il discorso era diverso: serviva attenzione, delicatezza e una profonda inquietudine. Durante il casting non cerchi mai soltanto la “bravura”, la professionalità, o il volto giusto, ma è lo sguardo e quello che ti porti dentro che ti rende vincente o meno. Teo aveva tutto quello che serviva per interpretare Tommi da grande (inquietudine, diffidenza, dolcezza) e così, non appena l’ho visto, ho capito che era lui quello giusto.
(foto Claudio Dalla Bernardina)
La televisione è satura di trasmissioni che in qualche modo forzano l'attenzione su fatti di cronaca che forse meriterebbero più rispetto. Il tuo film, in qualche modo, è una critica di un certo modo di fare televisione?Il personaggio di Manuel è vittima della gogna mediatica, resta per tutti il “diavolo” di Croce di Fassa anche se viene scagionato dopo tre giorni dalle prime accuse. Ma sbattere il mostro in prima pagina è sempre stato uno degli sport preferiti di un certo tipo di media e, personalmente, trovo questa tipologia di fare informazione o intrattenimento, spazzatura. Ma è indicativa della nostra società e in quanto tale va studiata.
Sul secondo film che hai fatto mi hai confermato un mio primo giudizio positivo, ora aspetto il terzo. So che stai lavorando su un bel progetto che riguarda una mummia...Sì, sto lavorando sempre con la Onemore Pictures di Manuela Cacciamani, a un progetto di family fantasy in inglese. È la storia di un bambino che, un po’ come nell’apprendista stregone, imparerà a padroneggiare dei poteri molto speciali grazie a un mentore, Ötzi, una mummia (realmente esistente e di fama mondiale) che si risveglia da un sonno durato migliaia di anni. È un bel progetto, divertente ed emozionante nel quale anche Rai Cinema sta credendo molto.
(foto Stefano Lodovichi)
Collabori ancora con Davide Orsini per questo nuovo progetto? Sì, la sceneggiatura di questo film è scritta da Carlo Longo e da Davide Orsini.
Nonostante ci sia una mummia come protagonista so che il film non sarà un vero horror (ahimè), potrò sperare un giorno che la tua attenzione si volga esclusivamente su questo genere? Mi spiace per te ma il film è il tipico fantasy per famiglie che abbiamo imparato ad amare da piccoli con i Goonies e che poi, negli anni, è divenuto altro (penso ai primi Harry Potter, ai film di animazione della Pixar o della Dreamworks ecc). Insomma, zero horror. Ma chissà che un giorno non ne faccia uno… magari con una bella love story, giusto per renderlo meno “mono-genere”. Nel dubbio, stasera mi guardo l’ultima di The Walking Dead.
(foto Claudio Dalla Bernardina)
Ringrazio ancora Stefano, per me è sempre "magico" arrivare così vicino al cinema ed avere la possibilità di conoscerlo non solo attraverso il grande schermo.
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