Una media ponderata dei giudizi che conferisco a 41 su 42 dei lungometraggi candidati all’Oscar in quest’anno 2016 (manca solo El Abrazo de la Serpiente di Ciro Guerra, tuttora introvabile) pesata nel numero di candidature che ogni film ha ricevuto, è del valore di circa 3,05/5. Un giudizio medio, freddo, quello che ci si aspetta dagli Academy Awards, ma che non ci si aspetterebbe considerando che si tratta di un premio ancora ritenuto importante e in grado di riunire sotto di sé l’attenzione dell’intero mondo cinematografico. È un po’ moda, ora come ora, accusare gli Academy di premiare film immeritevoli. Purtroppo il più delle volte è anche una verità. Però risulta gradevole vivere questa occasione come una sorta di gigantesco gioco di società, in cui per completezza è bene comparire almeno per conoscere i titoli coinvolti e quali potrebbero aggiudicarsi questo premio che di fatto vuol dire molto poco, ma che concentra volenti o nolenti subito l’attenzione sul film cui è stato consegnato. È anche vero poi che la media pesata è fatta sulle varie candidature, ma che molte di queste, com’è noto, sono tecniche, e poco hanno a che vedere con la qualità intrinseca del film, in senso artistico, specie di film spesso didattici e poco coraggiosi quali sono quelli che premia l’Academy. Pur non essendo particolarmente esperto, il sottoscritto, di aspetti quali il sonoro e il montaggio sonoro (se non per ciò che immanentemente posso esperire nel vivere il film), o di altri tipi di premi tecnici, ho deciso che affiderò comunque anche in questi settori un mio personalissimo premio Oscar, così come negli altri settori, per ciò che concerne il legame fra la qualità globale dell’opera e quel particolare aspetto più o meno secondario, cioè a dire per esempio dei costumi premierò l’opera che ha come ragion d’essere l’utilizzo di quei dati costumi e li sfrutta al meglio, piuttosto che un film in cui i costumi magari sono eccezionali, ma non sono certo il motivo per cui quel dato film non lo scorderò. Dopo questa lunga premessa, che in qualche modo incasella i parametri di giudizio, procediamo con i premi che personalmente darei ai film candidati, affiancati da un pronostico che non sarà necessariamente coincidente con il premio da me conferito. Partiamo dunque dai premi secondari.
MIGLIOR FILM DOCUMENTARIO
Così come nel caso del miglior film straniero, non è in realtà un premio secondario, in quanto il genere documentaristico è ancora in grado nel Cinema contemporaneo di offrire veri e propri capolavori non necessariamente inferiori a paralleli film di finzione. Nel caso della cinquina selezionata per gli Oscar, l’unica vera pellicola che si distingue è The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, visto al Festival di Venezia 2014, un ottimo film crudo e schietto, come The Act of Killing, sulle stragi perpetuate dai dittatori indonesiani negli anni Sessanta del secolo scorso. Forse meno azzardato e originale del suo predecessore, ma altrettanto duro e importante. Anche se non una visione nuova: certo un’evoluzione del discorso già intrapreso da Oppenheimer nel 2012, ma in qualche modo dipendente da esso. La vera sorpresa in questa selezione è stata, in verità, il film di Liz Garbus What Happened, Miss Simone?, uno straordinario resoconto della vita lunga e imperfetta della grandissima Nina Simone, mai idealizzata né eroicizzata, ma vista in tutti i suoi aspetti, soprattutto i più sgradevoli e scomodi. Un amore incondizionato per la sua musica attraversa il film, ritmato dai pezzi leggendari della Simone, anche se mai troppo noti o pedantemente emblematici (manca, per esempio, la sua mitica versione di Feeling Good). Straordinario il montaggio, che ripercorre proprio l’urgenza e la rabbia che attraversavano certi pezzi della Simone, come nella sequenza in cui canta Mississippi Goddam, in cui si alternano immagini di lei e immagini dei disordini legati all’accettazione della minoranza di colore nei paesi statunitensi. In effetti, non è un film che si distingue davvero dalla generale tendenza del documentario illustrativo (sarebbe The Look of Silence il film più originale da questo pdv), ma proprio perché parte da presupposti facilmente banalizzabili e già visti, era ancora più difficile che risultasse potente come di fatto poi è stato, in grado di far scoprire un mondo a chi non lo conosce, e ad approfondirlo per chi lo conosce, senza scivolare mai nell’aneddotica gratuita o nel pettegolezzo. Come invece rischia Amy di Asaf Kapadia, documentario fin troppo discontinuo che si diletta esageratamente con l’aura maledettistica che circonda l’ottima recentemente scomparsa cantante soul Amy Winehouse. Medio(cre) il documentario sui disordini ucraini del 2013, Winter on Fire: talmente avvincente da risultare finto e fin troppo poco imparziale per lasciare spazio al commento problematico dello spettatore. Invece per nulla interessante Cartel Land di Matthew Heineman, pedante e incapace di immergere in un mondo difficile e infuocato come quello del confine USA-Messico.
