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L'opera stramba di Jamie Bell
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Aveva emozionato e commosso mezzo mondo interpretando un ragazzino dei sobborghi minerari di Durham in piena era thatcheriana che decide di non tirare di boxe come vorrebbe il padre minatore, ma di fare danza classica come aveva sempre sognato la stralunata nonna. Inizia lo scontro, uno scontro virile, famigliare, sociale e politico. Jamie Bell, nei panni travolgenti di Billy Elliot, diretto da Stephen Daldry nel 2000, esordisce col botto.

E col botto esordiscono moltissimi ragazzini tra i 7 e i 12 anni, la cui freschezza e l’approccio giocoso con la recitazione ne permettono una spiazzante performance attoriale, a volte superiore agli accademici attori professionisti. Succede però, che con il tempo, queste grandi promesse, questi grandi esordi spiazzanti, si infrangano sulle coste della dura realtà. Non accade così a Jamie Bell, attore proveniente davvero dalla Contea di Durham – nasce il 14 marzo del 1986 a Birmingham – e che ha attraversato i suoi primi quindici anni professionali tra varie produzioni di esito incerto e altre di grande successo, senza però mai perdere la freschezza dell’esordio.

Diversi i grandi autori che lo hanno scelto (Gordon Green, Von Trier e Vinterberg, Jackson, Eastwood, Spielberg, Fukunaga e Joon-ho), pochi i film di successo commerciale (King Kong, 2005; Flags of Our Fathers, 2006; Nymphomaniac, 2013), ma molti, se non la quasi totalità, i film scelti con fiuto autoriale. Produzioni atipiche, film dal non sicuro successo al botteghino, ma che potevano dare tanto a livello di contenuto e di performazione artistica.

A due anni dal successo di Billy Elliot è tra le file dell’esercito britannico durante la prima guerra mondiale. Porta il nome di Shakespeare è del il cucciolo dei commilitoni, il ragazzino che ha mentito sull’età pur di arruolarsi. In Deathwatch, il regista Michael J. Bassett porta nella crudezza e nel massimo di realismo di una vicenda bellica il potere evocativo e metaforico del fantastico dipingendo l’avamposto militare avvolto e perso nella nebbia come la porta di un inferno incomprensibile. Andy Serkis, Laurence Fox, Hugo Speer e Hans Matheson formano il resto della pattuglia, ognuno con il proprio trauma guerriero e la disperazione dell’orrore. Jamie Bell, innocente, spaesato ed ingenuo è l’adolescenza rabbiosa e vitale, femminea e ambigua, con cui gli orrori della guerra possono essere sconfitti.

Dello stesso anno è una delle sue migliori interpretazioni. In Nicholas Nickleby (2002) è il povero Smike, lo sguattero zoppo maltrattato e affamato dai meschini istitutori di un ambiguo collegio fuori Londra, i coniugi Squeers, interpretati con grande e riuscita crudeltà da Jim Broadbent e Juliet Stevenson. L’incontro con Nicholas Nickleby, ovvero Charlie Hunnam un bel po’ prima di Sons of Anarchy (2008-2014) e poco dopo Queer as Folk (1999-2000), gli permetterà di trovare un vero amico e quell’affetto incondizionato che gli era stato rubato fin da bambino. Un ruolo molto commovente, come lo è tutto il film, ma intelligentemente controllato dall’attore per evitare il più lacrimevole patetismo. Tratto da una favola di Charles Dickens, il film diretto da Douglas McGrath è ben giocato sull’iconografia del romanzo nero inglese, su uno humor accattivante e su stereotipi tanto classici come perfettamente resi in sede di trasposizione.

La corsa autoriale dietro ottimi ruoli continua per tutti i primi dieci anni del nuovo secolo, dove Jamie Bell è inarrestabile e partecipa come protagonista o come secondario in produzioni poco commerciali, ma di buon livello. È il figlio ribelle di Dermot Mulroney nel dramma marginale diretto da David Gordon Green, Undertow (2004), storia di povertà, emarginazione, sottocultura contadina e violenza. Un southern drama, o redneck drama se vogliamo, in cui la disperazione di una vita ingrata è tutta nello sguardo distaccato del giovane Bell e nei disturbi alimentari del fratellino, Devon Alan, non a caso vincitori dei Young Artist Awards del 2005. Parente stretto di Mud (2012) e Joe (2013) sempre di David Gordon Green.

