È strano ma se da ragazzino mi avessero chiesto chi era il mio regista preferito avrei risposto John Sturges. Prima ancora di imparare a conoscere e ad apprezzare i grandi autori, era suo il nome che compariva alla fine dei titoli di testa di tanti miei cult di giovane appassionato di western, da Sfida all’O.K. Corral a I magnifici sette, da La grande fuga a Sfida nella città morta, da Giorno maledetto a Il vecchio e il mare.
Eppure quel nome resta tuttora relegato tra i registi di seconda fila, quelli ai quali non è mai stata dedicata una storiografia né un’analisi ragionata della filmografia. Perché in fondo la critica ha sempre considerato John Sturges con il termine un po’ sprezzante di “artigiano”. Un professionista di solido mestiere che non si sarebbe mai saputo distinguere apportando una cifra stilistica personale alle sue opere. A Sturges, però, questo termine non dava fastidio più di tanto. Perché era davvero convinto che la macchina da presa dovesse essere sempre un passo indietro rispetto alla storia ed ai personaggi. Ai movimenti virtuosistici della camera, Sturges preferiva infatti la staticità e la contemplazione: inquadrature fisse ed asfissianti nelle riprese in interni, profondità di campo e funzionale uso degli spazi nelle sequenze in esterni, delle quali era un vero maestro. Inoltre ha mostrato un talento notevole nell’uso del formato “widescreen” e nel sistema di riprese in CinemaScope, basato su lenti anamorfiche e molto utilizzato nelle grandi produzioni tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Lo scopo principale, potremmo dire anche “nobile” del suo cinema, è quello semplice e sacrosanto di intrattenere il pubblico, privilegiando così un approccio spettacolare e naturalistico. Del resto, Sturges prima di passare alla regia aveva cominciato la sua carriera prima come assistente al montaggio e poi come montatore: da qui la sua straordinaria abilità nel restituire il senso ritmico dell’azione, nel quale le sequenze si susseguono serrate e tesissime, utilizzando al meglio anche la colonna sonora come collante tra le scene. Basta dare uno sguardo anche soltanto una volta a film come I magnifici sette, La grande fuga o Giorno maledetto, esempi immortali di un cinema d’azione nel quale la costruzione delle sequenze si sposa alla perfezione con la psicologia dei personaggi.
Ma l’importanza del cinema di John Sturges risiede soprattutto in quel territorio posto quasi come un ponte tra il cinema classico e quello moderno. Negli anni Cinquanta e Sessanta fu infatti uno di quegli autori che seppero rinnovare gli stilemi classici del cinema di genere e trasportarli verso un nuovo senso “etico”, per intenderci quello “revisionistico” alla Sam Peckinpah: coniugando così il rispetto dell’epica con il senso di smarrimento e la perdita dei punti di riferimento morali. Perché i suoi film raccontano storie sul coraggio e sulla “essenziale decenza dell’uomo”, ponendo come punto fermo proprio un ostinato umanesimo di fondo.
A disagio con generi quali il melodramma o la commedia, Sturges si definiva orgogliosamente un “westerner”. In una intervista con Peter Bogdanovich, affermava: “I caratteri ed i personaggi western non devono avere glamour. Il mondo del western non deve essere grazioso e gli uomini non devono essere ragazzi del coro, per Dio! Utilizza sempre un sacco di retroilluminazione e non lasciare che il protagonista parli troppo. John Ford ha fatto di John Wayne una star senza farlo parlare. Ma il must assoluto per un western è l’isolamento. L’uomo deve essere Dio e le tematiche devono essere puntellate da spari di pistola.”
Sturges è stato anche un attento direttore di interpreti, lavorando con grandi attori del calibro di Spencer Tracy, Burt Lancaster, Kirk Douglas, Richard Widmark, Barbara Stanwyck, Yul Brynner, nonché grande scopritore di giovani talenti: basta pensare a Steve McQueen, James Coburn, Charles Bronson e tanti altri, praticamente tenuti a battesimo e avviati alla celebrità proprio attraverso i suoi film. John otteneva il meglio dai suoi interpreti con i quali stabiliva un rapporto particolare, convinto che “a un grande attore non hai mai bisogno di spiegare una scena”.
Sturges sosteneva che per creare una storia basta affidarsi ai personaggi: “Mettere insieme due elementi di un personaggio ti dà già una storia. E si muove. È viva e puoi identificarla. Deve andare per forza da qualche parte”.
