Se un attore viene unanimemente riconosciuto come uno dei grandi moschettieri della commedia all’italiana, non possono non esserci dati di fatto a corroborare tale giudizio. Eppure, per Ugo Tognazzi, il discorso si fa più ampio e coinvolge capacità attoriali di largo respiro, quali forse nessuno, come lui, ebbe a possedere. Faccia da gaudente uomo medio, non eccelse doti fisiche tuttavia bilanciate da una vitalità un po’ seducente un po’ fintamente guascona, l’attore Tognazzi impersonò, nell’arco di una carriera lunghissima e pure finita troppo presto, ogni possibile tipologia di essere umano, rispetto alla quale lo spettatore non poteva accontentarsi di un’impressione superficiale: al di là di ogni apparenza, colpivano in lui il non detto ed il non espresso, le venature malinconiche degli occhi, la consapevolezza tutta interiore della finitezza delle cose, delle gioie, dei successi. Tognazzi non declamava battute ad effetto, in ciò forse distinguendosi dai colleghi con lui in auge all’epoca (e in ciò apparentandosi forse al solo Mastroianni che tuttavia aveva, rispetto a lui, una formazione e una reputazione non esattamente comica, cresciuto com’era alle scuole di Antonioni e di Fellini); piuttosto lanciava sassi di parole senza poi nascondere la mano. Seguiva il destino delle affermazioni e questo destino, il più delle volte, era comicamente tragico. Lo sappiamo tutti che il grande commediante è un uomo malinconico e triste: per Tognazzi il detto è stato valido, sicuramente nella vita,ma anche sul set, suo terreno di elezione per la costruzione di personaggi a tutto tondo, dalle psicologie frastagliate in mille rivoli. A 25 anni dalla morte, premesso e stabilito senza problemi che un attore come lui manca, e non poco, al cinema italiano, un omaggio all’Ugo più nascosto e forse, più grande: quello drammatico.
“Dai, Baggini, facci il treno”. E qui parte una delle scene più strazianti della commedia italiana anni ’60. Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli: storia di una perdente, soffocata dalle proprie illusioni. Tognazzi recita la parte di un attore in disarmo, costretto a farsi zimbello altrui per raggranellare briciole di popolarità. Il suo Baggini, impazzito e dal respiro corto, che si dimena su un tavolo, sbuffando e torcendosi tra gli altrui sorrisi di scherno (eppure conservando la capacità di concentrazione che ogni prova di recitazione deve richiedere), rimanda profeticamente agli attuali morti di fama, ai professionisti da talk show capaci di vendere dignità pur di essere contenuti in una cornice di parossistica visibilità. Con la differenza esiziale che, mentre questi risultano a ben guardare inesorabilmente comici, il Baggini di Tognazzi era un essere umano drammaticamente vero, sconfitto ma in piedi. E su quel tavolo, infatti, non cadde mai.
Il conte Mascetti, dopo aver perculato l’universo mondo, si ritira a vita privata serale (meglio ancora notturna). O almeno si fa per dire. A casa lo aspettano una moglie che nelle vene ha soltanto fame e disperazione, una figlia mai amata, una tristezza che permea ogni increspatura della brutta carta da parati. E allora Mascetti si inventa un’amante, soffio di vita in un’anima pronta ai crisantemi. Ne diventa dipendente e perciò finisce col girare a vuoto. Ci sono ancora le supercazzole a dare colore alle giornate; ma è solo un modo, il più giocoso ed infantile, per rimandare la fine. Che arriva per tutti, magari come se fosse Antani, ma arriva.
Chi ha non mai avuto una voglia matta di fronte alla gioventù florida ed irriverente? Nel film di Salce l’industrialotto un po’ bauscia di Tognazzi si lascia trascinare dalla corrente. Conscio, ma soltanto intimamente, della improbabilità della situazione accetta di perdere le coordinate in favore di un sogno d’amore e/o di sesso. Ne finirà avvinto e, soprattutto, vinto.
Soldo/interesse vs affetto paterno. Siamo dalle parti della tragedia greca propriamente intesa. Tognazzi è un uomo davvero ridicolo che cerca di volgere il dramma in farsa. Quando un’ipotesi di morte sconvolge gli equilibri, occorre tenere saldi il timone e la rotta. Volgere in positività il pianto, salvare il salvabile senza rendersi conto che le fondamenta della tua vita sono già crollate. Probabilmente nessun altro attore avrebbe potuto rendere meglio la tragedia, appunto, dell’uomo immaginato da Bernardo Bertolucci. Perché ci sono sguardi di mestizia e furbizia che solo lui conosceva, perché la nebbia padana ebbe un ruolo nell’anima di Tognazzi, la avvolse come placenta e la modellò conferendo all’attore la virtù di farsi geografo di se stesso.
E poi si potrebbe continuare ancora per esempi infiniti. Un cenno necessario alla galleria di mostri di derivazione ferreriana. L’autoannientamento consapevole tra cibo e sesso (La grande abbuffata); l’uomo sfiancato dall’amore fisico che si ritira, pian piano e letteralmente, sino a scomparire e lasciare il posto alla sua genia, in una sorta di ciclo dell’eterno ritorno (L’ape regina); l’amore e l'interesse per l’orrido che si trasformano in sentimento per l’essere che lo impersona, amore ed interesse destinati a proseguire post mortem e ad essere sublimati tra fiere e baracconi (La donna scimmia).
Vi viene ancora da ridere parlando di Ugo Tognazzi?
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