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WHY SO LEDGER? Profilo critico di Heath Ledger
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Nasceva a Perth, Australia, il 4 aprile del 1979, e si chiamava Heathcliff Andrew Ledger. Oggi lo conosciamo tutti come Heath, o come Joker o come Ennis Del Mar. Quando si è spento nel suo appartamento di New York il 22 gennaio 2008, il mondo ha pianto. Non succedeva dai tempi di James Dean. Neppure la scomparsa di River Phoenix ha inciso così tanto su un’intera generazione di attori e spettatori. Senza nulla togliere al fratello minore di Joaquín Phoenix, o ad altri che ci hanno lasciato tragicamente come Brad Renfro, la morte di Heath Ledger non solo segna il dolore della gente che lo aveva seguito, ma diventa simbolo di una generazione di attori, quella dei nati a cavallo tra ’70 e ’80, legati ancora direttamente a un mondo concreto e non virtuale, e che non godono ancora tutti dei favori di pubblico e critica se non in casi eccezionali. Una generazione persa, non per demeriti, ma inverosimilmente per merito. Il merito di non essere quello che la cultura dominante vorrebbe.

Esordisce al cinema nel 1992 in un dramma australiano con Van Johnson, Clowing Around, e fino al suo primo ruolo da protagonista in 10 Things I Hate About You (1999), al fianco di altri due nomi noti della stessa generazione come Joseph Gordon-Levitt e Andrew Keegan, è solo il volto del perfetto rubacuori. Prima della sua svolta artistica, che da volto di contorno lo trasforma in attore main-stream, è parte del cast di un bellissimo film, passato al Sundance Film Festival del 1997: Black Rock. Ma non è ancora il Ledger che sarebbe stato poco dopo. Infatti, dopo quel primo ruolo da protagonista in 10 Things I Hate About You, Heath è protagonista assoluto di un pulp tutto australiano con Brian Brown, Two Hands (1999), dove il suo fisico e il suo volto sono messi al servizio della costruzione e distruzione del cliché del giovane bello e maledetto. Questa tipologia di ruolo che l’attore australiano interpreterà ben sette volte nell’arco della sua carriera, rivive in Ledger con una incisività controllata autorialmente, tale da renderlo uno degli interpreti più significativi della sua generazione. Il suo Jimmy è bello, sensuale, maledetto, coraggioso. Tutto quello che può servire ad un personaggio per far centro non solo nel cuore delle sedicenni esagitate, ma anche nello sguardo distaccato della critica e dello spettatore maschile. Entrambi infatti non possono non riconoscere nel character di Ledger i segni di un’alterità, ribelle e scontrosa al sistema, che vivrà di referenze autoriali lungo l’arco della sua carriera da attore.

Il ruolo diventa culto e gli permette di essere il protagonista di una serie-tv di soli 13 episodi, Roar (1997), un fantasy in cui Ledger è il figlio orfano di un celebre capotribù irlandese che combatte per l’unione di tutti i Druidi e vaga per l’Irlanda, detta Hibernia, per raddrizzare i torti e vendicare i soprusi. Nello stesso anno si troverà sul set di un polpettone inguardabile che lo lancerà nel cinema americano, The Patriot (2000).

Aveva visto bene il connazionale Mel Gibson che parlava di lui come di un grande astro nascente, e a conferma di questo sarebbe a breve arrivato il premio come miglior attore esordiente al Blockbuster Entertainment Awards. Premio la cui referenza lascia il tempo che trova, ma che per averci visto bene ci aveva visto bene. Grazie infatti al titolo successivo, Il Destino di un Cavaliere (2001), Heath conquista letteralmente Hollywood e tutto il mondo dei giovani spettatori. Nel film scanzonato e anacronistico di Brian Helgeland, uno dei maggiori sceneggiatori di Hollywood, Ledger sfodera tutta l’adolescenza del suo corpo e del suo animo, e la mette al servizio di un ruolo semplice, pennellato rapidamente, la cui personale bravura traspositiva è messa fuori discussione. É in pellicole come queste, per ragazzi, semplici e senza pretese, che i grandi attori dannano come tigri in una gabbia. Anche Heath passeggia famelico avanti e indietro tra le sbarre di un ruolo commerciale, sbavando per dare il meglio di sé. Fino a che lo dà sul serio proprio nello stesso film, alzandone clamorosamente la qualità.

