"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
Ormai prossimi alle festività natalizie - che da sempre appaiono, e quest'anno più che mai, improntate ad un cinema che definire "usa e getta" significa probabilmente gratificarlo - imbattersi in tre autori davvero importanti se non stilisticamente addirittura imponenti, è davvero un toccasana in relazione a quello che ci toccherà vedere (o non vedere) per almeno una decina di giorni.
Trovare poi una sala gremita di spettatori in coda per assistere al terz'ultimo film del filippino Lav Diaz, in occasione di un'anteprima quasi a sorpresa organizzata da una società culturale (CINEMA SANS FRONTIERES) da sempre vicina al cinema degli angoli più remoti del pianeta, fa davvero piacere.
Il rammarrico è che nessuno dei tre film di questi grandi autori è stato possibile (per ora, restiamo ottimisti) vederlo qui da noi, ma è stato necessario trasferirsi all'estero: oltreconfine per l'appunto.
Ecco ciò che è emerso, in base ad una valutazione assolutamente personale (e forse un pò esaltata) da queste visioni appassionate.
Guardare il mondo che ci sta attorno con lo sguardo appassionato e penetrante di Terrence Malick, è un privilegio che sarebbe sufficiente per rendere unica l'esperienza, contemplativa e ascetica, che deriva dalla visione del suo ultimo film.
Un cinema, quello del grande regista americano, che ha ormai da tempo valicato i limiti e i vincoli del tessuto narrativo, della sceneggiatura e del dialogo tradizionali, per relegarsi al livello di pensiero che procede senza una meta prefissata, e che interagisce con l'immmagine potente, quella con cui il regista ci ha abituato a convivere lungo tutte le sue opere: la ripresa mobile e sofisticata in grado di rappresentare il pensiero, e di far vagare la mente in uno spazio libero e senza vincoli come solo la libertà di pensiero ancora sa essere.
Inquadrature potenti e mobili in cui la forza della natura interagisce con le geometrie avveniristiche di un mondo, quello californiano, dove la potenza e la forza del paesaggio, marino, montano o desertico, scendono a patti in modo solidale con i progressi ingegneristici e i virtuosismi architettonici di una civiltà che non sa più comunicarsi le emozioni, ma tecnicamente appare in continua espansione.
Un uomo di cinema, sceneggiatore a corto di ispirazione, vive una sorta di contemplazione nervosa e frenetica, fatta di riprese concitate tutte stacchi potenti e brevissimi da massimo 10 secondi. L'uomo ripercorre, in capitoli che ricordano il gioco dei tarocchi, i propri fallimenti, le sospensioni e le incognite delle relazioni familiari col padre ed il fratello, e con due tra le donne più significative di un percorso sentimentale che in entrambi i casi è ormai solo un ricordo, nostalgico o addirittura amaro.
E intorno la natura nella sua sfolgorante potenza, la sua corsa che ci travolge, la forza del mare o delle scosse telluriche a cui nulla, nemmeno le opere piu' ardite ed avveniristiche possono sottrarsi.
Una natura che sfida e vince le incognite temporali, e che fa da contraltare potente e di carattere alla pochezza e alla fragilità delle relazioni sociali che si consumano attraverso feste e party esclusivi, popolati da stereotipi di banalità e pochezza, vacuità e mono dimensionalita'.
Sulla scia del meraviglioso Tree of life, passando attraverso lo sdolcinato ed inconcludente To the wonder, il percorso mentale di Malick si affina rinunciando ormai completamente al dialogo e dando vita al connubio pensiero+immagine in un accoppiamento potente e molto affascinate.
Bale recita solo apparendo, ma differenza dell'atona fissità di Affleck nel precedente e debole To the wonder, la sua presenza risulta penetrante e di vigore. Blanchett e Portman sono due meteore di una vita ormai lasciatasi dietro che tuttavia possiedono la forza dirompente di non farsi scordare. La vita è anche ciò che è stato, oltre a ciò che potrà, eventualmente, ancora essere.
VOTO ****
FESTIVAL DI CANNES 2013 - UN CERTAIN REGARD
Che stile di regia e di racconto Lav Diaz! In poco più di quattro ore che il cineasta ha il dono di riuscire a far scorrere veloci, il gran regista filippino ci racconta due storie che convergono verso lo stesso misfatto, in un caso solo balzato alla mente per istinto, nel secondo probabilmente premeditato ed infine attuato con deliberata intenzione e crudelta. Due uomini coinvolti, o meglio raggirati dalla stessa persona, e tuttavia sperequatamente trattati da un destino che ne fa restare libero ed impunito il vero ed unico colpevole, mentre conduce ad imprigionato e sottoposto ad un inferno di torture, sofferenze e privazioni, l'innocente,
Fabien è un Intellettuale che vive a Manila e frequenta circoli e persone istruite, uomini di legge e giornalisti.
