"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
Il 5 gennaio 2016, ovvero ieri sera, ore 20,30, in molte sale di Francia si è tenuta l'anteprima dell'ultimo attesissimo film di Quentin Tarantino, che dopo Django Unchained si ferma in territorio western, contaminandolo e sporcandolo, ovvero arricchendolo con gli spunti "pulp" che da sempre gli appartengono. Noi italiani, dalle sale ricolme ed occupatissime dal fenomeno Zalone (e con questo glisso senza indugio su ogni polemica, utile od inutile, o giudizio improvvisato sul film, che comunque vedrò e su cui mi esprimerò non appena ne sarò in grado) che imperversa egemone dai primi minuti di questo nuovo 2016, non troviamo spazio per accogliere tali ghiotte ed imperdibili perle cinefile, costretti ad attendere che la bolla si sgonfi (prima o poi accadrà fisiologicamente) e che la pirateria si organizzi per bene, compromettendo i risultati al botteghino e costringendo chi vi si fa catturare a vedere, certamente a sbafo, il suo gran film, a sopportare condizioni di visione a dir poco riprovevoli, indegne della qualità intrinseca dell'opera.
Ma non c'è spazio qui dentro solo per Tarantino, seppur sia inevitabile che il suo film attragga l'attenzione più di ogni altro, per fama, ma pure per innegabili meriti intrinseci: qua e là per le sale francesi appaiono o sono apparsi di recente piccoli validi film, circolati dapprima nei vari festival internazionali, magari da me persi in quelle circostanze, ma recuperati qui grazie alla lungimiranza di una programmazione che non dimentica nulla e lascia molto spazio anche per il cinema meno di massa.
Segnalo anche che Mia Madre di Nanni Moretti (rimasto non tradotto identico al titolo italiano) è nelle sale francesi da oltre un mese, e, stando a quanto vedo, più che alle classifiche ufficiali, riesce sempre a riempire le sale: è bello e fa pure inorgoglire sentire i francesi che inciampano sulla "erre" di "madre" nel pronunciare il titolo italiano quando accedono alla cassa per acquistare il biglietto. Buona lettura.
THE HATEFUL EIGHT
"Nessuno arriva qui senza una dannata buona ragione"...suggerisce un manifesto (alternativo?) del film.
Tra le distese innevate dello Wyoming, dopo che la musica appropriata ed emozionante di Ennio Morricone (sempre magico e da brividi) introduce titoli di testa gialli ed un pò rozzi alla maniera del western più classico, una carrozza con sei cavalli si dirige verso la cittadina di Red Rock: su di essa un cacciatore di taglie, John Ruth, sta trasportando una fuorilegge di nome Daisy Domergue, per intascare la taglia che pende sulla sua testa, pari a 10 mila dollari.
Sul cammino, la carovana si imbatte in un cacciatore di taglie nero, ex ufficiale Marquis Warren, decorato e lodato addirittura da Lincoln, ora divenuto pure lui cacciatore di anime, che siede a cavalcioni di tre cadaveri in cerca di un passaggio. Assieme ad un altro tipo piuttosto singolare e laido, che riferisce di essere il nuovo sceriffo della contea di destinazione del gruppo, il gruppo viene colto da una bufera di neve e costretto a rifugiarsi presso una locanda gestita da tre donne, inspiegabilmente assenti. Al loro posto, il gruppo trova alcuni altri uomini, mai visti prima, come loro intenzionati a restare al riparo per almeno tutta la notte da quella tempesta di gelo che si sta abbattendo tutto attorno.
Ma se John Ruth chiarisce subito che la sua preda non è spartibile con altri contendenti, piano piano le verità sulle identità dei soggetti presenti vengono a galla, e così pure le intenzioni di sopravvivenza che si fanno strada tra gli ospiti, tutti presi a superare quella terribile notte prima che la carneficina abbia inizio.
Uscito nelle sale francesi il 5 gennaio, The Hateful Eight è uno splendido western contaminato di parole ed avvenimenti concentrici, di generi cinematografici che se ne impadroniscono avidamente, imbastardendolo ma rendendolo più forte e potente; di intrighi sanguinolenti utili a ribadire col sarcasmo che ben conosciamo nell'Autore (la A maiuscola è d'obbligo), l'ipocrisia giustizialista della società americana degli albori.