MIGLIOR FILM DOCUMENTARIO (EightAndHalf) – What Happened, Miss Simone? di Liz Garbus
MIGLIOR FILM DOCUMENTARIO (pronostico) – Amy di Asaf Kapadia
MIGLIOR FILM STRANIERO
Il figlio di Saul è a detta di molti la più grande sorpresa nella cinquina candidata agli Oscar. Un film che, si è visto, ha messo d’accordo quasi tutti, per la potenza dell’idea filmica di base, astrarre a concetto (benché carnale e concreto) la strage nazista ai danni del popolo ebraico, e mettere in scena solo il dramma folle e disperato di Saul, anti-eroe sofocliano intenzionato ad agire in modo umano a tutti i costi e in faccia a qualsiasi istintivo buon senso. Un’opera prima sorprendente e sconvolgente, che certo meriterebbe il premio. Solo interessante il Mustang franco-libanese, riadattamento delle vergini suicide di coppoliana memoria intinte in uno sguardo in cui è l’indignazione il principale metro di giudizio. Un po’ scontato, con una seconda parte ben più potente della prima. A War di Tobias Lindholm, visto nella sezione Orizzonti a Venezia 72, è un film decisamente ‘da Oscar’, teso e avvincente, in cui però riesce a farsi strada un senso di ambigua disperazione (i gesti del finale sono decisamente eloquenti) che lo rendono superiore alle aspettative, ben congegnato nel fondere due generi apparentemente distanti (guerra e dramma giudiziario), e deciso a non fornire troppe risposte. Theeb, anch’esso visto a Venezia 72, lascia invece l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è stato: un film dal gusto troppo occidentale, che non rivendica alcun tipo di particolare originalità, persegue le dinamiche piuttosto scontate del racconto di formazione, e mette poco in dubbio le azioni del giovane protagonista, se non nell’imprevedibile finale. Esteticamente nullo e poco interessante, va però celebrato per il curioso McGuffin dell’inglese in viaggio nei selvaggi territori della Giordania, personaggio che sembra portare il film su una direzione che viene sorprendentemente smentita a metà film. In assenza del film di Ciro Guerra, che invero potrebbe modificare in maniera decisiva il mio premio e il mio pronostico, le conclusioni sono le seguenti:
MIGLIOR FILM STRANIERO (EightAndHalf) – Il figlio di Saul di Laszlo Nemes
MIGLIOR FILM STRANIERO (pronostico) – A War di Tobias Lindholm
MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE
Inside Out, come prevedibile, spopola e alza di brutto l’asticella del gradimento in questa comunque interessantissima cinquina proposta dagli Academy. Oltre al prevedibilmente candidato Anomalisa, di un Kaufman meno graffiante del solito (film che ha fatto molto parlare di sé tra le fila dei critici americani), troviamo Shaun, vita da pecora, film decisamente divertente che non smentisce la creatività della Aardman Animations di Chicken Run e Wallace e Gromit; O menino e o mundo di Ale Abreu, film di cui troppo poco si è parlato e che vanta un immaginario visivo davvero particolare e interessante, benché non riesca, nonostante le ambizioni, a superare gli stitici confini della carineria (pur trattandosi di un film profondamente cinematografico, che parla con i colori e con le immagini ancor più che con le sporadiche parole pronunciate dagli evanescenti protagonisti); Quando c’era Marnie del regista di Arietty, Hiromasa Yonebayashi, commovente racconto di formazione dalle dinamiche originalissime e decisamente coraggiose (di fatto, è quasi una storia d’amore lesbo-necrofila-incestuosa) che sa coinvolgere come molti altri grandissimi lavori dello Studio Ghibli, e che meriterebbe il premio solo per tutti quei premi non vinti dalle oltre opere dello studio d’animazione giapponese (Si alza il vento e La storia della principessa splendente, per nominare le due più recenti candidature); e infine il grande, superbo, Inside Out, difficilmente imitabile per genialità e brillantezza, pregno com’è di profondissime riflessioni (propriamente filmiche) sulle possibilità dell’immaginazione, come se l’intero studio Pixar si fosse confrontato con le proprie personalissime capacità e avesse fatto un incredibile, formale, esame di coscienza.
MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE (EightAndHalf - pronostico) – Inside Out di Pete Docter e Ronnie del Carmen
MIGLIOR TRUCCO E ACCONCIATURA
Come usuale nelle candidature degli Academy, sono solo tre i film in lizza per questo premio. Il primo è una delle opere più importanti della scorsa annata, Mad Max: Fury Road, forse eccessivamente sopravvalutato qua e là ma eccelso esemplare di film di genere che si rinnova e concede una visione immersiva e totale in un mondo talmente magico e adrenalinico da risultare quasi mistico. I trucchi in questo film sono fondamentali perché essi stessi rappresentano e raccontano i personaggi (la museruola sul volto di Tom Hardy come l’incarnato scurito di Charlize Theron sono a tutti gli effetti i personaggi): è per questo che il mio personale premio per miglior trucco e acconciatura va a questo film. Inspiegabile la candidatura per il simpatico Centenario che saltò dalla finestra e scomparve, dovuta esclusivamente al trucco dell’anziano protagonista, un trucco volutamente sopra le righe che fa il personaggio, fa il film, ma non fa poi un personaggio e un film così essenziali e importanti. Il trucco per Revenant di Inarritu è invece dovuto probabilmente alla grande cura con cui vengono rappresentate le ferite, le condizioni di sofferenza in cui cade sempre di più lo sfigatissimo protagonista, e magari altri aspetti forse non meno importanti ma sempre e comunque pezzi di un puzzle del ben fatto che è, insieme a tutto il resto del film, il carattere distintivo della pellicola. Senza che diventi mai sinonimo del film ben ponderato, del bel film.
MIGLIOR TRUCCO E ACCONCIATURA (EightAndHalf - pronostico) – Mad Max: Fury Road, trucchi di Lesley Vanderwalt, Elka Wardega e Damian Martin
MIGLIOR SONORO E MIGLIOR MONTAGGIO SONORO
Poco da dire: associo queste categorie direttamente all’esperienza in sé che ho vissuto durante la visione del film. E di certo ne esce vincitore Mad Max: Fury Road, sotto tutti i punti di vista. Riempitivi Star Wars e The Martian (anche se al film di Ridley Scott gli americani ci credono davvero), scontato Revenant e decisamente meglio stendere un velo pietoso su Bridge of Spies (che, per carità, avrà anche un buon sonoro, di buona fattura com’è, ma non meriterebbe niente). Curiosa la presenza di Sicario, che però personalmente mette decisamente più dubbi nell’ambito del premio per la fotografia.
MIGLIOR SONORO E MIGLIOR MONTAGGIO SONORO (EightAndHalf – pronostico) – Mad Max: Fury Road, sonoro di Chris Jenkins, Gregg Rudloff e Ben Osmo e montaggio sonoro di Mark Mangini e David White
MIGLIORI COSTUMI
Il mio personale premio per i costumi va a The Danish Girl di Tom Hooper. Di fatto, il film del regista britannico non ha molti buoni ingredienti nella sua ricetta: una pellicola che parte discreta, e scivola in una leziosa insignificanza veramente fastidiosa, e triste. Eppure, i costumi fanno il loro grossissimo dovere. Raccontare la metamorfosi che sta al centro del film. E sono costumi non eccessivi, né sfarzosi, né volgari come avviene in Cinderella né scontati come avviene per Revenant (come al solito, parte del pacchetto, ma niente di indimenticabile). Come il trucco, fanno la loro porca figura anche i costumi di Mad Max: Fury Road. E in Carol, che dire?, sono parte integrante della ricostruzione storica e dell’ambientazione, concorrono ai colori pastello che rendono il film di Todd Haynes, insieme al resto, un film caloroso e incredibilmente emozionante. Eppure, il debole rimane per gli abiti svolazzanti che la Vikander propone a Redmayne all’inizio del film di Hooper, perché se c’è qualcosa da salvare in quel Danish Girl, che è di per sé un po’ un pattume, sono i costumi. In questo caso comunque, il pronostico vale come premio alternativo.