Joaquim, al contrario, è un onesto padre di famiglia, contadino povero con moglie e due figli piccoli a carico.
Entrambi bisognosi di soldi, i due uomini si rivolgono all'usuraia Magda, opulenta donna di una villaggio che li accontenta senza opporre nessuna obiezione, ma che presto reclama con risoluzione ed intransigenza quanto loro prestato, maggiorato per l'occorrenza dei lauti interessi illegali ed oltre ogni limite umanamente sostenibile.
Entrambi gli uomini reagiscono male all'intolleranza della donna nei loro riguardi, ma mentre Joaquim ha la saggezza di fermarsi in tempo dopo aver aggredito la donna, Fabien, in un istinto omicida e mosso dalla furia e dalla disperazione, accoltella a morte la donna, e pure la figlia adolescente di quest'ultima, rea di essere testimone oculare del tragico omicidio.
Peccato che la gente tutto attorno abbia notato il primo avventarsi sulla donna, mentre il secondo, ovvero l'assassino, sia riuscito a far passare nel silenzio il suo gesto efferato, dileguandosi all'insaputa di ognuno.
Pertanto al padre di famiglia spetterà la galera dura, con tutte le conseguenze dovute al riuscire a farsi accettare in un ambiente dove brutalità e favoritismi aiutano molto a garantire la sopravvivenza; e che getterà quasi alla fame la sua famiglia, costringendo la moglie e star lontano dalla prole tutto il giorno, impegnata a vendere ortaggi col suo carretto di legno tra le vie della città. Al contrario invece l'intellettuale, che, rimasto impunito e libero, continuerà a frequentare i suoi circoli e la società che conta, salvo venir preso da momenti di angoscia ed imbarazzo nel ripensare al suo gesto e all'uomo che sta pagando per quella sua turpe azione. Alternando momenti di lucido pentimento a tentativi maldestri di ripagare il suo debito con azioni e gesti spesso inconsulti o contro producenti.
Il film alterna le storie dei due uomini, per poi concentrarsi sulla famiglia dell'uomo incarcerato: la disperazione di una donna coraggiosa che cerca di resistere attorniata dai suoi bambini, spesso derisi per essere figli di un padre delinquente che tuttavia delinquente non è. E la fede in un futuro migliore che talvolta cede il posto alla diperazione, come quando la donna con i figli si reca sulla roccia più alta delle cime montane attorno al villaggio pensando di farla finita per lei ed i suoi infelici figli senza padre.
Quattro ore di epoea raccontate con uno stile meraviglioso: l'azione, qui molto più frequente che negli altri film di Diaz fino ad ora visti, viene ripresa quasi sempre con la camera fissa, lasciando, quasi per pudore, ma anche moltiplicando la presa emotiva, al non visto ciò che si cela al di fuori del campo visivo coperto da essa.
Quando invece è il pensiero a librarsi libero e veloce, lecco che la camera prende a muoversi veloce e snella, superando ostacoli a volo d'uccello, procedendo spedita lungo spiagge incontaminate e valli rimaste indenni alla civilizzazione seguendo percorsi di grande suggestione visiva ed emozionale. Qua è là sprazzi di poetica genialità e visioni devastanti ed apocalittiche come quella di corpi senza vita sparpagliati lungo il corso di un torrente, vicino ad un focolaio che racchiude la carcassa di un piccolo aeroplano appena caduto. Al suolo, tra i cadaveri, il corpo dell'unico sopravvissuto: un neonato che piange tra la devastazione: disperato, solo ma miracolosamente illeso, quando anche dal cielo inizia a cadere una pioggia fragorosa che trasforma in fumo nero le fiamme incontenibili che poco prima avvolgevano ciò che resta del veivolo.
Utilizzando per la prima volta il colore (a quanto io sappia e tenendo conto della mia personale ed ancor non completa esperienza nei confronti del regista filippino), Diaz ci incanta con l'umanità dolente ma appassionata da una parte, e controversa e peccaminosa dall'altra: due aspetti antitetici ma possibili che biforcano una storia, divisa a metà tra la bontà che non cede alla tentazione di arrendersi grazie ad una forza interiore di autogoverno e a grandi doti di rassegnazione, e la cattiveria e la codardia che non consentono di ammettere le proprie responsabilità evitando che innocenti paghino le colpe di chi le ha commesse.
Diaz ci racconta le due facce antitetiche dell'esistenza umana, nel continuo ed incessante alternarsi di bontà e cattiveria che caratterizzano la vita dell'essere umano dal suo primo giorno sulla Terra: la sopraffazione del più scaltro ai danni del più onesto, ma anche il riscatto morale del perdente, che arriva a riavvicinarsi a ciò che ha perso per troppo tempo senza necessariamente dover consumare una vendetta o facendosi giustizia e rispondendo alla violenza con altrettanta violenza.
