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Pasolini e i ragazzi di cinema
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Bisogna abbandonare le dietrologie e le ricostruzioni fantasiose, superare l’impasse dei ributtanti giudizi morali, valutare l’artista per il suo essere tale e non per le sue legittime e personali scelte di uomo. Fermarsi alla realtà dei fatti e ricordare che Pier Paolo Pasolini, quando fu ucciso, era in compagnia di un giovane ragazzo. La vita di Pasolini è stata cinema, ed il cinema è stata vita: difficile segnare linee di demarcazione tra i due territori, nelle sfaccettature di una personalità che si cibava di assolutezza o di lancinanti aneliti alla stessa. Nel suo farsi cinema, ovvero nel tentativo di avvicinarsi quanto più ad esso, la vita di Pasolini ha percorso strade di alternativa e ferma coerenza: la ricerca incessante della purezza degli sguardi nascenti dal basso, l’entusiasmo quasi fanciullesco di fronte alla spontaneità, l’assegnare perfetta aura attoriale ad esseri umani costretti in una quotidianità asfissiante e, per questo, inclini naturalmente alla recitazione, ad una espressione di sé anche paracula, ma sempre costantemente incorruttibile. Occorrevano interpreti ideali della poetica sporca e terrena di Pasolini, corpi nervosi e mani poco curate, guizzi di gambe e corde vocali, soprattutto volti che fossero essi stessi la Verità. Pasolini riuscì a trovarli: ne curò la crescita, umana e professionale, li accompagnò nei loro percorsi successivi ed alternativi, finchè gli fu dato il tempo di farlo. Li amò di un amore sincero e disinteressato, con la passione anche malinconica e lievemente egoista del quale un artista investe una sua creazione. Sono i pasoliniani ragazzi di cinema.

 

 

Uno di questi se n’è andato pochi giorni fa. Franco Citti è stato probabilmente il ragazzo di cinema prediletto, l’allievo che, senza superare il maestro, ne ha tratto la linfa più fresca e vitale. Accattone rappresentò l’approdo di entrambi al mondo del cinema e fu un capolavoro. Citti seppe seguire le direttive del regista senza sforzo alcuno, in quanto in quel film rappresentava molto di quel sé che ancora era: un giovane virgulto di borgata, perso in dinamiche di crescita sociale ed economiche del tutto aliene, oltre che alienanti. La drammaticità degli eventi, e la stilizzazione del carattere fuorilegge di Accattone, erano naturalmente una voluta forzatura, una superfetazione delle inutili istanze di crescita del sottoproletariato. Ma Citti quel mondo lo conosceva bene, lo viveva, e gli fu dunque facile prestarsi in un ruolo drammatico e poetico, conferire al personaggio una rilevante parte di vissuto e, soprattutto, il linguaggio diretto e senza fronzoli tale da scardinare ogni sovrastruttura normativa, legislativa e convenzionale. I suoi tratti somatici così indiscutibilmente romani (meglio: romaneschi, di quella romanità icastica e beffarda) illuminarono in Pasolini la spia della ispirazione sincera. Era ciò che PPP cercava e che era riuscito a trovare: un ragazzo di borgata, un figlio del popolo più minuto, un perfetto Accattone, insomma, mimetico, dolente, segnato nei lineamenti e nell’anima.

La generosità di Pasolini concesse altre prove a Citti, mai tuttavia così realmente memorabili come quella dell’esordio. Il regista lo arruolò ancora in Edipo Re, Porcile, Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte. E Citti lavorò con altri registi, riuscendo a ritrovare parte della forza degli esordi forse soltanto con il fratello Sergio (altro ragazzo di cinema, magari già più evoluto culturalmente e cinematograficamente, ma dai natali indiscutibilmente bassi: questa la patente che Pasolini chiedeva in visione prima di arruolare, insegnare, indicare la direzione del volo).