The Hateful Eight necessita tempo per maturare dentro ognuno di noi spettatori e richiede, sempre da parte di noi spettatori, la pazienza di saper ascoltare e concentrarci almeno per una prima ora, onde poter inquadrare, almeno genericamente, la situazione di partenza e godersi di filato tutta la attanagliante seconda parte: in seguito infatti il regista, grazie a flash back esplicativi e altamente funzionali, si preoccupa fino all'ossessione di far quadrare tutto e man mano che l'azione prende il sopravvento sulla parola, man mano che alle vedute e agli spazi aperti subentra la claustrofobica e soffocante limitatezza dello spazio chiuso, teatro di un regolamento dei conti senza precedenti, il film a quel punto potrebbe per noi spettatori, letteralmente avvinti dall'azione, non finire davvero più.
E le quasi tre ora di spettacolo corrono via filate, mentre immedesimati e sconvolti, ci dirigiamo fino al regolamento dei conti che ci fa entrare in una struttura ellitica ad eliminazione in stile Agatha Christie ed i suoi 10 piccoli indiani: "e poi non ne rimase più nessuno" non è una frase fatta, ma una conseguenza pertinente, prevedibile, ma mai, e poi mai, da dare per scontata.
Un cast di nomi noti per il grande regista (Samulel L. Jackson su tutti, ma pure Kurt Russel, Michel Madsen e Tim Roth sono recidivi e grandiosi; tra le new entry, Walton Goggins, sorriso volgare e sguaiato, tutto denti aguzzi e ferini e bocca impastata, dovrebbe aggiudicarsi almeno una nomination come miglior attore non protagonista, mentre la grandissima (ma già lo sapevamo da decenni) Jennifer Jason Leigh non solo merita la nomination, ma la statuetta per lei quest'anno è d'obbligo, senza nessuna scusante od attenuante di sorta. Pesta di botte, occhio nero, denti marci e/o spaccati dai colpi ricevuti dal suo aguzzino, la donna sfodera una grinta ed una capacità di pianificazione che sa di diabolico e che la rende, a tutti gli effetti, molto meno vittima di quanto umanamente potrebbe apparire. Notevole pure il gran vecchio Bruce Dern, mentre una star comeChanning Tatum accetta un ruolo fondamentale, ma di fatto minore, pur di rientrare a far parte del cast di un grandissimo film e tra le fila di uno dei migliori registi degli ultimi decenni.
Tarantino, come noto e pubblicamente dichiarato già nei titoli di testa, giunto ora alla sua ottava opera cinematografica, si dimostra ancora una volta, e ben meglio che nel pur valido Django, oltre che ottimo regista, anche abile e astuto sceneggiatore, in grado di giocare sull'intrigo, rielaborarlo, spianare tutte le verità solo in apparenza nascoste o tenute in disparte; rielaborando lo script e prendendosi il tempo necessario per far decollare l'azione, che trasforma il western classico in un vero e proprio horror venato di ironia e malizia, le stesse qualità gestita alle qui alla perfezione come non le si ricordava dai tempi di Pulp Fiction.
Anche qui come allora, dove il povero Bruce Willis incappava in un maniaco sessuale dalle spiccate tendenze sado-omosex, in un paio di situazioni "pazzesche", si ripropone la medesima tematica: da una parte come ennesima variante della brutalità che appare innata ed impossibile da sradicare dall'indole umana, dall'altra, verso la fine, come esilarante variazione, eretica, irriverente, proprio per i toni farseschi in chiave velatamente (ma nemmeno troppo) omoerotica, di un rapporto epistolare votato all'apprezzamento tra il più celebre e celebrato degli americani di quell'epoca, ed il nostro devastato superstite, ex eroe di guerra ora dedito per fini di lucro alla bassa macelleria.