Si apre così tutta un’altra carriera per l’attore venuto dall’Australia e che gira il suo successivo film, Monster’s Ball (2001) a soli 22 anni. Il ruolo dell’inquieto figlio di Billy Bob Thorton e nipote di un vecchio e acido Peter Boyle, è un ruolo grave, funebre, mortuario per un ragazzo di quell’età. Se il Jimmy di Two Hands anticipava come tipizzazione il ruolo più idoneo a Ledger, il Sonny Grotowsky del film di Marc Foster ne codifica l’anima e i segni esteriori che si ripresenteranno nelle prove future. Un ruolo veloce, una piccola parte, ma intensa, che grida disperata il dolore di una generazione intera di americani senza figli. Il film infatti, privato del personaggio di Ledger, si fa bello solo a metà. Il suo Sonny beve, fuma, si scopa istericamente la puttana di fiducia, fa insomma tutto ciò che la morale borghese, soprattutto del profondo sud americano, non concepisce ma accetta ipocritamente. Sonny però fa anche dell’altro: è l’amico sincero dei neri della zona, è l’unico che prova vergogna per il lavoro che fa – il carceriere nel braccio della morte – ed è l’unico che si ribella a tutto questo marcio Paese con l’estremo gesto del suicidio davanti agli occhi del padre e del nonno. Sotto accusa un’intera parentela, un intero passato, un’intera Nazione.

Arrivano così le prima grandi produzioni. La prima, riuscita a metà e diretta da Shekhar Kapur, è Le quattro piume (2002), remake hollywoodiano del celebre film storico inglese del 1939 di Zoltan Korda tratto dal romanzo di A.E.W. Mason. Il film abbina due attori in erba della stessa generazione e dalle grandi potenzialità, infatti, insieme all’astro nascente Heath Ledger c’è Wes Bentley, ovvero il celebre “ragazzo con la videocamera” di American Beauty (1999). Le quattro piume però, che non ricevette nessun consenso da pubblico e critica, arrise solo a Ledger che migliorò le sue quotazioni.

Nonostante questo piccolo successo di pubblico, Ledger continuerà a muoversi sul filo del rasoio alternando produzioni commerciali a piccoli film di respiro più irregolare. Nel 2003 torna a lavorare con il regista di Two Hands, Gregor Jordan, in Ned Kelly (2003). Questa avventura tutta australiana purtroppo non gli arriderà più e l’obbligherà a tornare a lavorare con Helgeland, il regista che l’aveva portato al successo la prima volta. Si riuniscono sul set di un film infelice, The Order (2003), un horror senza nerbo, dove anche Heath, stavolta davvero ingabbiato come una tigre drogata e sedata, non riesce a prendersi le libertà necessarie per consegnare alla storia anche questo ruolo. Una svolta è necessaria.

Così, a questo horror posticcio, seguiranno una serie di film d’autore, più o meno di cassetta, che segnano la seconda e decisiva svolta di Ledger-attore. Arriva Lords of Dogtown (2005), diretto da Catherine Hardwicke e con un biondissimo Emile Hirsch. Segue il primo dei due film girati con Terry Gilliam al timone, ovvero The Brothers Grimm (2005) e Brokeback Mountain (2005) che lo immortalerà per sempre nei nostri cuori. Sulla scia del grande successo del film diretto da Ang Lee, Heath Ledger parteciperà a una nuova grossa produzione, il Casanova di Lasse Hallström (2005), dove nonostante l’insipidità di una regia di maniera, Ledger riesce a creare un personaggio brillante, finanche comico, romantico e postmoderno nel tratteggio del seduttore compulsivo. Con l’incarnazione di Giacomo Casanova dà vita ad un’icona della leggerezza e dell’edonismo maschile che tende al femminile, in quanto suddito del gentil sesso. Film leggero sì, ma non privo di spunti importanti per continuare nella definizione di ruoli scomodi, lontani dalla morale dominante e in netto contrasto con le logiche dell’impero occidentale. Dio, Patria e Famiglia non sono li stendardi né di Casanova né di altri ruoli-simbolo di Ledger.