Il regista Paul Thomas Anderson ha dichiarato una volta che ha imparato tutto quello che sa sulla regia ascoltando il commento di Sturges sul film Giorno maledetto, probabilmente il suo capolavoro.
“Molte persone mi hanno chiesto quale sia la tecnica di ripresa perfetta, cioè le angolazioni da usare, perché li usi, lo stile e il movimento della macchina da presa. Una risposta è che dipende dal tipo di film che stai facendo. Se stai raccontando una storia ed è raccontata in un appartamento di New York, non ha molto senso cercare di vedere come puoi riprendere fantasiosamente le angolazioni del film. Se stai facendo invece un film come questo, "Giorno maledetto", c’è una grande possibilità di utilizzare quelle che io chiamo “angolazioni efficaci”, in modo che tutto quello che guardi abbia interesse. La tecnica di ripresa perfetta è quella che il pubblico non sa nemmeno che esiste”.
Ecco due interessanti estratti dal commento di Sturges al quale fa riferimento Anderson, tratto dal dvd originale di Giorno maledetto (1955).
- FILMOGRAFIA ESSENZIALE
L'ASSEDIO DELLE SETTE FRECCE (1953)
Il primo western diretto da Sturges è un piccolo cult del genere e dimostra già la familiarità del regista per le storie di frontiera. Ottimo uso della fotografia, regia essenziale e una storia che fila liscio. Un western quasi di stampo fordiano, nel quale due ufficiali (il nordista William Holden e il sudista John Forsythe) si combattono anche per l’amore di una donna (Eleanor Parker). Grande finale, con un pugno di soldati di entrambi gli schieramenti che si ritrovano nella gola di un canyon, assediati da indiani perfettamente organizzati.
GIORNO MALEDETTO (1955)
Black Rock è un piccolo paesino sperduto nel bel mezzo del deserto, con una decina di case in tutto e pochi abitanti. Un bel giorno, per la prima volta dopo quattro anni, il treno si ferma e ne scende un uomo anziano e con il braccio sinistro menomato. L’uomo comincia a fare strane domande: chiede di un posto chiamato “la steppaia”, ma nessuno vuole rispondergli. Anzi, i bulli della zona cominciano a provocarlo cercando una reazione da lui che non arriva mai. Il vecchio non fa una piega, si trattiene e non risponde alle provocazioni, finchè lentamente fa una terribile scoperta. Attraverso le regole serrate del film di genere (il noir, il western, il thriller), Giorno maledetto è un crudele ritratto dell’America di provincia del dopoguerra ma soprattutto contiene un apologo chiaro e potente contro il razzismo e contro la paura del “diverso”, tema coraggiosissimo soprattutto se affrontato in pieno Maccartismo. E a sostenere il discorso morale, una macchina narrativa perfetta, tesissima dal primo all’ultimo minuto. Inoltre, uno dei migliori esempi di come possa essere utilizzato il CinemaScope in modo funzionale ed intelligente. E, se non bastasse, c’è un cast impressionante: la sfida è tra uno straordinario Spencer Tracy e un perfido Robert Ryan, ma anche i comprimari sono indimenticabili (Walter Brennan, Lee Marvin, Ernest Borgnine, Dean Jagger). Insomma, molto probabilmente il capolavoro assoluto di John Sturges, il suo primo grande successo ed uno dei pochi ad ottenere un riconoscimento dall’Academy (tre nomination agli Oscar, tra le quali quella per il miglior regista, l’unica nella sua carriera).
“È strano come ci si attacca alla terra quando si sente che scappa sotto i piedi!”
LA FRUSTATA (1956)
Western introspettivo e psicologico, poco considerato anche dai fan del genere ma piuttosto interessante. La sceneggiatura di Borden Chase, che aveva già firmato i copioni dei western adulti di Mann, Hawks e Aldrich, punta sugli aspetti “morali” e sul rapporto tra padri e figli. Sturges predilige l’azione ed i grandi spazi. Il protagonista è un ottimo Richard Widmark, nel ruolo di un uomo alla ricerca di un bottino, frutto di una rapina alla quale aveva partecipato anche il patrigno, dato per morto durante il furto. L’incontro con una bella avventuriera (Donna Reed), anche lei alla ricerca del denaro, lo porta a fare una scoperta che egli stesso temeva.
