Piton: Quindi quando arriva il momento, il ragazzo deve morire?
Silente: Sì, sì, deve morire.
Piton: Lo ha tenuto in vita perché muoia al momento opportuno! Lo ha allevato come una bestia da macello!
Silente: Non dirmi ora, che ti sei affezionato al ragazzo!
Piton: Expecto Patronum!
Silente: Lily! Dopo tutto questo tempo?
Piton: Sempre.
Il grande romanzo di formazione della mia generazione, la saga che ha forse maggiormente segnato il nostro immaginario adolescenziale, gli anni zero del risveglio della magia. Se c’è un mondo in cui, volenti o nolenti, noi degli anni novanta prima o poi ci siamo ritrovati, quello è Hogwarts, la scuola di Harry Potter. Ne abbiamo saccheggiato il linguaggio (babbani, dissennatori, mezzosangue), abbiamo invocato incantesimi nel bel mezzo delle più terrene conversazioni (“Avada Kedavra!” per annichilire gli avversari in disonesta singolar tenzone) e sognato i poteri del maghetto (il mantello dell’invisibilità), soprannominato coi nomi dei personaggi i nostri amici e i nostri professori.
Tutti abbiamo avuto a che fare con un Severus Piton, il professore cupo, diffidente, inflessibile, forse cattivo al servizio di Voldemort: insomma, il nostro insegnante più stronzo era non troppo inconsciamente identificato con Piton. Poi è accaduto qualcosa di imprevedibile, nell’epilogo della storia: ne comprendemmo la statura morale, la tragicità, il dolore che muove ogni cosa. Piton va a morire al cospetto dell’oscuro signore, il Voldemort nemesi di Potter, ed improvvisamente diventa uno dei nostri, un ferito a morte che non esibisce la cicatrice sulla fronte ma coltiva la straziante necessità di annettersi al male per garantire il bene. Un personaggio immenso che, nella sua versione cinematografica, ha trovato un interprete gigantesco.
Con la scomparsa di Alan Rickman, la rinomata scuola inglese della recitazione perde uno dei suoi più luminosi esponenti. Talento multiforme, capace di passare dalla tenebrosa severità dimostrata nel popolare blockbuster alla soave leggerezza della sua ultima regia (Le regole del caos, in cui sfoggia il parruccone di Luigi XIV), Rickman vantava al suo attivo una serie di bellissime performance che ne esaltavano l’eclettismo. Se Anthony Minghella gli regala un memorabile ruolo nel complesso melodramma fantasy Il fantasma innamorato, è nella commedia romantica che si ritaglia uno spazio come cognato di Emma Thompson in Ragione e sentimento, dove sposa Kate Winslet dopo lunghe e tribolate traversie, di cui diventa marito distratto ed infedele in Love Actually. Con l’attrice il sodalizio si consolida nell’opera prima di Rickman, il placido e delizioso L’ospite d’inverno, in cui recita anche la madre di lei, Phyllida Law.
Accanto ad altri ruoli pregevoli (è il capo della campagna elettorale di Bob Roberts e il futuro presidente dell’Irlanda Eamon De Valera in Michael Collins), resta però nella memoria il suo impegno tra i cattivi: il notevole Hans Gruber, elegante e spregevole villain del primo Die Hard, Trappola di cristallo, lo sceriffo di Nottingham che combatte l’odiato Robin Hood – Principe dei ladri, il crudele e squallido giudice Turpin nel musical Sweeney Todd. Un attore grandissimo, la cui imperitura memoria sarà certo legata al suo ruolo più iconico, ma così bravo da non esserne mai imprigionato.
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