La corsa continua con Dear Wendy (2005), un film bizzarro scritto da Lars Von Trier e diretto da Thomas Vinterberg in cui Bell è il leader di un gruppo di reietti sociali autoproclamatisi Dandies che predicano il pacifismo attraverso l’amore per le armi non utilizzate. La set decoration di impostazione teatrale, la surrealità della storia, il tratteggio espressionista dei personaggi, il barocchismo e il romanticismo con cui viene narrata visivamente questa storia di antagonismo sociale, permettono agli attori di re-interpretare i loro personaggi in piena libertà. Lo stesso Bell, come al solito sobrio e sottrattivo, esplode in scarti recitativi e in una furia mimetica che spiazzano e chiamano l’applauso.

Anche la commedia drammatica e satirica diretta da Arie Posin permette a Jamie Bell di disegnare un personaggio sui codici espressivi della sottrazione e del distacco, potenziando la fisicità, lo sguardo e una prossemica dell’isolamento. Con un cast strepitoso e azzeccato composto da Ralph Fiennes, Glen Close, William Fitchner, John Heard, Jason Isaacs e Carrie-Anne Moss, The Chumscrubber (2005) consolida l’attore inglese come valido protagonista.

Arrivano poi i due titoli commercialmente più importanti, ma allo stesso tempo firmati da autori di grande spessore. Partecipa in ruoli di contorno al King Kong di Peter Jackson e a quel silenzioso scardinatore dell’identità militare americana che è Flags of Our Fathers di Clint Eastwood. Da quel giorno non sarà più possibile vedere il viso ossuto e rattesco di Jamie Bell e non chiedersi dove lo si aveva già visto. Così, complice il palcoscenico internazionale di due produzioni hollywoodiane, e complice sicuramente il suo physique du role, Jamie Bell partecipa, anche se non in ruoli da protagonista, a film di grosso budget e dall’appeal commerciale come Jumper (2008) e Defiance (2008).

È però Hallam Foe (2007), tratto dall’omonimo romanzo di Peter Jinks e diretto per il grande schermo da David Mckenzie, ad essere il titolo più interessante e il ruolo tra i più importanti di questa sua precisa fase professionale. Antagonismo sociale realizzato attraverso una mascherazione ferale e un comportamento animalesco – casa sull’albero, pelle di tasso da indossare, lancio dalla liana, segni tribali sul viso, una sessualità appunto animalesca – sono le coordinate dentro le quali Jamie Bell realizza il personaggio protagonista de film. Se la sottrazione sembra essere il tratto principale della sua recitazione, l’esplosione borderline è lo scarto recitativo che sottolinea la completa padronanza del proprio corpo attoriale.

Assente per due anni dagli schermi, Bell torna al cinema con The Eagle (2011), una grossa coproduzione anglo-ungaro-americana, girata in inglese, gaelico e scozzese, diretta da Kevin Mcdonald e tratta dal best seller di Rosemary Sutcliff, L’Aquila della IX Legione (1954). Siamo nel II secolo dopo Cristo, nella Britannia dominata dai romani, e Marcus, soldato romano interpretato da Channing Tatum, vuole andare a riprendersi il simbolo della legione suo e di suo padre che sembrerebbe essere nelle mani dei barbari popoli di Caledonia. Con la benedizione dello zio Donald Sutherland si avventura oltre il Vallo di Adriano e sconfina nelle terre estreme dell’attuale Scozia in cerca degli uomini foca. Con lui un giovane schiavo la cui riconoscenza verso il proprio signore travalica i delicati confini dell’amicizia virile e si fa omoerotismo quasi dichiarato. Lo schiavo, Esca, è Jamie Bell, nuovamente perfetto nei panni del giovane emarginato, scontroso e tenebroso, con il solito appeal adolescenziale a conferma della lettura omoerotica del rapporto tra padrone e schiavo che, pur ricordando spudoratamente i ruoli di alcune relazioni sessuali, va in direzione totalmente opposta. Le barriere cadono e trionfa l’amicizia senza classismi.

