A vederlo sul palcoscenico non lo si direbbe un attore. Non nel senso corrente del termine, quale masticatore e declamatore di sceneggiature e/o copioni. Perché Antonio Rezza è di più, possiede in un DNA cromosomicamente sfavillante qualcosa di mai visto: la capacità di aggredire le cose al suono di vortici di parole, nonché il talento di farsi egli stesso scenografia, mimeticamente capace di assumere le vesti statiche dei fondali o quelle dinamiche di individui scaraventati en passant sul proscenio del mondo, a coglierne la insana assurdità.
Le perfomances di Rezza sono indubbiamente agevolate dalle meravigliose bizzarrie di Madre Natura: incastonato in una selva di riccioli da putto seicentesco, sta un viso di inaudità mobilità ed elasticità. Una faccia che copre senza affanni tutti i possibili diapason delle espressioni: stupore, rabbia, aggressività, violenza statica che però si accompagna ad una motilissima gamma di invettive verbali. Rezza si aggrappa al mondo come ultimo naufrago di senso, perso tra procelle di instabilità che cerca di razionalizzare con un accorato e sensatissimo nonsense. Può persino spaventare il pubblico meno scafato, Rezza¸ cogliendolo nell’atto della non comprensione, rendendolo complice e partecipe del gioco al massacro dei luoghi comuni. Un comico? Senz’altro, ma molto sui generis: portato e deriva di quella combinazione di cose che si chiama vita, di quel mosaico di sentimenti che fanno di un essere umano adulto un bambino cresciuto suo malgrado, di tutti i canti lamentevoli che, a volte, la nostra anima vorrebbe e non può elevare e che lui, invece, conosce quale corredo genetico di quel particolarissimo DNA di cui si diceva.
Rezza biascica le parole, stira fino all’impossibile quel mento sfuggente, parla. E nel suo parlare aleggia un vago senso di morte, o della fine delle cose. Ha qualcosa di Totò, Rezza, : un Totò post-nucleare o, se vogliamo, post tutto. Una maschera da burattino slegato e segmentato, eppure ancora disperatamente attaccato alla vita, come appunto un Totò che rinunci alle facile battute ed agli scontati e divertenti calembour, per farsi prototipo delle angosce di un Pulcinella venuto su in questi strani anni. Qualcosa di indefinibile ne connota le epifanie sceniche: Rezza è anche un Bergonzoni dalle parole ugualmente assurde ma meno concatenate, un De Niro/Bickle che si guarda parlare ed è solo tentato dalla violenza fisica (benchè in alcune rappresentaazioni davvero pare che, da un momento all’altro, debba scaraventarsi sulla platea per ricordarle una certa intrinseca finitezza fisica), un Bertoldo che fa e disfà sentenze di insostenibile apoditticità.
Era inevitabile che un tale cavallo di Rezza (gioco di parole poco rezziano) dovesse confrontarsi con l’oggetto cinematografico. Benchè il suo corpo abbia poco di realmente filmabile, scosso dai continui movimenti, dalle impercettibili vibrazioni, dagli inesauribili scatti, Antonio Rezza possiede un’anima che può comodamente attagliarsi alle declinazioni surrealistiche che il cinema è sempre in grado di proporre.
Escoriandoli è il film di e con Antonio Rezza (con l’ausilio della fedele Flavia Mastrella, complice da una vita delle coscienti mattane del nostro), girato secondo il particolarissimo schema della concatenazione degli episodi: finisce l’uno, inizia l’altro, in una continuità assicurata dall’entrata in scena del proteiforme protagonista. I personaggi interpretati sono una piccola summa, anzi un Gotha, delle personali paranoie dell’autore: il seduttore della vedova del fratello, che dovrà vedersela con il defunto che continua a sfornare le cosiddette idee putrefatte, e che finirà egli stesso a riposare con l’amata in una bara; l’uomo colpito da una crisi di senilità improvvisa e fulminante, proprio mentre il suo rivale in amore, da vecchio che era, torna a rifiorire; la professoressa Coatta, amante delle buone maniere, ma dal corpo respingente; il poeta Giacane, dalla ulceratissima sensibilità, assediato dai sensi di colpa per aver calpestato inavvertitamente il piede di un ciccione e che tenterà inutilmente di ottenere il perdono dell’uomo (in quello che è forse l’epidosio più straniante ed assurdamente poetico del film, fatto salvo il finale e la sua altrettanto inopinata revenge); il presenzialista che dice di vivere al centro della massa e che si ritroverà con un corpo che vive di vita propria, tanto che l’unica soluzione sarà quello di scrollarselo di dosso, lasciando soltanto la proverbiale (e anche questa di derivazione decurtisiana) testa sul collo.
Detto così, un pastrocchio insostenibile: ma Escoriandoli va visto in quanto manifesto scopertissimo della poetica di Rezza. Un inesauribile can can di invenzioni visive e verbali, un senso dell’assurdo maneggiato con cura e padronanza, in quello che non è, naturalmente, cinema in senso classico. Ma nella vita, nell’arte, nella prossemica di Rezza, difficile scovare qualcosa di classico. E’ proprio questo che ne alimenta la alienata grandezza.
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