MIGLIORI COSTUMI (EightAndHalf) – The Danish Girl, costumi di Paco Delgado
MIGLIORI COSTUMI (pronostico) – Carol, costumi di Sandy Powell, candidata anche per Cinderella
MIGLIORI EFFETTI SPECIALI
Qualcuno aveva dubbi? Gli effetti speciali del film di George Miller sono maestosi e fenomenali. Se la giocano con quelli di Revenant, senza dubbio, che però alterna sequenze in questo senso magistrali (la lotta corpo a corpo con l’orso) e altre sequenze quasi vergognose (il branco di bufali è orribile). L’effetto è talmente discontinuo da lasciare un po’ l’amaro in bocca. Poco centrati quelli di Ex Machina (che ha ben altri meriti..) e quasi nulli, alla fine, quelli di The Martian, sicuramente nella media. Per ciò che concerne Star Wars VII, non c’è niente cui la saga in precedenza non ci avesse già abituato, benché sia stato realizzato nel 2015. Che sia un bene o un male, ancora non ci è dato sapere, ma un Oscar sarebbe abbastanza precoce. Poi considerando il lavoro di Lucas nella precedente trilogia, il film di Abrams esce decisamente sconfitto…
MIGLIORI EFFETTI SPECIALI (EightAndHalf – pronostico) – Mad Max: Fury Road, effetti speciali di Andrew Jackson, Dan Oliver, Andy Williams e Tom Wood
MIGLIORE CANZONE
Questa è sulla carta una parentesi, poiché può essere composta una splendida canzone per un film assolutamente scadente o viceversa, senza che necessariamente l’uno giustifichi/migliori l’altra. Quest’anno, le scelte degli Academy sono state scontate e un po’ pedanti, frutto del fatto che in questo campo poco si vuole creare, e insufficiente è l’entusiasmo. Tranne la canzone cui conferisco il mio premio Oscar, Simple Song #3 di Youth – La giovinezza, le altre quattro in lizza incarnano in se stesse i difetti e le banalità dei film che raccontano. Si salvi solo in parte il brano di Sam Smith realizzato per 007: Spectre, Writing’s on the Wall, dunque per uno dei film più inutilmente martoriati degli ultimi mesi dai critici viziati dal notevole Skyfall. Il film è dignitoso, invero, oltre che ben realizzato, avvincente e con un curioso discorso da portare avanti in rapporto allo scomodo peso dei ben 23 film alle spalle di quest’ultimo capitolo di James Bond. La canzone però, d’altra parte, è dimenticabile: è stata scelta per rischiare poco, probabilmente, considerando che l’alternativa più papabile era una bellissima canzone dei Radiohead, Spectre, cui probabilmente sarebbe spettato l’Oscar in un universo parallelo. Sulle altre canzoni si sprechino poche parole: Earned It di 50 Shades of Grey è specchio dell’erotismo da romanzetto rosa del film (e dei libri da cui il film è tratto); ‘Til It Happens To You cavalca il vittimismo pedante e superfluo (essenziale, in realtà, ma mal reso) di The Hunting Ground (un dispensatore sovraccarico di indignazione senza problematica, raggelato dalle statistiche sciorinate ogni due minuti); e, infine, Manta Ray, vorrebbe raccontare lo splendore della natura che stiamo distruggendo (come professa, di routine, il barboso Racing Extinction), rimanendo però nei canoni della patina propria dei documentari alla National Geographic..e dirlo per una canzone certo non è una gran cosa. Per la canzone. Quantomeno Simple Song #3, cantata da Sumi Jo, assume nel finale di Youth il ruolo del catalizzatore della (un po’ impacciata) catarsi cui il film conduce nelle sue due ore di durata. Ed è anche bella, molto semplicemente, strano ibrido di lirica e musica d’ambiente.
MIGLIOR CANZONE (EightAndHalf) – Simple Song #3 di David Lang, da Youth di Paolo Sorrentino
MIGLIOR CANZONE (pronostico) – Writing’s on the Wall di Sam Smith e Jimmy Napes, da 007: Spectre di Sam Mendes
MIGLIOR COLONNA SONORA
È incredibile come questa categoria incarni in sé due dei forse più bei film del 2015, probabilmente nella top ten, ovvero The Hateful Eight e Carol, e uno dei più deludenti, Bridge of Spies. Dal canto loro, Sicario e Star Wars VII sono inspiegabilmente dentro, il primo per una colonna sonora di cui rimane poco o nulla (nonostante sia stato un film abbastanza piacevole), il secondo per una musica che offre poco più rispetto al normale repertorio williamsiano della saga di Guerre Stellari. Pedante e risaputo l’accompagnamento del film di Spielberg (l’ennesima conferma della natura imbolsita del film), non così memorabile quello di Ennio Morricone (che si ricorda quasi esclusivamente per aver accompagnato il bellissimo carrello iniziale). Quindi a vincere per me è l’ultimo rimasto, Carol, una colonna sonora avvolgente, suadente, e mai sfacciata né sdolcinata, in grado di discorrere con una regia che sa combinare rigore e commozione, immobilità e estatico movimento, come nel finale in cui la musica entra in un emozionante andamento, e la cinepresa comincia a vibrare della tensione amorosa di un rapporto che forse è stato riscoperto da uno sguardo corrisposto.