VOTO *****
FESTIVAL DI LOCARNO – CONCORSO CINEASTI DEL PRESENTE
Si fa presto a dire “polar”! L’incontro, apparentemente casuale, su una terrazza panoramica in una notte parigina, durante una festa, tra uno scrittore in disarmo ora quarantenne, di successo quando scrisse la sua opera d’esordio almeno dieci anni prima, ed un mellifluo quanto abile portaborse al soldo di un ministro della repubblica finito pure lui a debito di consensi, assume in effetti, con tempistiche non proprio rapide, ma certo necessarie affinché l’intreccio narrativo possa svilupparsi, i connotati di un complotto fantapolitico dai tratti almeno vagamente appassionanti.
Lo scrittore, demotivato ed a corto di soldi, accetta, senza porsi troppe domande, la proposta avanzata dal misterioso individuo di scrivere, sotto pseudonimo di fantasia, un romanzo destinato a suscitare scandalo: una storia inneggiante ai movimenti semi-clandestini dell’estrema sinistra, mirata a suscitare pubblica disapprovazione e costruita ad arte allo scopo di danneggiare la reputazione e la credibilità di un ministro avversario di quello per cui lavora il portaborse, ma attualmente molto più in vista e beneficiario di consensi.
Il gioco riesce così bene che il libro scala subito le vette delle classifiche, ma costringe pure il nostro scrittore, la cui ex compagna militava un tempo nella sinistra più estrema, a rifugiarsi all’interno di una comune in cui vivono e lavorano giovani appartenenti proprio a quella corrente che lui stesso sta contribuendo ad affossare, seppur da mercenario e sotto mentite spoglie.
Quando tuttavia il complotto viene scoperto, il primo a dover scappare è proprio il mellifluo machiavellico funzionario che ha architettato tutto, e di conseguenza pure il nostro scrittore è costretto a darsi alla macchia, riuscendo a scappare fortunosamente dalla comunità e a trovar rifugio in Inghilterra.
Ma la fuga di entrambi è destinata a venir presto scoperta, con conseguenze, almeno in parte, letali e cruente.
Melvil Poupaud e André Dussolier, validi come quasi sempre accade quando capita di imbattercisi, costituiscono una coppia ben assortita, ma il film, dopo un inizio tutto trame fosche e loschi ingaggi a tratti intrigante, si perde in una rappresentazione statica e troppo teorica, quasi sessantottina e dunque poco efficace o credibile, delle ideologie che animano la vita all’interno della comune; sensazione che si acuisce ed aggrava con lo svilupparsi di una attrazione e quindi di una storia d’amore, un po’ inevitabile, ma anche un po’ tanto forzata e romanzata, tra lo scrittore ed una avvenente ragazza leader del movimento (Clemence Poesy): intrusioni che smorzano la tensione da polar che si era tentato con un certo successo di costruire nella lodevole prima parte, e che risultano posticce e troppo teoriche per potersi alternare ad un finale nuovamente movimentato ed inutilmente risolutivo.
VOTO **1/2
Hector ha da tempo abbandonato il sentiero della ordinaria vita suddivisa tra famiglia e lavoro, e sopravvive della carità altrui e del ricovero offerto da centri di accoglienza, trascorrendo tutta la giornata per le strade, a vagare con la sua stampella e la sua accentuata claudicanza in cerca di un sostegno: senza chiedere la carità, ma accettando ciò che la società offre in termini di generi di sostentamento, locali ove ripulirsi e riscaldarsi dal gelo delle fredde arterie automobilistiche che collegano il paese.
Lo seguiamo in particolare mentre intraprende l’abituale viaggio verso la capitale inglese, per partecipare alla solita festa di Natale in un centro di accoglienza ove ritrovare il calore di una famiglia di amici di vecchia data.
Si perché Hector ha tagliato i ponti con la sua famiglia da tempo, scegliendo scientemente la vita da “senza-fissa-dimora” per rifuggire ad un passato che si vuole dimenticare.
E anche quando il passato, sotto forma dei suoi due fratelli, tenterà di tornare a riacciuffarlo, l’uomo proseguirà dritto per la sua strada, nonostante le difficoltà, il freddo, gli acciacchi sempre più problematici di un fisico che comincia progressivamente a cedere.