VOTO *****
Una casa alla fine del mondo. In un luogo affascinante perduto tra coste selvagge bagnate da un mare grigio ma di grande presa emozionale. Una dimora sulla costa selvaggia che alterna piccole case prefabbricate a prati di erba verdissima e spiagge sabbiose affascinanti. Una comune, che accoglie persone non meglio specificate, che tuttavia piuttosto presto si intuisce cerchino di nascondersi dal mondo: ed in quel posto, lontano da tutto, forse anche dalle tentazioni, ci riescono in effetti piuttosto bene.
Non capiamo subito chi sono, cosa fanno, cosa aspettano, perché si comportano così.
Uno fra gli ospiti ama i cani ed è appassionato di levrieri da corsa: ne alleva uno e lo fa gareggiare con un certo successo.
Poi nella casa, mandata avanti da una donna volenterosa che potrebbe apparire una suora laica, ecco sopraggiungere un quinto uomo. Che si dichiara subito innocente e vittima di un inganno.
Il suo soggiorno è breve perché l'uomo viene trovato morto suicida.
Da Roma giunge un giovane ecclesiastico per indagare, per capire cosa sta succedendo in quel posto; per verificare come si svolge la vita in quella piccola comunità. E decidere se è il caso di chiudere definitivamente quel rifugio di "peccatori un pò santi, un pò blasfemi", ognuno carico delle proprie ossessioni che solo la natura aspra e desolata di quel posto alla fine del mondo civile può cercare di placare e trattenere.
Il sopraggiungere in quella zona costiera di un misterioso personaggio, testimone o millantatore di avvenimenti terribili e morbosi occorsi alla sua persona durante la sua giovinezza a contatto con i prelati dell'orfanotrofio che lo ospitava, non fa che accrescere le ansie e il desiderio di risolvere, in un modo o nell'altro, uno stato di tensione protratto per troppo tempo e a stento tenuto sotto controllo: fino allo sfociare della violenza che si manifesta sotto forma di azioni punitive o vere e proprie esecuzioni, ai danni, come sempre avviene, di esseri innocenti, uomini o cani che siano.
Pablo Larrain - meraviglioso e torbido regista cileno rivelazione con l'amorale "Tony Manero" e con il capolavoro apocalittico "Post Mortem", dopo il suo film più ambizioso, ovvero "No - i giorni dell'arcobaleno", dove la necessità di raccontare la tenace missione del movimento contro Pinochet e la dittatura, impegnato nel tentativo di sconfiggerlo al referendum popolare indetto dallo stesso dittatore - e disposto con tutti i mezzi, anche la pubblicità ingannevole e maldestra, a porre fine a quel terribile periodo di repressione - finiva per tenere inesorabilmente e necessariamente, almeno in parte, da parte quella scabrosità di fondo che negli altri film costituiva l'elemento distintivo e unico di questo ottimo cineasta - ecco che ritorna qui in questo El club, vincitore, tra l'altro, del Gran Premio della Giuria alla Berlinale .
Larrain segue i suoi personaggi dannati e vaganti alle prese con le rispettive ossessioni, con i tentativi di rifuggire e superare le tantazioni ed i piccoli grandi crimini che li hanno dannati e portati a vivere in quel limbo efficacemente rappresentato in una coltre di eterno annuvolamento, meterologico ma non solo, che è il grigiore dell'anima rassegnata e perduta che non riesce nemmeno a pentirsi di ciò che è stato causa della propria dannazione.
Una fotografia livida, consueta nel cinema dell'autore cileno, ma qui più potente ed efficace del solito, fa da sfondo torvo ad un percorso che tenta di compiersi nell calma, coadiuvato dalla apparente tranquillità di un ambiente che non riesce ancora a farsi troppo condizionare dalla civiltà che sta ai margini.
Un percorso di pentimento dove le azioni truci e controverse sono raccontate esplicitamente e senza falsi pudori, come un tentativo di confessione e di espiazione, viste come un lontano ricordo di chi ha almeno provato a liberarsene e a tenersene a distanza. Ma il pentimento non basta per cercare l'assoluzione.
Oltretutto le tentazioni sono in agguato e l'arrivo del quinto ospite è la miccia necessaria e sufficiente a far appiccare un fuoco che per troppo tempo ha covato tra le ceneri di una dannazione senza rimedio.
Gli uomini, i personaggi del cinema di Larrain sono tutti perduti, cattivi, approfittatori e meschini. El club li raccoglie insieme e li conduce in un percorso di autodistruzione attraverso il quale anche il solo narrare gli episodi tragici e terrificanti che li hanno visti meritarsi quel confino, li rende animali feriti e braccati pronti a tutto pur di riuscire a portarsi lontano i ricordi di una dannazione che ancora li pervade e li rende così piccoli, imperfetti, gracili, bisognosi di quel luogo per farsi dimenticare.
Anche in questa occasione il luciferino, inquietante Alfredo Castro non può mancare all'appello e non far parte del gioco...al massacro.
VOTO ****
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