MIGLIOR COLONNA SONORA (EightAndHalf) – Carol, colonna sonora di Cartel Burwell
MIGLIOR COLONNA SONORA (pronostico) – The Hateful Eight, colonna sonora di Ennio Morricone
MIGLIOR MONTAGGIO
Mad Max: Fury Road deve anche al montaggio la carica adrenalinica che lo caratterizza. Come tutti gli altri aspetti, perfetto, limato alla perfezione e apparentemente poco importante, ma com’è ovvio fondamentale. Eppure il mio personale premio Oscar al montaggio va a The Big Short. Il lavoro di Hank Corwin merita decisamente l’Oscar per la gestione del ritmo di un film a dirla tutta complesso, arzigogolato, in grado di rispecchiare il caos e la follia che serpeggia nelle manovre economiche americane, e dunque mondiali. Un labor limae che collabora con la regia, buona, e la sceneggiatura, per riuscire a coinvolgere con ipercinesi e dunque puro Cinema. Anche se non tutti i pezzi del puzzle riescono a combinarsi, almeno ad una prima visione. Lascia un po’ perplesso il premio per il montaggio di Revenant, considerando che il meglio, visivamente, quel film lo dà nei piani-sequenza. Nella media il montaggio di Star Wars VII (con le chiusure old-style delle varie sequenze con le dissolvenze o con lo schermo nero che sopravanza nelle varie direzioni e con le più differenti fantasie), e altrettanto nella media quello di Spotlight: perspicace, serioso, e invisibile, in buona tradizione pakuliana.
MIGLIOR MONTAGGIO (EightAndHalf – pronostico) – La grande scommessa, montaggio di Hank Corwin
MIGLIOR SCENOGRAFIA
Forse si tratta dell’unico premio che meriterebbe Bridge of Spies. Al solito, la costruzione scenica degli ambienti è formidabile, cosa cui ci ha sempre abituato Spielberg. Pur essendo utilizzata, in questo film, nella maniera in cui è utilizzata (a invalidarla basterebbe la doppia sequenza dei giovani uccisi tentando di scavalcare il muro a Berlino, e dei giovani che saltano oltre il muretto della pacifica America destando brutti ricordi), cioè in modo ricattatorio. Ben più meritevole la scenografia di The Martian, per quanto non stupisca più di tanto, e quella di The Danish Girl, precisina ricostruzione di ambienti. Nell’ambito dell’eccezionale invece abbiamo sia quella di Revenant che quella di Mad Max: Fury Road. Premiamo il secondo per l’originalità, anche se l’Oscar probabilmente andrà al primo.
MIGLIOR SCENOGRAFIA (EightAndHalf) – Mad Max: Fury Road, scenografia di Colin Gibson e Lisa Thompson
MIGLIOR SCENOGRAFIA (pronostico) – Revenant, scenografia di Jack Fish e Hamish Purdy
MIGLIOR FOTOGRAFIA
C’è il dio Lubezki, come non farci caso? È anche il motivo per cui Revenant sembra aver così tanto saccheggiato da Malick e da altri autori contemporanei. Il premio dovrebbe andare di certo a lui (e ci andrà, sarà la terza volta consecutiva dopo Gravity e Birdman). Ma come trascurare la fotografia di Carol, meravigliosa ed avvolgente? E quella pazza e squinternata di Mad Max: Fury Road? Quella chiusa ed effervescente di The Hateful Eight? E quella responsabile della splendida sequenza con la camera termica nel prefinale di Sicario? Il premio più difficile da assegnare; Lubezki vuole rimanere una certezza.
MIGLIOR FOTOGRAFIA (EightAndHalf – pronostico) – Revenant, fotografia di Emmanuel Lubezki
MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
Entriamo ora nell’ambito dei premi più prestigiosi, che più fanno parlare di sé. Normalmente in questa sezione si premia chi sa espletare meglio la propria logorrea: basti considerare le candidature. A volte sono logorree più nascoste e invisibili (quella standard e insignificante di Brooklyn di Nick Hornby), a volte dispiegate in uno script decisamente appropriato e delicato (Carol, sceneggiato da Phyllis Nagy), a volte leziose e ammiccanti (Room, tra i tanti premi cui questo film è candidato e fra gli altrettanti premi che non meriterebbe), altre volte banali (The Martian), e altre volte ancora esplose e funzionali (The Big Short). Nell’ultimo caso, c’è più coerenza con l’espressione logorrea, per quanto si parla e si sparla. Sarà la più adorata dagli Academy. Ma personalmente premio la più intimistica, non-sensazionale, affabile e commovente piega dello script di Carol.
MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE (EightAndHalf) – Carol, sceneggiatura non originale di Phyllis Nagy
MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE (pronostico) – The Big Short, sceneggiatura non originale di Charles Randolph e Adam McKay
MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
Stendiamo un velo pietoso su quella scritta dai Coen per Bridges of Spies, venirne a scoprire la paternità dopo il film è stato un colpo al cuore, considerato l’affetto che nutro per il lavoro dei due fratelli. Più o meno interessanti, nel bene e nel male, tutte le altre. Furbissima e calcolata quella di Straight Outta Compton, che parte da presupposti stra-ovvi di ascesa e caduta dei leggendari NWA (presupposti giustificati dalla true story) e ripiega per uno slang nigga intraducibile e verissimo a tutti i costi. Quella di Spotlight, anch’essa percorre territori già noti, canoni risaputi, anche se tiene salda l’attenzione per tutta la durata, ed è una sfida dura viste le premesse. Oltretutto spara conclusioni morali con eccessiva fretta e facilità, nonostante la complessità dell’argomento trattato. Di quella di Inside Out se ne è parlato in lungo e in largo, per come è evoluta dal progetto iniziale alla sua estrema semplificazione nelle cinque emozioni fondamentali dell’uomo. Brillante, anche molto sottile nel concentrare una trama esplosiva nella mente di una ragazza, e nel rivelare che essa si mostra come fosse una cosa nuova contestualmente ad avvenimenti umani decisamente normali e quotidiani (la crisi pre-adolescenziale della piccola protagonista). Però, si voglia concedere il premio alla sceneggiatura entusiasta e particolarissima della fantascienza filosofica di Alex Garland, in Ex Machina alla sua prima prova registica. Regia e sceneggiatura creano un dialogo indissolubile sullo scontro fra razionale e irrazionale, concedendo poco allo spettacolo e molto all’accumulo di una tensione che si rifrange nelle luci al neon dell’appartamento misterioso dove tutto il film è ambientato. Non a tutti è piaciuta, e scivola un po’ negli spiegoni, ma fra tutte quelle candidate è la più sincera e genuina.
MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE (EightAndHalf) – Ex Machina, sceneggiatura originale di Alex Garland
MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE (pronostico) – Spotlight, sceneggiatura originale di Tom McCarthy e Josh Singer
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
Qui ci sono moltissimi problemi. Tranne forse la prova non particolarmente importante di Rachel McAdams in Spotlight, tutte le candidate avrebbero un motivo per vincere. Andiamo con ordine. Rooney Mara dimostra di saper dare tanto: chiamarla non protagonista, oltretutto, è un dovere formale, di fatto sfonda lo schermo come fa la comprimaria Cate Blanchett. Voce e sguardi profondi, che riflettono le paure e le insicurezze; gesti semplici che si riempiono di significato. Ogni elogio per la sua interpretazione uscirebbe troppo banale: eccezionale. Che dire di Alicia Vikander? Forse avrebbe meritato di più in Ex Machina, ma anche in The Danish Girl fa il suo ottimo lavoro. Peccato che sia costretta a piagnucolare nel piagnucoloso finale, ma è lei che sorregge il film, così, per sfatare il mito Eddie Redmayne. Jennifer Jason Leigh impazza e esalta in The Hateful Eight: oltre che una prova di bravura sconsiderata, ricordiamo la sua interpretazione come quella del personaggio che in un singolo film riceve più roba schifosa in faccia. Vomito, sangue, stufato, neve, e chi più ne ha più ne metta. Non si può non adorarla: regge il gioco di tutti gli altri personaggi, uomini dalla virilità invadente considerando che siamo nel Far West, e lo fa facendo il loro stesso gioco. Il suo è un personaggio rude e molesto, che richiama alla splendida tradizione cinematografica di donne del west, dalla terribile Shelley Winters in Bloody Mama, finanche, con le dovute approssimazioni, alle donne di Johnny Guitar. Una figliata di cui è responsabile, prima di tutte, la mitica madre di White Heat. Il premio però di EightAndHalf va a Kate Winslet. Il suo utilizzo in Steve Jobs di Boyle è praticamente esso stesso la qualità del film. Mentre Fassbender invecchia, lei ringiovanisce, si trasforma, anche pesantemente, e riesce a rendere credibile la trasformazione. Compie uno sforzo mimetico eccezionale, uscendo dagli standard delle sue interpretazioni e dando un esempio di recitazione al vetriolo che sa colpire anche quando sta in silenzio, il che in Steve Jobs è un caso decisamente raro. Mitica. Nonostante sia stato difficile scegliere, è ancora più difficile pensare a un pronostico realistico.