Jake Gavin esordisce alla regia con un film sulla emarginazione che mantiene lucidità e non si piange addosso. Certo con un attore dell’espressività ed il carisma di Peter Mullan è possibile anche non far nulla di fondamentale, a livello di regia e direzione, per renderci comunque interessante e vivace lo spettacolo: l’attore si muove dondolandosi sulle stampelle, incespicando con passo incerto ma anche deciso e risoluto, e vive, soffre, si lamenta, gioisce e si arrabbia con una classe che solo un grande interprete potrebbe affrontare con la medesima classe e credibilità.
Di fatto il film si lascia seguire, ma non cavalca grandi linee narrative o storie incalzanti che ci restituiscono l’attore come parte integrante di un insieme di contributi nettamente positivi (sto pensando a validissimi altri film visti di recente con Mullan tipo Sunset Song, Tirannosauro, The liability, Boy A): il grande interprete, protetto col suo giubbino catadiottrico e fosforescente, di fatto fagocita la pellicola divenendo la circostanza essenziale e necessaria per fornire al film la sua vera ed autentica ragione/spiegazione di esistenza: ben venga pertanto la sua indispensabile presenza all’interno di un cast corretto e volonteroso, ma decisamente sottotono rispetto al carisma del grande scozzese.
VOTO ***
FESTIVAL DI CANNES 2016 - QUINZAINE DES REALISATEURS
La Francia delle praterie e degli allevamenti ha un qualcosa che ci ricorda il Far West e i cowboys: ancor di più se la gente locale ama le atmosfere e la musica country, e ancor di più radunarsi in feste dal sapore ruvido e caloroso del vero country, con tanto di musica e balli adeguati a quello che è un vero e proprio stile di vita, o addirittura una cultura.
Dirante una di queste feste o sagre di paese in stile Far West, una ragazza scompare da un momento all'altro lasciando nel sdolore e nell'anzia e genitori ed il fratello èiù piccolo.
Siamo nel 1994. Il padre non si dà pace, e scopre che la ragazza potrebbe essere fuggita con un coetaneo musulmano di idee reazionarie vicine ai movimenti più reazionari e pericolosi, che tramano azioni vendicative contro l'Occidente ed i suoi infausti influssi tentatori e blasfemi.
Quando una disgrazia si porta via il padre, rimarrà al figlio, ormai cresciuto e quasi un uomo, cercare di trovare le tracce della sorella. Intanto l'11 settembre ed altri gravissimi attentati spingono verso una guerra vera e propria le tensioni tra il mondo occidentale e quello orientale. Alain diviene volontario nella croce rossa in Pakistan e lo fa soprattutto per trovar pace nel suo cuore e ritrovare e salvare la sorella.
Per lui l'inizio di una odissea in cui rischierà molto, ma che gli permetterà di trovare, se non la sorella, una situazione favorevole per una svolta verso un nuovo nucleo familiare.
L'esordio nel lungo di Thomas Bidegain, salutato con molto favore al Festival di Cannes, rischia molto introducendo personaggi e situazioni che si accumulano e mettendo sul fuoco troppa carne, col rischio che si bruci.
Tuttavia la sceneggiatura, modulata con una certa oculatezza, riesce a prendersi il suo tempo per chiarire e raccontarci una odissea familiare che sfocia nel conflitto razziale e con sfaccettature ardite che vanno dalla discriminazione, al terrorismo che ci coltiviamo a casa: argomenti scomodi, scottanti e spinosi che, pur affastellati tra di loro rivelano ognuno una propria compiutezza fino ad avviare la vicenda verso un finale coerente e lucido: magari a tratti poco probabile e romanzato, ma emotivamente molto efficace.
Ottimi sia il noto attore Francois Damiens, in un altro ruolo di padre, (visto, tra gli ultimi, ne La famille Beliers e Dio esiste e vive a Bruxelles) e il giovane Finnegan Oldfield, (The Wakhan front) bello sguardo che comunica decisione ed intraprendenza.
John C. Reilly in un ruolo di laido approfittatore, appare in uno dei suoi sempre più frequenti camei in produzioni europee, e la sua fisionomia risulta pertinente in ogni circostanza, buono o cattivo, bizzarro e normale che sia il personaggio di cui si impossessa.