SFIDA ALL'O.K. CORRAL (1957)
“Volete un aiuto?” “Voi? No grazie!” “So tirare molto bene… è un peccato che le persone più qualificate per testimoniarlo non possano più parlare”. “Alzate la mano destra. Dite: giuro solennemente… No, è ridicolo. Vi nomino mio aiutante, vado a sellare i cavalli. “Un momento, non dovrei avere una stella di latta?” “Vorrei vedere anche questa…”
Superclassico del western, Sfida all’O.K. Corral è il film che più di tutti ha immortalato il leggendario scontro tra gli Earp e i Clanton presso l’O.K. Corral. Sturges si conferma solido professionista dirigendo un film robusto, aiutato da una bellissima fotografia in Technicolor e da un cast sontuoso. Sono soprattutto Burt Lancaster e Kirk Douglas a dominare il film con i loro ritratti epici: il primo tratteggia l’umanità del suo sceriffo, uomo combattuto tra un desiderio di pace e di tranquillità ed un istinto da uomo d’azione e vendicatore; il secondo è un Doc Holliday memorabile, disilluso e per niente attaccato alla vita, ma eterno simbolo di amicizia virile (“Se devo morire, che crepi per il solo amico che ho mai avuto”). E poco importa se lo scontro reale durò pochi secondi e non dieci minuti come viene fatto vedere nel film: ancora oggi per tutti la vera sfida all’O.K. Corral è quella rappresentata da Sturges.
SFIDA NELLA CITTA' MORTA (1958)
“Perché non li hai lasciati impiccarmi, Jake?” “Sarebbe lungo spiegartelo, non c’è tempo Clint.” “Era meglio per te se mi lasciavi perdere però!”
Jake Wade (Robert Taylor), ex bandito divenuto sceriffo, ha un ultimo debito da saldare con il vecchio compare Clint (Richard Widmark) che una volta gli salvò la vita. Così lo libera dal carcere nel quale attende di essere impiccato, pensando che con questo gesto si libererà per sempre di lui e dei rimorsi. Clint, però, vuole a tutti i costi recuperare il bottino sepolto da Jake dopo la rapina: lo sequestra insieme alla fidanzata e lo porta nella “città morta” del titolo, una località fantasma dove avverrà la resa dei conti finale. Western molto sottovalutato, un vero e proprio cult per chi scrive. Fotografia spettacolare, regia attenta e contemplativa ed una buona sceneggiatura che analizza i conflitti psicologici tra i personaggi. Ma soprattutto un Richard Widmark magnifico, che delinea un cattivo per il quale, prima o poi, finiamo per fare il tifo.
"Tu cosa avresti fatto?" “Credo che ti avrei dato una pistola” “D’accordo. Eccotela”. “Io te l’avrei data in mano” “Ma tu per me hai un debole che io non ho per te”.
IL VECCHIO E IL MARE (1958)
La trasposizione cinematografica del capolavoro di Ernest Hemingway era impresa difficile da realizzare. John Sturges si affida ad una fotografia maestosa e ad un grandissimo Spencer Tracy nel ruolo principale. La storia dell’anziano pescatore che riesce a catturare finalmente un enorme pesce spada, divorato però durante il viaggio di ritorno dagli squali, privilegia l’aspetto spettacolare ma si apre anche ai contenuti morali e filosofici dell’opera di Hemingway. Ne esce un film imperfetto ma comunque un’ottima analisi dello scontro tra Uomo e Natura. Tracy restituisce tutta la dignità del suo personaggio, i sogni, i ricordi e le speranze, oltre alla consapevolezza di una forza ritrovata.
“L’uomo non è fatto per la sconfitta. L’uomo può essere distrutto ma non sconfitto”.
IL GIORNO DELLA VENDETTA (1959)
Lo sceriffo Pat Morgan (Kirk Douglas) è alla ricerca dei due uomini che gli hanno violentato e ucciso la moglie indiana. Scopre che uno dei due è il figlio di un suo vecchio amico, l’allevatore Craig Belden (Anthony Quinn) che spadroneggia nella cittadina di Gun Hill. Pat riesce a sequestrare il figlio di Craig e si asserraglia in un albergo aspettando l’ultimo treno che da Gun Hill lo porterà nella sua città. “Come la aggiustiamo, Pat?”, gli chiede Craig. “È una faccenda che non si aggiusta”, risponde Pat. Il duello tra i due è inevitabile. Diretto da Sturges due anni dopo Sfida all’O.K. Corral, con il quale ha in comune la produzione, l’interprete principale e il direttore della fotografia (Charles Lang), Il giorno della vendetta è un western che non spicca certo per originalità. La trama si intreccia con rimandi da Mezzogiorno di fuoco e Quel treno per Yuma, ma Sturges e lo sceneggiatore puntano sulla tensione psicologica e morale, sui rapporti padre-figlio e su un’etica del West che ormai comincia a lasciare il posto alla sconfitta ed all’amarezza.
