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OLTRECONFINE (22): IL RITORNO DI M.NIGHT SHYAMALAN IN UN HORROR IN RITARDO COI TEMPI, MA CHE ASSICURA IL GIUSTO SPAVENTO; FATIMA E ASPHALTE, DUE PICCOLI GRANDI FILM DA CANNES; UN FEUILLETON FRANCESE; UN NOIR FRANCESE CHE SCOPIAZZA IL POLIZIOTTESCO ITALICO
di alan smithee
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"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala." 

Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio, che pur reduce da lusinghieri apprezzamenti all’ultimo Festival veneziano, ha avuto una distribuzione piuttosto frettolosa e sporadica in Italia (nel Ponente Ligure è arrivato solamente al Cinema Diana di Savona, disertando completamente le sale dell’estremo “west”), è da due settimane distribuito in Francia e da altrettante è presente presso la sala Rialto di Nizza. Bell’affare: ci credono più i francesi ai nostri autori che noi italiani!!

Tra i film appena usciti in territorio d’oltralpe, segnalo due interessanti pellicole viste al Certain Regard di Cannes e a suo tempo già recensite: il bellico-misterioso Ni le ciel ni la terre (The Wakhan front), e l’ultimo affascinante, mistico Kiyoshi Kurosawa, Vers l’autre rive (Journey to the shore).

 

FATIMA rientra nel gruppo di quei gioielli che ogni anno la QUINZAINE DES REALISATEURS di Cannes riesce a far suoi in nome dell’amore per il cinema e l’indipendenza che, a differenza del Concorso principale, rende le sue scelte rigorose e dirette verso l’ottimo cinema, indipendentemente da nomi altisonanti di registi-abbonati alla sezione principale.

Il film francese di Philippe Faucon, alla sua terza regia, si trasforma in un intenso confronto generazionale che tuttavia trova il suo sbocco più naturale nella scrittura, unilaterale e quasi in forma di diario, che la generazione più matura, nelle sembianze di una madre, intraprende per cercare un colloquio e un contatto con le due figlie che alleva e cresce da sola, con grandi e faticosi sacrifici.

Fatima infatti è una donna matura di origine algerina, immigrata in Francia da anni, separata con due figlie giovani, integrata ma ancora in difficoltà ad esprimersi e comprendere appieno la lingua straniera in cui è costretta ad comunicare.

Le figlie sono perfettamente in linea con i ritmi della società occidentale che le ospita e le ha viste nascere, mentre la madre fatica ad integrarsi. Pur tuttavia per sopperire alle spese necessarie per farle studiare e non far mancar loro nulla, Fatima è costretta a districarsi tra due o tre lavori anche pesanti che le riempiono le giornate. Ciò nonostante la donna trova nella scrittura, quella araba originaria dei propri natali, lo strumento per aprirsi con le due valide ma toste figlie, quando il dialogo, la conversazione, non basta più per trovare un’intesa che accosti due mondi, due culture, davvero molto o troppo distanti.

Un bel film toccante ed intenso, una piccola gemma in più che ogni anno la Quinzaine è in grado di regalare al suo pubblico, sfruttando la lungimiranza e l’indipendenza dei suoi selezionatori che la fanno divenire una delle rassegne più interessanti nell’ambito del più importante festival del mondo.

VOTO ****

M. NIGHT SHYAMALAN ritorna e lo fa restando nel territorio a lui più congeniale: l’horror. Tuttavia, e la circostanza incute sospetti preventivi e diffidenze non completamente immotivate, sceglie pure lui, molto in ritardo rispetto a quello che potrebbe considerarsi il tempo utile, di provare a confrontarsi con il genere “mockumentary”. Quel genere che procede nel racconto immaginando che il protagonista o uno tra essi filmi direttamente lui la storia anziché un regista dall’esterno, dando pertanto l’idea di un prodotto amatoriale dove la fantasia, la bizzarria degli eventi, finisce per subentrare nella realtà di tutti i giorni dando luogo ad un finto “real movie” dove tutto è programmato a tavolino, ma non lo sembra.

Dopo il famosissimo capostipite, quel Blair Witch Project, è stata la volta di decine e decine di altri tentativi che hanno dato vita ad un vero e proprio genere, una moda, una tendenza espressiva che spesso ha deluso ed è finita per degenerare.

La vicenda del film di Shyamalan si intreccia negli schemi della favola horror mista al racconto delle più agghiaccianti leggende metropolitane: una madre separata con due figli teen, si concede una crociera col nuovo compagno e per questo decide di lasciare i due ragazzi dai suoi genitori, i nonni che entrambi non hanno mai conosciuto a causa di vecchie tensioni ormai ricondotte ad ambiti civili.

Recatisi dai genitori della madre in una zona di campagna, ed in contatto con la genitrice solo tramite skype, i giovani, dopo una positiva ambientazione in loco, cominciano a notare fatti sempre più sconcertanti in capo ai due arzilli vecchietti: di notte essi pare si trasformino in esseri mostruosi, o dai comportamenti davvero poco umani, accompagnati dall'emissione di rumori davvero poco rassicuranti, di natura decisamente  più  bestiale.

In un crescendo di tensione, i ragazzi filmano loro stessi il proprio film dell’orrore: le risposte ci saranno tutte, puntualissime, logiche o quasi, inquietanti certamente, non impossibili da indovinare.

Shyamalan non è un gran direttore di attori, ma ha un gran polso della situazioni e le riprese, specie quelle dei momenti topici e tesi, sono dirette con grande professionalità e acuto senso della suspence, seguendo anzi rincorrendo le sue vittime con una perizia che non ha nulla di casalingo od improvvisato.