VOTO ****
Film d'esordio al cinema per la svedese Sanna Lenken, e vincitore di diversi premi, tra cui L'Orso di Cristallo-Premio del Pubblico alla Berlinale 2015, My Skinny sister, ovvero "Mia sorella pelle ed ossa", scandisce con una certa cura il ritratto familiare di due sorelle alle prese con i rispettivi problemi legati alla crescita e al compimento dei rispettivi obiettivi: problematiche magari sotto gli occhi di tutti, evidenti ma decisamente meno gravi, ed altre più strategicamente celane che possono rivelarsi davvero pericolose e problematiche. Stella è una bambina grassottella di buon carattere, che vive con passione, ma anche con un senso di malinconica incapacità a rassegnarsi alla propria inadeguatezza, il successo sportivo che invece contraddistingue la vita della sorella maggiore: bella, aggraziata, molto portata per il pattinaggio artistico, ove spera di sfondare entrando a far parte della squadra nazionale.
Tanto carina, ambiziosa e perfetta l'una, quanto goffa e ingenua l'altra. Se la piccola cerca inutilmente di emulare la sorella iscrivendosi con poco successo ad un corso base di pattinaggio, e cercando di farsi notare dall'avvenente allenatore trentenne della sorella, di cui quest'ultima è invaghita senza remore, l'altra invece nasconde scientemente e con una certa abilità i suoi gravi problemi di alimentazione: una vera e propria anoressia che la spinge a vomitare poco dopo tutto ciò che mangia, e a non accettarsi più rotenendosi sempre troppo grassa.
Stella, la piccola, scopre tutto, ma deve decidere se tradire la promessa-ricatto sottopostale dalla sorella, o invece tenere tutto per sé quel segreto che sta mettendo a repentaglio la vita della sorella.
Il film parte bene, spigliato e deciso nel raccontare il sentimento di ineguatezza che avvolge Stella man mano che la sorella si avvia verso una carriera colma di soddisfazioni e riconoscimenti: una sorta di nuova Abigail Breslin de Little Miss Sunshine, riveduto e corretto in terra svedese ed in ambito agonistico-sportivo.
Poi la vicenda vira verso la malattia vera, quella celata dalla sorella maggiore, e qui la pellicola cede inevitabilmente tono e stile verso il più scontato filone del dramma familiare.
Nel complesso il film tuttavia è apprezzabile e mette in evidenza una interessante cineasta, che sarà interessante seguire nel futuro.
La vita di Monsieur Sim si è adagiata verso una neutralità che lo rende inflessibile ed apatico ad ogni iniziativa e occasione.
Vicino alla sessantina, senza un vero lavoro, essendo stato licenziato; senza una famiglia, essendo stato lasciato dalla moglie; senza un vero interesse, avendo perso la fiducia in se stesso, l'uomo acchiappa al volo l'occasione di divenire rappresentante di una nuova gamma di spazzolini da denti, per intraprendere un viaggio alla riscoperta del proprio passato.
Un viaggio che segna come una rinascita e che parte dai capisaldi del passato (una ex amante, il padre, la figlia) per tentare di riscrearsi un appiglio per un futuro da vivere veramente.
Nel contempo l'uomo ha modo di venire a contatto con scoperte o verità piuttosto importanti, quelle che egli, di indole superficiale, non ha mai potuto approfondire o di cui non si è reso conto: molte, o almeno alcune delle quali, avrebbero potuto indurlo a cambiare e ad appassionarlo di più nei confronti di un'esistenza in tal modo piuttosto grigia e piatta, senza apparenti motivazioni di sorta.
Tutto qui, certo, nulla di travolgente o nuovo in effetti, ma con Jean-Pierre Bacri nel ruolo del protagonista, le sfumature che compongono il ritratto di un personaggio amorevolmente banale, divengono un'occasione fantastica per il grande attore per renderlo l'individuo più sfaccettato e ricco di quanto apparentemente non si èpotrebbe immaginare.
Alla sua terza opera cinematografica, Michel Leclerc realizza una interessante, ironica riflessione sulle occasioni mancate di una vita, sul tentativo anche tardivo di recuperare quei piccoli particolari, quelle lievi sfumature che hanno reso le persone a noi care o vicine ben più umane e dense di personalità di quanto mai ci potessimo persuadere semplicemente lasciandoci vivere. Non senza rinunciare ad un umorismo che si vela di nero fino ad addolcirsi quando lo studio dei personaggi si perde nei segreti del passato o va a sondare caratteri, comportamenti e abitudini relazionali di personaggi anche minori che compongono questo tassello di vite concatenate le une alle altre in modo casuale ma non senza un senso compiuto.