I MAGNIFICI SETTE (1960)
“Noi vendiamo piombo, amico!”
Sette pistoleri vengono ingaggiati per difendere un villaggio di contadini messicani da un bandito prepotente e dai suoi uomini. La paga è bassissima, la ricompensa è l’onore e l'immortalità. John Sturges produce (per la prima volta) e dirige un film entrato di diritto nel mito. L'idea è quella di trasportare il capolavoro di Akira Kurosawa I sette samurai dal Giappone feudale al vecchio West, lasciando inalterata la storia e lo sviluppo dei personaggi. Alla fine, sono loro che contano più di tutti. E, con loro, un pugno di attori giovani ed emergenti destinati alla celebrità (Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn, Robert Vaughn, Horst Bucholtz) affiancati dall'unico divo Yul Brynner. I magnifici sette è un successo incredibile oltre che opera di importanza epocale per il cinema americano, soprattutto perchè fa da ponte tra il western classico e quello revisionista degli anni Sessanta e Settanta. L'epica c'è ancora ed è più forte che mai, ma accanto ad essa cominciano a manifestarsi lo sguardo disincantato sul mito della frontiera, la perdita delle coordinate morali ed un nichilismo che porta all'accettazione della morte quale unico biglietto per entrare nella leggenda.
LA GRANDE FUGA (1963)
Durante la Seconda Guerra Mondiale, un gruppo di prigionieri alleati esperti in tentativi di fuga dai campi di concentramento sono internati in un nuovo campo di massima sicurezza, per poter essere controllati meglio. I prigionieri organizzano una spettacolare fuga di massa, scavando pazientemente tre tunnel nei sottosuoli del campo, con l'obiettivo di distrarre le truppe tedesche e "logorare l'esercito nazista dall'interno". Lo scopo è far evadere ben 250 persone: ci riescono in 76, ma in pochi riescono a salvarsi.Tre anni dopo il successo de I magnifici sette, Sturges ne replica lo schema affidandosi ad un gruppo di attori tra i più ricercati, alcuni dei quali (McQueen, Bronson, Coburn) provenienti dal film precedente. Il successo è ugualmente straordinario: un film che mischia l'avventura con il genere "bellico", i toni umoristici e scanzonati con quelli drammatici. Grazie ad un montaggio serratissimo (Ferris Webster), Sturges mantiene una tensione incredibile per quasi tre ore, senza permettere mai allo spettatore di tirare il fiato. Steve McQueen entra nel mito mentre, a bordo di una Triumph TR6 Trophy, cerca di scappare scavalcando un reticolato. E quando, nel finale, continua a far rimbalzare una palla da baseball all'interno di una cella piccola e angusta. Epocale.
L'ORA DELLE PISTOLE - VENDETTA ALL'O.K. CORRAL (1967)
Dieci anni dopo Sfida all'O.K. Corral, Sturges decide di realizzare un sequel che sia quanto più lontano dalla leggenda e dall'epica, concentrandosi sulla realtà disincantata e pessimista degli eventi. La sparatoria iniziale è liquidata in pochi minuti (come avvenne realmente) ed è seguita da una storia di vendetta secca e violenta, con un ritmo lento ed una "complessità di dettagli da verbale di polizia" (Morandini). Gli interpreti cambiano: James Garner prende il posto di Lancaster e disegna un Wyatt Earp cupo e vendicativo; Jason Robards è un Doc Holliday triste e malinconico; Robert Ryan è il perfido Ike Clanton. Film incredibilmente sottovalutato, assolutamente da riscoprire.
LA NOTTE DELL'AQUILA (1976)
1943. Dopo la liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, Hitler si convince che una operazione del genere può essere ripetuta per catturare il primo ministro inglese Churchill. L'ultimo film realizzato da Sturges prima di auto-ritirarsi dal cinema, prende la basi da una storia totalmente inventata. Eppure il canto del cigno del regista è un film svelto e pieno di tensione, caratterizzato soprattutto dal ritratto di uomini usati come pedine "sacrificabili" all'interno di un gioco assurdo quale è la guerra. Grande cast (Michael Caine, Donald Sutherland e Robert Duvall su tutti) e grandissimo senso dell'azione.
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