Nel 2006 invece, sceglie di girare un piccolo film australiano, Candy, che da noi diventa Paradiso+Inferno. É l’occasione per rivederlo nei panni scomodi di un ragazzo in piena autodistruzione che accompagnato dalla bellissima Sugar Man di Sixto Rodriguez ci inclina i cuori nuovamente dopo il celebre Ennis Del Mar. L’anno successivo si ripeterà con il Robbie di I’m Not There il biopic su Bob Dylan diretto nel 2007 da Tom Haynes di cui Ledger interpreta, dopo la grandiosa Cate Blanchett premiata a Venezia con la Coppa Volpi, la miglior versione dei tanti Dylan portati sullo schermo dall’autore in un unico, visionario, impressionista, difficile ed emozionante film. Il suo è un Dylan scontroso, autodistruttivo, che prende a pugni la vita ed ogni cosa bella che essa tenta di regalargli. É il Dylan della crisi famigliare. Duro, secco, rozzo, cinico. Il suo è un Dylan che si cerca e si lascia: lo dimostra il gioco di sovrapposizioni che vede Ledger interpretare Dylan nei panni di Robbie che interpreta Jack Rollins, ex-Dylan interpretato da Bale. Tutto, insomma, si confonde e si sovrappone, e il nostro attore australiano è parte di questo mondo frammentato, esemplare, di uomini frammentari e confusi.

Così, nell’arco di tre anni, Heath Ledger dà anima e corpo a tre personaggi che non possono non entrarci nella pelle e che anche volendo, da questa pelle non possono più uscirne. Ned Kelly, Ennis Del Mar e il Dan di Candy sono i fratelli maggiori del Jimmy di Two Hands, del Sonny Grotowski di Monster’s Ball, ma anche del Sir. William Thatcher de Il Destino di Un Cavaliere. Benché personaggi nati dopo, sono fratelli maggiori, interpretazioni mature, anche se non propriamente sobrie. L’uomo-Ledger non rinuncia alla provocazione, non rinuncia alle prese di posizione e decide per i suoi personaggi quello che avrebbe deciso per sé. Il suo Ned Kelly, protagonista di un film entusiasmante che la critica non ha saputo leggere formalmente, è uno dei suoi ruoli migliori, più sentiti e sofferti. Non solo simbolo di un martirio politico che è anche martirio attoriale per l’interprete, ma anche ritorno consapevole ad una terra, la sua, l’Australia, che andava riconosciuta come culla natia. Portato sullo schermo anche da Mick Jagger, Ned Kelly è l’equivalente australiano di Jesse James e Billy the Kid. Dei cugini americani condivide la lingua e il sostrato culturale britannico, ma è un bandito nuovo, più politico. Non poteva che essere Heath Ledger a reincarnarlo sul grande schermo.

Nel film di Terry Gilliam invece, fa giusto da spalla a Matt Damon, ma non è affatto difficile vedere nella sua interpretazione brillante e goffa, tutta la passione di Heath per gli outsiders, quei personaggi che non fanno parte dell’ordine prestabilito delle cose, ma che infuriano su strade parallele e solo a volte tangenti alla strada maestra dettata dalla cultura dominante. Gilliam, un po’ imbrigliato nella grande produzione hollywoodiana, è meno visionario del solito, ma sa cosa fare e sa come usare i suoi attori. Certo, il Jacob Grimm di Ledger non è un personaggio che si fa segno di intenzioni autoriali profonde come l’attore ci aveva abituato, ma partecipando a Brokeback Mountain, nei panni di Ennis del Mar, Ledger finalmente trova la sua beatitudine consacrandosi attore irraggiungibile.