Affiancano il grande attore Bacri, anche in poco più che camei, attori importanti come Mathieu Amalric, la nostra (radiosa ed in forma smagliante) Valeria Golino, il giovane e lanciatissimoVincent Lacoste e l'altrettanto promettente Felix Moati.
VOTO ***
FESTIVAL DI VENEZIA 2015 - ORIZZONTI
Mumbai anno 2008: una famiglia anglo-francese (padre francese, madre inglese o americana) accetta di stabilirsi per due anni nella metropoli indiana ove il capofamiglia andrà a ricoprire un importante ruolo dirigenziale non ben specificato. Pertanto la figlia diciottenne Louise accetta di seguire i genitori e si predispone ad una nuova vita in un nuovo mondo, dove non conosce nessuno.
Arrivati in loco, l'azienda del padre offre loro alloggio, in attesa della sistemazione definitiva, in una suite del prestigioso hotel Taj Mahal: un alloggio lussuosissimo ed ovattato che si staglia tra la via principale ed il lungomare, dando accesso ad una vista che spazia sul traffico cittadino e si estende verso tramonti ed albe da leggenda.
La vita scorre monotona in quella reggia asettica ove la ragazza, in attesa dell'inizio delle scuole, trova una certa difficoltà ad adattarsi.
Una sera come tante altre, la ragazza sceglie di restare in camera laddove i genitori si preparano per una cena di lavoro. Scelta quanto mai avventata perché proprio in quella serata l'hotel simbolo del lusso in una città ove ricchezza estrema e povertà assoluta convivono apparentemente senza troppo problemi, diverrà oggetto di un feroce attacco terroristico.
Da quel momento le ore che seguiranno saranno cruciali e segneranno il tentativo della giovane di sopravvivere al peggio, in un gioco perverso tra il gatto ed il topo in cui quest'ultimo può solo celarsi e sperare di non essere preso, e di uscirne vivo.
Tra la ragazza ed i genitori, attori impotenti e pietrificati dall'orrore fuori della struttura, solo un filo telefonico che unisce e rende la dinamica dei fatti ancora più febbrile e concitata, oltre che drammatica.
La scelta del regista Nicolas Saada - alla sua opera seconda dopo "Un simple espion", altro film che impiega come questo tutto un suo tempo per ingranare - di restare completamente al di fuori della minaccia vera e propria, senza ricorrere quasi ad alcuna caratterizzazione dell'attentato, nelle sue dinamiche come nei suoi protagonisti, in fondo si rivela una scelta molto meno superficiale ed anzi di fatto originale e coraggiosa, facendo il modo che il film si concentri unicamente sulla tensione e la paura, che si dipingono efficacemente sul volto fresco e "puro" della bella Stacy Martin, di fatto protagonista assoluta del dramma.
Pertanto nulla serve a descriverci la minaccia se non i rumori di fondo, terribili proprio perché incognite inaspettate, e le immagini veloci che l'occhio della protagonista riesce a catturare dallo spioncino della suite ove si è barricata.
Certo il film impiega poco più di un'ora per giungere al suo epilogo, e poi si serve di riempitivi, ripensamenti e rielaborazioni decisamente inutili e necessari solo a riscaldare un pò il brodo: ma la vicenda centrale possiede, nella sua dinamica in crescendo, una sua accurata suspence e una capacità di attrazione ed un realismo che ci mette in condizione di identificarci nel dramma della sfortunata protagonista, come in quello dei suoi comprensibilmente terrorizzati genitori (ma Gina McKee che interpreta la madre è decisamente più ispirata ed espressiva del pur quotato, ma un pò inerme, Luis-Do De Lencquesaing).
Tra i ruoli di contorno, troviamo Alba Rorhwacher nei panni di una sposa in viaggio di nozze, pure lei prigioniera della fortezza dorata in fiamme, e pure lei protagonista di un tentativo di salvataggio in extremis.
VOTO **1/2
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