Il sottovalutato film di Mcdonald, oltre a dare a Jamie Bell l’occasione di consolidare la sua immagine attoriale, sembra però averlo totalmente allontanato dalla possibilità di rivestire i panni del protagonista. A differenza di diversi titoli precedenti dove interpretava il personaggio centrale della vicenda, dal 2011 in avanti sarà soltanto il coprotagonista di lusso dei film a cui parteciperà, come nel manierato ma incisivo Jane Eyre di Cary Jo Fukunaga (2011).

In Retreat (2011) è un ambiguo soldato inglese che approda ferito su un’isola deserta su cui si trovano temporaneamente Cillian Murphy e Thandie Newton, coppia in crisi che tenta di ritrovarsi. Ovviamente l’arrivo del terzo incomodo accelera la deflagrazione della coppia, non intromettendosi in essa come fallo edenico e tentatore, ma come introduttore di terrore. Jamie Bell infatti porta una sconcertante notizia alla coppia: il mondo è attanagliato da una epidemia virale che scatena il cannibalismo tra gli esseri umani e loro sono gli unici sopravvissuti. La fisicità di Bell accentua il carattere dominante e prepotente del suo personaggio e ci regala un bel ruolo villanesco.

Con 40 carati (2012) è solo il fratello del protagonista, Sam Worthington, centrale nello sviluppo della trama, ma stereotipato. Nel film di Joon-ho, Snowpiercer (2013) brilla per rabbia autoriale in un film spettacolare dove estetica e contenuto sono ugualmente resi con maestria ed efficacia. In Filth (2013), ha poco più di qualche scena al fianco del protagonista “lercio” interpretato da James MacAvoy, ma il suo personaggio cocainomane e minidotato gli riesce con grazia e piglio brillante dopo una lunga carrellata di personaggi ombrosi e ambigui.

Nel 2013 arriva anche la ghiotta occasione di lavorare con Lars Von Trier in Nymphomaniac. I due si erano già conosciuti per Dear Wendy, e il discuso regista danese torna a scegliere Jamie Bell per il ruolo di K., il master sessuale a cui si rivolgono molte donne dalle voglie indicibili, tra cui la sessualmente turbata Charlotte Gainsbourg. Il personaggio di Jamie Bell è una felice anomalia dell’iconografia di Nymphomaniac: contrariamente a buona parte del resto de cast è regolarmente vestito e casto, inoltre con modi estremamente gentili e burocratici infligge piaceri sadomasochistici alle sue clienti. Uno dei suoi ruoli migliori.

Prima di gettarsi nel franchise de I Fantastici quattro (2015; 2017), nel ruolo de La Cosa, Jamie Bell passa anche per l’ultima serie AMC Turn: Washington’s Spies (2014-in corso), un period drama improntato su vicende spionistiche all’epoca dell’indipendenza americana in cui l’attore britannico, esteticamente identico all’Ichabod Crane della Disney, è protagonista assoluto della scena come della padronanza del suo corpo ormai adulto; passa anche per il secondo episodio de Le avventure di Tin Tin (2016) a cui presta la voce fin dal primo capitolo del 2011, entrambi diretti da Steven Spielberg; e in 6 Days (2016), dramma militare che racconta il blitz dei SAS all’ambasciata iraniana del 1980 a Londra.

Alto soltanto un metro e settanta, Jamie Bell non sfoggia la muscolatura bovina di molti suoi colleghi, anche se ha messo su massa per il reboot Marvel. Fisico asciutto e tonico, leggermente ingobbito, viso irregolare, spigoloso e sottile, occhi incavati, naso affilato, orecchie pronunciate; una faccia da schiaffi piena di quell’autoironia adulatrice che straborda dallo sguardo e dal sorriso come dall’incedere buffo e dinoccolato, ma sempre deciso e spigliato. Jamie Bell, classe 1986, è un’opera stramba che deve tutto a quel suo modo strampalato e al tempo stesso rigoroso di essere in scena, di muoversi buffo tra i colleghi ben consapevole che il minimalismo sottrattivo può molto in termini artistici quando si possiede la faccia giusta.

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