Certo i due ragazzi, specie il maschietto, ancor più quando si improvvisa rapper, risultano davvero fastidiosi e petulanti, ma il film si lascia guardare con qualche sano soprassalto nonostante la storia non abbia elementi di novità o sorpresa alcuni.

VOTO ***

L’ODEUR DEL MA MANDARINE, di Gilles Legrand, ci riporta ad inizi ‘900 durante la fine del primo conflitto mondiale, per narrarci, tra ambientazioni suggestive in una magione patrizia in un villaggio di campagna, di un amore impossibile, ma coerente, tra un maturo ufficiale della cavalleria francese, congedato dopo aver perso una gamba in battaglia, e una giovane donna, Angèle, assunta in villa per curarlo, e giunta con la figlioletta, frutto di una relazione amorosa interrotta pure quella a causa della tragica guerra.

L’amore che nasce come tenerezza da una parte, e come soluzione per garantire una famiglia e dunque sicurezza ed agio ad una figlia bambina orfana, il contorno maestoso e molto ben ambientato e scenicamente molto ben ricostruito, tra cavalli di razza e corse sui prati, rende il film un feuilleton un po’ demode',  come d'altri tempi, ma tuttavia interessante e piuttosto ben interpretato da un leonino Olivier Giurmet, attualmente l’attore belga più noto ed apprezzato, e forte della sofferta recitazione di Georgia Scalliet (de la Comedie Francaise); entrambi ben coadiuvati, in un ruolo di contorno, dalla matura e sempre valida Helène Vincent.

VOTO ***

ENRAGES (titolo internazionale Rabid Dogs), film francese dal cast importante, almeno in zona d’oltralpe, sembra riportarci nelle atmosfere di quel poliziottesco violento e scatenato tutto italiano tipico degli anni ’70.

Siamo dalle parti, non penso inconsapevolmente, del buon thriller di Mario Bava “Semaforo Rosso”: una banda di rapinatori braccata dalla polizia prende in ostaggio una giovane donna da un centro commerciale e, strada facendo, un padre di famiglia in macchina con la figlioletta malata mentre stanno andando in ospedale per sottoporre la piccola ad un delicato intervento.

Sciagura nella sciagura, o sfiga nera, se si impara a credere nelle apparenze. La vicenda, tutta scatti di ira e violenza, concitata ed in corsa verso una fuga sempre più improbabile, fuggendo a posti di blocco e pattuglie sparse ovunque nel territorio francese, si dipana svelta e adrenalinica, improbabile e telefonata fino al suo clamoroso epilogo, oltre il quale tutte le perplessità pronte ad essere enunciate trovano una (furbissima) logica (si fa per dire) spiegazione.

Film astuto ed ingannatore, molto pieno di sé, greve, ma pure con un suo fascino maledetto, se si sa prendere con la giusta chiave scult, e che trova almeno in interpreti validi come Lambert Wilson, Laurent Lucas, Franck Gastambide, e il giovane Guillaume Gouix (una scoperta de Les revenants televisivo) una bella schiera di facce adatte ad un noir che tenta la strada dell’efferatezza. Virginie Ledoyen è sempre bellissima, ma un po’ troppo sacrificata e banalizzata nella parte dell’ostaggio che deve solo subire.

VOTO **1/2

ASPHALTE è un nuovo film proveniente dal festival di Cannes, ove fu presentato Fuori concorso. Ed una nuova positiva sorpresa. Per la regia di un noto commediografo ed attore, Samel Benchetrit, Asphalte ha per teatro d’azione un caseggiato popolare vecchio e fatiscente, i cui inquilini un giorno riescono a convincersi di dotarlo di ascensore.

Da questo particolare si dipanano tre storie esilaranti e tenere che partono dalla vicenda amorosa dell’unico proprietario contrario all’installazione dell’elevatore. Costui, abitante al primo piano, viene dunque ufficialmente avvisato di non poter usufruire del mezzo, ma, sfortuna e destino cieco, per un banale e buffo incidente sulla nuova cyclette, si infortuna rimanendo temporaneamente paralizzato ed in sedia a rotelle, e costretto in tal modo ad organizzarsi segretamente per l’uso clandestino dell’ascensore. Troverà l’amore in una infermiera del vicino ospedale la sera che vi si recherà affamato al solo scopo di cibarsi dei dolciumi all’apparecchio automatico.

In cima all’ultimo pianerottolo invece viene ad abitare una attrice non più giovanissima, un tempo vicina a divenire una star, oggi dimenticata da tutti. Rimasta chiusa fuori casa, stringerà amicizia, non senza una iniziale diffidenza, con un ragazzino simpatico e curioso suo vicino, sempre solo in casa: nascerà un rapporto speciale ed una bella ed intima amicizia. Infine una sonda della Nasa atterra incidentalmente sul tetto piatto del palazzo, e l’astronauta americano che vi risiede dentro trova rifugio presso una gentile vedova di origine maghrebina con figlio in carcere: anche qui, da due mondi completamente estranei per cultura, lingua e generazione, nascerà un rapporto di complicità unico e tenerissimo.

Buona regia, sceneggiatura a tratti irresistibile, per una bella sorpresa che attori del rango di Gustave Kervern, Valeria Bruni Tedeschi, Isabelle Huppert, la star americana Michael Pitt, e il giovane e carino Jules Benchetrit (è il figlio del regista, ma pure della tragicamente scomparsa Marie Trintignant), contribuiscono non poco a rendere unica per complicità e tenerezza.

VOTO ****

 

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