La gigantesca prova attoriale di Heath Ledger, come quella dell’amico Jake Gyllenhaal, altro attore di punta di questa generazione finsecolare, trascende l’identità sessuale e gli schemi borghesi della partecipazione emotiva, per diventare unico segno di un unico sentimento umano, etico, naturale, panico. La rudezza del suo personaggio si scontra con la dolcezza del suo amore per Jack Twist. Il distacco con cui vive la loro storia d’amore si scontra con la passione che il suo corpo avverte e non può frenare. Se il Jack Twist di Jake Gyllenhaal è il più consapevole dei due, quello più pronto ad ammettere il loro amore agli occhi del mondo, quindi un personaggio già evoluto, l’Ennis Del Mar di Ledger è in piena evoluzione, è magmatico, può prendere tutte le forme possibili, e anche sul finale non è ancora evoluto, non è ancora fatto, non è ancora chiuso e inverosimilmente non lo sarà mai. È la potenza e la capacità di Ledger di avvertire le corde emotive del suo personaggio. In linea con la scuola di Strasberg, Ledger fa dell’immedesimazione il suo primo percorso artistico per approcciarsi al personaggio. Forse, l’ombra dell’introspezione esasperata, l’ombra del Joker, era già covava dentro di lui e aspettava la “maschera” giusta per esibirsi al mondo. Scendere nell’animo di Ennis, come in tanti altri suoi personaggi, ha permesso a Ledger di individuare il segreto dei rapporti e dei legami, di individuare fisicamente la separazione tra Verità e Menzogna. Il suo «Tu non puoi capire», tuonato da Ennis alla moglie, l’attrice Michelle Williams, compagna di Ledger e madre della sua unica figlia, è il monito più umano e al tempo stesso più animalesco e istintuale di un uomo che ha messo da parte l’ipocrisia del suo mondo e s’è riscoperto vero. Con ogni probabilità è il ruolo con cui, insieme al futuro Joker di Christopher Nolan in The Dark Knight (2008), Heath Ledger ha meglio contribuito alla definizione dell’uomo moderno, oltre che alla definizione dello scomodo se stesso che ognuno di noi porta dentro di sé.

Con il suo personale Joker, villain storico dell’immaginario batmaniano, Heath Ledger approfondisce il suo approccio alla decostruzione dell’uomo sano e rigoroso, severo e morale, con cui aveva con tanta cura operato lungo la sua carriera. Un attore ama sempre i suoi personaggi, anche i più alimentari. Anche le carogne e i cattivi più crudeli sono personaggi che si lasciano amare. Heath, nella sua breve vita, era sicuramente incappato in qualche buco, in qualche fosso oscuro, come può capitare a tutti. Questo non giustifica le malelingue all’indomani della sua morte, come la maledizione del Joker, né tantomeno le accuse di quei criminali fanatici religiosi che hanno visto nella sua morte la giusta punizione divina per aver interpretato un personaggio gay. Il mondo è corrotto, e Ledger ha preso questo mondo e lo ha incarnato tutto con il suo Joker. Il re del caos, principe di un disegno altro, non necessariamente cattivo, ma semplicemente “opposto”, “contrario”, “altro”, il suo Joker entra in scena tutto sbavato, sbrindellato, goffo, stanco e maledettamente potente. La sua malattia è potere. Mentre agli occhi dell’uomo comune e timorato di dio, la malattia dell’anima è motivo di orrore, sofferenza ed inferiorità perché lontana dall’amore di dio e dalla santità del corpo, in Ledger la malattia diventa potere, attrazione, bomba ad orologeria che deflagra i pilastri della morale comune ed insinua un mondo diverso, pervertito, cambiato di segno. Non è un progetto: il mondo che auspica il Joker è il mondo che stiamo vivendo, solo che chi comanda ce lo mostra dietro filtri televisivi che non ci fanno distinguere la Verità, ma che perpetuano la Menzogna. Ecco che la “maschera” del Joker libera questi impedimenti visivi e ci mostra l’orrore della nostra società, del mondo che i nostri padri e i nostri hanno creato per il solo scopo di guadagnare e sopravvivere. La “maschera” libera anche la libido autoriale di Ledger che gode di sé. Sa di essere il più grande di tutti; sa che lì in quella stanza vetrata, con l’uomo pipistrello, è lui che sta facendo la storia; è lui che sta scardinando le regole, sgrammaticando il linguaggio. Dopo di lui nessuno più parlerà la stessa lingua. Lo vediamo penzolare a testa in giù come la carta dell’Appeso dei tarocchi che nel linguaggio delle carte rappresenta una situazione non ben definita, “appesa” per l'appunto, pendente. Si è soliti interpretare questa carta come l’invito o la predestinazione ad un sacrificio difficile ma necessario. Che il Joker sia un angelo caduto sulla terra per cambiare la corruzione del mondo meglio che i preposti alla giustizia e alla guardia morale, come la polizia, i governi, le chiese e lo stesso Batman?

