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Il Cinema Statuto, un film maledetto ed altre coincidenze
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Alcune tragedie, per compiersi, hanno bisogno di circostanze e condizioni, tanto più devastanti nell'incontrarsi, quanto più apparentemente lontane se considerate nella loro singolarità. Il filo rosso che unisce una città (Torino), un film di successo (La capra), un simbolo controverso (ancora la capra), un giorno di festa (la domenica di Carnevale del 1983) è il Cinema Statuto del capoluogo piemontese e la deflagrazione di questi strani e contraddittori elementi portò, appunto, ad una tragedia impensabile.

 

Il cinema è un luogo di e da sogni, comunque lo si interpreti: quale fabbrica di eroi e miti, piacevole canto ed esposizione di vite altre, ovvero quale spazio fisico entro cui riversare ed incanalare la volontà di viaggiare oltre, la capacità di perdere per un tempo limitato i propri stantii riferimenti esistenziali, il piacere della condivisione.

Il buio in sala come antro in cui smarrirsi senza timore, nell’attesa di un’uscita dalla caverna che è, sempre, anche immediato rimpianto per l’alterità appena assaporata, le poltroncine scomode e poco ergonomiche molto simili alle cavità di un’astronave capace di viaggi nel tempo diluiti in un lunghissimo tempo interiore. La maschera con la sua torcia da supereroe precario, il vicino con catarro fastidioso, quello che ti sta davanti sempre troppo alto. I lunghissimi trailer pubblicitari pre-visione, qualche patatina rancida da multisala questo sconosciuto, file ordinate e pienone, tanto che puoi sentire il respiro degli altri, prima che la musica ti inondi il cervello e ti entri nello stomaco ancora pieno, obnubilando il resto, e tutto.

Questo era il Cinema Statuto di Torino, il pomeriggio di domenica 13 febbraio 1983, festa di Carnevale. In quel cinema il tempo si fermò, per 64 persone (ma in realtà per tutti gli altri, per ogni presente); ma il film non ebbe modo di esplicare i suoi effetti benefici, il cinema per una volta fu tutt’altro che terapeutico. In quel cinema, quel tardo pomeriggio, il film non terminò, rimase un oggetto misterioso, sospeso in una frase, appeso ad un primo piano o campo lungo, bruciato in un soffio, un cortometraggio esile come le povere vite di chi stava a guardarlo.

 

 

Analizzando un dramma, sarà sempre possibile inventarsi elementi di suggestione. Magari irreali, forzati, presi quali simboli inesistenti di un senso che si fatica a trovare. Quel giorno, però, in quel cinema, sembrò a tutti che il destino si fosse fatto vanto della sua forza ironica e dissacrante, conferendo ad un film, una semplice pellicola pensata e costruita per distrarre e divertire, una patente di maledettismo che, agli esegeti più inventivi o paranoici, pareva insita già in un titolo ambiguo, oltre che in una trama la quale portava in primo piano (certo silenziandola, esorcizzandola, ridendo di essa e con essa) la sfortuna.

 

Intanto Torino. Torino e la sua raffinatezza altera e un po’ snob, la Mole e la maestosità di piazze eleganti, Torino e i suoi spazi a perdita d’occhio, Torino e la consapevolezza di un fascino travalicante ogni confine. Ma anche la Torino esoterica, l’incastro laocoontico tra la Sacra Sindone e Cagliostro, e Nostradamus, Torino che leggenda vuole fondata da Fetonte, figlio di Iside, dea maga, Torino e il toro (il dio Api per gli egizi). Torino e i riti nascosti, che percorrono parallelamente la città e la sua operosità sabauda, e un po’ le conferiscono un’ombra di misterioso fascino indicibile.

Torino e i simboli e, tra questi simboli, la capra. Animale che, secondo vecchie petizioni di principio, cascame di un cattolicesimo dall’integralismo anacronistico eppure senza tempo, incarna i mali ed il fetore del libertinaggio, altra faccia di Satana, con la sua barba ed il suo aspetto sulfureo, con quel ruminare assorto e continuo, preda di un autismo di vita brada che sembra negare ogni luce. Il Baphomet: la testa di capra. Basta guardarla, in qualsiasi raffigurazione iconografica dei simboli dell’occultismo, per provare un brivido, per cedere, in un attimo in cui le difese razionali allargano le maglie, all’horror vacui.

 

 

E poi il Carnevale. Il mascheramento come tentativo di dare lucentezza ai giorni, la capacità di sentirsi per pochi giorni ebbri di colori, pazzi di una pazzia che ci si autoimpone. Quando si è stati bambini (e dopo esserlo stati), e si è giocato all’altro da sé, si sa che questa è una festa triste: il superamento una tantum di desolanti favelas interiori, la volontà frustrata di fermare il tempo alle boccacce , alle lingue srotolate, agli odori di fialette e frittelle. Non deve essere un caso se, dopo il Carnevale, arriva la quaresima. Ed è come se gli stenti, ed un sottile senso di inadeguatezza, non se ne fossero mai andati.

 

Il film, infine, il film che non vide mai la luce in sala. Che si fermò e divenne eterno, lì, allo Statuto. La capra, regia di Francis Veber, con Gerard Depardieu, e Pierre Richard. I personaggi, si diceva, sono colti da ogni tipo di sfortuna, la attirano a sé, ci flirtano e spesso vi si abbandonano. In realtà nel film non si vede alcun animale riferito al titolo; ma in lingua originale, la chevre indica qualcosa che è ben possibile tradurre come sfiga. Una commediola senza evidenti pretese autoriali, senza talenti particolari (se non il simpatico ed espressivo volto di Depardieu, in uno dei frequenti tour alimentari), che divenne suo malgrado l’incarnazione di una contrarietà all’ordine delle cose e di più: il talismano nero polla di tragedie. Alcune fonti riferiscono che due anni prima, in piena emergenza terremoto dell’Irpinia, un falso allarme sisma provocò una folle calca,in un cinema partenopeo ove era in programmazione La capra, in conseguenza della quale vi furono due vittime. Un’opera minore che sarebbe passata del tutto inosservata, ma la storia si incarica di frequente di donare vita eterna anche al male ed ai suoi inconsapevoli tedofori.

 

 

Non c’è ancora stata vera giustizia per le vittime dello Statuto. Una ferita sempre aperta, un nervo scoperto, un ricordo che si cerca di rimuovere. Le misure di sicurezza nei cinema sono aumentate dopo quel 13 febbraio 1983; per cui può affermarsi, pur con dolore, che l’episodio ha costituito uno spartiacque importante nella considerazione degli spettatori e della loro designazione non quali meri fruitori di un prodotto esposti alle altrui negligenze, agli altrui interessi.

Torino, la capra, il Carnevale: le cose possono incastrarsi in modi che, a posteriori, ti sembrano sin troppo intellegibili. E’ questo il bello (nella fattispecie il tragico) delle coincidenze.

 

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