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA (EightAndHalf) – Kate Winslet in Steve Jobs
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA (pronostico) – Rooney Mara in Carol
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
Qui è decisamente più facile scegliere. Mark Ruffalo ha saputo offrire di meglio, e non ha davvero un’espressività così encomiabile. Sylvester Stallone soddisfa un certo desiderio tutto american-cinema di nostalgia per il suo vecchio Rocky, ed è candidato solo e soltanto per quello che subisce il suo personaggio in Creed, un plot twist evitabile e fintamente malinconico. Mark Rylance verrà ricordato per lo sguardo molto saggio cui si finisce per voler bene, e per la battuta, questa volta irritante, che in Bridges of Spies ripete almeno tre volte (“Non è preoccupato?”; “Servirebbe?”). Tom Hardy fa bene, benissimo, il suo mestiere, ma è svantaggiato da un personaggio fin troppo (volutamente) topico. E infine rimane il Christian Bale strabico di The Big Short, tra i personaggi degli attori candidati il più complesso e difficile, che trova momentanee catarsi nell’heavy metal. Dovrebbe vincere lui, ma non vincerà.
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA (EightAndHalf) – Christian Bale in The Big Short
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA (pronostico) – Tom Hardy in Revenant
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA
Jennifer Lawrence ha evidentemente già dato il meglio di sé. David O. Russell ha infatti l’unico merito di estrarre dalle sue capacità il meglio, offrendola a personaggi logorroici che siano anche, comunque, abbastanza piacioni. Qui si richiede alla Lawrence un personaggio un po’ più introverso, bizzarramente edificante, e lei è la prima volta che sembra abbastanza spaesata. Un’interpretazione che è un mezzo fallimento. Insieme al resto del film, che è terribile. Saoirse Ronan ha dovuto interpretare ruoli molto più complessi (pensate a Byzantium di Neil Jordan), e con Brooklyn si riconferma un’ottima mestierante che però non sfonda mai davvero lo schermo, né ipnotizza. Sempliciotta come il suo personaggio. Brie Larson ha costantemente il volto contrito, in Room di Abrahamson, e risponde al desiderio di rendere il film commovente a tutti i costi. Indirettamente, partecipa al fallimento del progetto. Cate Blanchett, che dire, è meravigliosa, suadente e accattivante, il suo sguardo è realmente magnetico. Oltretutto è immobilizzata da un personaggio complesso e pluristratificato, incastrato fra il rigore di una bambola ibseniana e il desiderio di una donna innamorata. Eppure, considerando che ha già vinto meritatamente due anni fa, perché invece non premiare la splendida Charlotte Rampling? 45 Years è un film discreto solo grazie alla sua presenza (d’altronde il film è imperniato sulla sua interpretazione), e il suo sguardo finale nel film è probabilmente la prova più eccezionale tra quelle candidate, sia fra attori che attrici, sia protagonisti che non. Immensa.
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA (EightAndHalf) – Charlotte Rampling in 45 Years
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONSITA (pronostico) – Brie Larson in Room
MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA
Qui siamo in territorio infuocato. Io però faccio il tenero e concedo il mio Oscar a DiCaprio. Penso anche che lo vincerà. A concorrere però sono altri due attori validi: Bryan Cranston alla sua prima importante interpretazione cinematografica, per un film esile esile come Trumbo di Jay Roach; Michael Fassbender, che meriterebbe solo solo per non essere stato premiato per 12 Years a Slave (e vabbè, anche perché qui per Boyle fa un ottimo lavoro). Per ciò che riguarda Matt Damon e Eddie Redmayne, le loro interpretazioni (del primo, scontata, del secondo, quasi vanitosa) dovrebbero parlare da sole. Non è la migliore interpretazione di Leonardo DiCaprio (avrebbe meritato di più per lo scorsesiano Wolf of Wall Street), sarebbe più un Oscar alla carriera, ma il suo sguardo in Revenant riesce a superare il mestiere un po’ imbolsito degli sguardi carismatici di Tom Hardy, e ce ne vuole.
MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA (EightAndHalf – pronostico) – Leonardo DiCaprio in Revenant
MIGLIOR REGIA
Eccoci dunque al secondo premio più importante. Eppure non è neanche troppo difficile dare il proprio personale giudizio. Personalmente, la regia meritevole è quella esplosiva di George Miller, sincera e folle oltre ogni limite, è lei stessa a incatenarti alla poltrona, per un’esperienza di Cinema che chi vuole guardare e non ascoltare e non necessariamente riflettere poderosamente merita. Inarritu desta un po’ di antipatia per l’inconsistenza del suo lavoro in Revenant: vorrebbe tornare a fattori archetipali dopo l’Apocalisse massimalista di Birdman, ma rimane logorroico come nel suo film precedente, con un film in cui forse un poco di ironia avrebbe giovato. Nonostante la grandezza di Birdman, Inarritu è, duole dirlo, un finto Autore. Lenny Abrahamson è terribile: Room è un film ordinario e già visto, soprattutto dal punto di vista estetico. Una furbata coi fiocchi, inconsistente, in cui si perde l’occasione (se non in sporadiche sequenze) di vivere l’esperienza sensoriale del bambino protagonista e renderla credibile. Forse l’unica sequenza meritevole è quando il bambino si libera del tappeto in cui è avvolto nel retro del furgone del suo rapitore, e guarda il cielo. Tom McCarthy forse andrebbe premiato per la direzione degli attori, ma se parliamo dell’aspetto formale, il film è volutamente piano, perché attento ad altri aspetti. Sarebbe un premio tecnico, alla stregua di miglior scenografia o miglior montaggio. E Adam McKay, diciamocelo, seppur abilissimo, ha un atteggiamento un po’ troppo hindie, direi quasi da Sundance, per appassionare.
MIGLIOR REGIA (EightAndHalf) – George Miller per Mad Mad: Fury Road
MIGLIOR REGIA (pronostico) – Alejandro Gonzales Inarritu per Revenant
MIGLIOR FILM
Nelle altre categorie si è parlato diffusamente un po’ di tutti i film, quindi non mi dilungherò, nonostante qui l’argomento sia scottante e importante. Il mio film preferito tra quelli selezionati è senza dubbio Mad Max: Fury Road, in termini soprattutto di esperienza di visione, e questo desidero da un grande film. Carol e The Hateful Eight gli sono superiori, ma sono anche inspiegabilmente assenti da questa sezione. Al secondo posto della mia personale classifica sta The Big Short, che come Mad Max: Fury Road è forse l’unico film che avrei il desiderio di rivedere. Il caso Spotlight va al terzo posto, ma con tutto quello che ci ha offerto il 2015 in ambito cinematografico mi sembra anche un po’ assurdo averne dovuto parlare così tanto: un film di genere che coinvolge con poco, ma che fa riflettere meno di quanto vorrebbe. Al quarto posto viene Revenant: un film di cui parlare non è facile, in cui si controbilanciano pregi e difetti, e per cui rimane un po’ di sincera antipatia. Piatto The Martian, che mi ha fatto capire cos’è che dispiace a molti spettatori degli ultimi Ridley Scott, che di norma ho quasi sempre apprezzato (The Conselour, per esempio, e contro i pareri più diffusi, anche Prometheus e Exodus). Sarebbe premiato solo come indiretto tributo a David Bowie, di cui è usata splendidamente la hit Starman. Subito dopo, a ruota, Brooklyn, film dimenticabile e normalissimo, di cui non si comprende davvero il motivo di tanto entusiasmo: un riempitivo. Agli ultimi due posti, Room, furbetto oltre ogni dire, e quella grossissima delusione di Bridge of Spies, in cui i risvolti narrativi, legati a doppio filo con la Storia, sono risolti con una semplicità che lascia perplessi. Una cecità storica che da Spielberg non mi sarei aspettato, a favore di uno spettacolo che non è neanche particolarmente avvincente, viste le dinamiche. Personaggi irritanti, Tom Hanks che fa Tom Hanks: il meglio, e il peggio, del cinema popolare americano.
In conclusione, nonostante sia convinto che anche l’Academy vorrebbe evitare di bissare l’anno scorso, sono convinto che ci sorbiremo un altro discorso dal cast di Revenant, alle sei del mattino del 29 febbraio. E il sorrisone commosso di Inarritu.
MIGLIOR FILM (EightAndHalf) – Mad Max: Fury Road di George Miller
MIGLIOR FILM (pronostico) – Revenant di Alejandro Gonzales Inarritu
Pubblico questa playlist una settimana e un giorno prima della consegna dei premi Oscar nella speranza che gli altri utenti vogliano partecipare a questo “gioco” dei premi e dei pronostici, e per dare loro il tempo materiale per farlo. Ogni contributo è ben accetto. E chiaramente l’appuntamento è di nuovo qui il 29 febbraio, quando le carte saranno scoperte.
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