Nonostante il dichiarato approccio immedesimativo di Ledger al Joker, non possiamo negare come sia fondamentale il contributo imitativo della “maschera” e del gesto attoriale di cui Ledger è maestro e artista. Si ripetono infatti, gesti particolari, come l’uso della lama retrattile o come quel suo continuo leccarsi la cicatrice della bocca. In gergo si dice che l’attore “sottolinea” il gesto, ed è un chiaro procedimento della scuola imitativa e non del metodo Stanislavski. Ma la recitazione non è una scienza, non è una matematica, e non possono esistere metodi puri di recitazione, ma solo spuri, ibridi. Così, a fine film, parafrasando il «Why so serious?» che Joker insinua al Cavaliere Nero, possiamo davvero chiederci anche noi «Why so Ledger?», “Perchè così Ledger?”. Il nome dell’attore diventa così aggettivo che significa grande capacità artistica nel tratteggio degli outsider, dei loser, l’uomo-altro che si divincola dalla regola. «Why so Ledger?», proprio a chiederci perché questi suoi personaggi, compreso il giullare dal viso deforme, siano così unici, personali ed irripetibili, ma allo stesso tempo codificanti un unico tipo universale, l’Irregolare alle meccaniche del mondo.

Heath Ledger ci lascia la notte del 22 gennaio del 2008 nel suo loft a Soho, Manhattan. Se ne sono dette tante. Dalla confusione dei primi soccorsi all’ipotesi di suicidio o di fatalismo, dall’incubo del Joker che lo perseguitava, alla più plausibile lontananza forzata dalla figlia Matilda. Si sa solo che Heath assunse una mix letale di oxycodone, alprazolam, temazepan e altri antidepressivi di cui non aveva mai fatto mistero. In quel periodo stava lavorando al nuovo film di Terry Gilliam, The Imaginarium of Doctor Parsassus (2009), una storia bizzarra e grottesca con cui Ledger ritornava a vestire i panni brillanti di una simpatica canaglia, scapestrata e affascinante, romantica e infine anche decadente. Dopo il folle pagliaccio assassino ecco il buffo Pierrot dalla lacrima facile. Un ruolo che Ledger ha interpretato consapevole della sua depressione dovuta alla lontananza dalla figlia e dal sogno di una famiglia, in cui concentra frullando tra loro tensioni di giubilo e di sconforto. Un personaggio in sgretolamento che Ledger ha saputo rendere con eccezionale trasporto, modellandolo sul proprio contemporaneo vissuto.

Sostituito con un’intelligente escamotage narrativo da Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrel, in The Imaginarium of Doctor Parnassus Heath Ledger saluta il suo pubblico sfuggendo alle leggi della fisica. Sparisce di colpo e basta. Nessuna sfumatura, nessuna dissolvenza. Semplicemente non c’è più, non lo rivediamo più; di lui rivediamo solo degli avatar decenti e generosi, ma non lui. Non più, fino alla fine.

Heath Ledger è stato la punta di diamanta della sua generazione. L’attore di riferimento di tutti i suoi colleghi. La sua assenza si fa sentire. Non solo avremmo avuto un ottimo attore che ci avrebbe regalato ottime performance e personaggi indimenticabili, ma avremmo quasi sicuramente avuto un grande regista, con un occhio diverso, alternativo, marginale, come i video da lui dedicati a Ben Harper e a Nick Drake, cantautore inglese morto a 26 anni nel 1974 per una overdose di antidepressivi. Sicuramente, la sua sensibilità e la sua resa performativa non ci avrebbero mai deluso. Purtroppo non c’è più. Gli anni passano, molti attori arrivano, altri si confermano ottimi professionisti, qualcun altro si perde. In questa confusione, l’attore simbolo del cambio di secolo, resta una solida figura attoriale di cui il nostro immaginario, almeno per i Twentieth-century addicted, resterà sempre debitore.

 

Abbiategrasso, domenica 7 settembre 2008

Rivisto: 20 gennaio 2016

 

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