 

 

Oggi lo vediamo come un distinto signore dai capelli bianchi ed ancora ostinatamente ricci; lo ammiriamo in buone prove nel cinema italiano che vuole darsi un legittimo atout di impegno, ne ascoltiamo la aperta e simpatica parlata, i frizzi di allegria che sa regalare, senza peraltro riuscire a celare una vena malinconica che la stessa bella voce rivela. Ma Ninetto Davoli è stato, indiscutibilmente, uno dei ragazzi di cinema pasoliniani, forse il ragazzo di cinema. Aveva soltanto 18 anni quando, nel 1966, PPP gli affidò il ruolo di protagonista in Uccellacci ed uccellini, affiancandogli il genio al tramonto di Totò, in quello che è uno tra i più rilucenti esempi di cinema poltico: film che, senza rinunciare ad una apparente leggerezza di tocco, si impone ed affronta temi alti, in un periodo davvero difficile e complesso. La vitalità di quel ragazzo e, naturalmente, le sue origini non potevano non colpire Pasolini che letteralmente plasmò l’attore Ninetto, incanalandone le virtù natali in una recitazione perfettamente aderente alla sua poetica. Non può dimenticarsi, tra i successivi ruoli che gli furono affidati, quello di un Otello romano in Che cosa sono le nuvole? (episodio dell’altrimenti trascurabile Capriccio all’italiana). Ancora accanto a Toto, uno Iago lunare e di malvagità quasi patetica, Ninetto si disarticola, insieme agli altri attori, fino a trasformarsi in una marionetta destinata al macero, in quello che è un concentrato di poesia e malinconia di perturbante bellezza.

Ninetto Davoli fu probabilmente il penultimo ragazzo (l’ultimo, ahimè, di cinema) a vedere vivo Pasolini. Qualcosa dovrà pur significare: non c’è becero gossip che tenga quando un artista ti aiuta a crescere e ti trasforma in un attore dai variopinti colori.

 

 

Non ci si deve sentire tanto male ad avere come padre putativo Pier Paolo Pasolini e come mamma Anna Magnani. Ettore Garofalo faceva il cameriere e, absit iniuria verbis, del cameriere possedeva i tratti somatici ed i modi spicci. Cameriere non all’Hilton, probabilmente factotum malpagato in uno dei ritrovi di periferia dove si danno convegno i rappresentanti di un sottomondo puro e (in)contaminato che discorrono e sbraitano avvertendosi come il centro dell’universo. Pasolini lo notò e ne fece un attore. Trascurabile in successive prove per altri registi, meraviglioso in Mamma Roma. Ettore il figlio perduto, Ettore che cerca inutilmente un lavoro onesto (anche da cameriere!), Ettore che ama la mamma di un amore che soffoca entrambi (impossibile trattenere i lucciconi durante la scena del ballo al ritmo di un Violino Tzigano di urticante esecuzione), Ettore che dovrà sacrificare se stesso in una morte che Pasolini rappresenterà secondo la nobile iconografia cristologica. Un perfetto ragazzo di cinema, anche egli morto giovane, un Citti ancor più ossuto, spigoloso e spiritato, una figurina perfetta nell’album pasoliniano dell’innocenza perduta eppur recuperabile.

 

 

E poi ci sono i tanti ragazzi (e ragazze) che quell’innocenza (almeno filmicamente) non fecero in tempo a recuperarla. Sono i ragazzi vittime e schiavi del Potere e dei suoi infingardi rappresentanti, rastrellati e coinvolti in una spirale di insano annientamento, in quello che è il capolavoro maledetto di PPP, il suo lucidissimo e sofferente pamphlet testamentario, la visione praticamente postuma di un uomo che aveva capito tutto e molto (troppo) avrebbe ancora potuto/dovuto, suo malgrado, capire.

I ragazzi di Salò o le 120 giornate di Sodoma sono corpi vuoti e visi impotenti, sono occhi che cercano vie d’uscita in un passato troppo breve per farsi vita. Le umiliazioni cui sono sottoposti, fino alla morte, alla trasformazione in variabili di una contabilità inchinata alla bieca sopraffazione, sono il (consapevole?) canto d’addio del regista all’ennesima vita, la sua, forse l’ammissione di una sconfitta, più probabilmente l’estremo slancio devastante verso la purezza. Che potrà essere infangata, perduta, annientata, ma resta ciò che ogni essere umano non può non scoprire, appena abbia un po’ di tempo e voglia per guardarsi dentro. Quei ragazzi costretti a mangiare merda siamo (anche) noi. Giovani o adulti, proletari, borghesi o capitalisti, tutti ragazzi di una vita che non è mai come dovrebbe essere.

 

 

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