Quando 13 anni fa, anzi 14 considerando il tempo di progettazione e produzione, Database ed io decidemmo di iniziare a lavorare sul sito della rivista FilmTv, le idee di base erano chiare (strano ma vero): non si sarebbe trattato di una versione online del giornale cartaceo fatta di notizie, articoli e servizi ma di un database al servizio del lettore e degli appassionati di cinema, attorno al quale costruire una community offrendo semplicemente la possibilità di partecipare. Da una misura minima, i voti sui film, alla massima, recensioni e playlist.
Tante cose sono cambiate nel tempo - persone, pensieri, scenari, modelli economici - e oggi la rivista e il sito hanno editori, e forse anche pubblici, diversi. Siamo amici, certo, e condividiamo un centro gravitazionale, il cinema, ma le differenti scelte strategiche con cui operiamo di fronte ai pubblici sono espressione di un dibattito senza sosta che comincia a diventare di dominio pubblico e non solo materia per gli addetti ai lavori: la quantità di informazioni che piombano addosso al singolo lettore ogni dannato giorno è nettamente superiore alla possibilità fisica di consumarla. Dal che derivano alcune questioni che gli editori tradizionali e digitali sono obbligati a porsi e cioè come restare al centro di questo traffico di informazioni vendendo copie, i primi, e advertising, i secondi. Possibilmente senza perdere soldi.
Quando incappo in questo genere di dibattiti la prima parte che si attiva in me è quella professionale. Ma dura poco. Dopo qualche istante avviene un cambio di prospettiva e il lettore che è in me prende il sopravvento cominciando ad unire i punti. In maniera soggettiva e totalmente personale, come faccio adesso, insieme a voi, nel puro spirito che contraddistingue questo luogo.
Leggo che un caporedattore di Playboy ha proposto all'editore Hugh Hefner un cambio epocale: niente più donne nude, solo articoli. Poi leggo che una tipetta dotata ha infine ceduto alle pressioni di un hashtag - #escile - e ha pubblicato le sue foto su Facebook, #uscendole. Saltando in questo modo la catena e andando direttamente alla fonte, anzi accontentandola. Mi pare che queste due notiziole siano perfettamente speculari e mi pare anche che la seconda notizia sia la migliore alleata della strategia editoriale proposta dal caporedattore di Playboy o almeno che certifichi un fatto conclamato e cioè che non abbiamo più bisogno di Playboy per vedere 'edonnenude e che forse la strada di Playboy passa per la riscoperta del testo, soprattutto in considerazione della storia peculiare della rivista che ha sempre dato spazio a grandi firme e penne.
Poi sono incappato in un altro articolo, questo, e di conseguenza mi sono chiesto: ho ancora spazio per leggere, oltre alle mail, i whazzup, gli status su Facebook degli amici (che spesso portano embeddate altre parole, altre notizie, altre storie)? E poi i libri, gli articoli, le istruzioni della videocamera. Cinque ricette per fare i gnocchi di zucca e le recensioni della community(!). E allora da lettore mi chiedo: in un mondo in cui senza fare nulla mi ritrovo a leggere 100.000 parole al giorno, per la maggior parte gratuite, sebbene infarcite di pubblicità mirata, per cosa pagherei? La lettura(!) della presentazione del nuovo progetto editoriale del Manifesto, un giornale che ho sempre amato e comprato fino a che sono stato in Italia pur senza condividerne in toto linea e forme, mi ha conquistato e mi ha spinto a sottoscrivere un abbonamento di prova.
E forse questo è un punto chiave, personalissimo, su cui mi sento di mettere l'accento: l'informazione che circola attraverso i social network ha costruito dei giardini cintati in cui sono le nostre stesse selezioni a determinare le informazioni che ci arrivano addosso, in una corsa spietata finalizzata, con la nostra complicità, all'abbattimento della diversità. Oggi, nell'epoca dell'informazione gratuita (pagata dalla pubblicità targhettizzata/specchiata), non pagherei per leggere informazioni che confermano la mia identità, pagherei, per articoli che mi facciano pensare al di fuori dai miei stessi schemi, per storie lontane dal mio mondo. In cui l'obiettivo non sia specchiarmi, ma al massimo riconoscermi.
La mia curiosità professionale deve indugiare spesso sia sulle modalità con cui i lettori possono selezionare i contenuti gratuiti di cui circondarsi, sia su quali contenuti potrebbero essere disposti a pagare. La mia natura di lettore cerca parole diverse per poter crescere. E voi? C'è spazio per altre parole oltre alle 100.000 quotidiane? Per quali parole siete disposti a pagare?
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Ancora a mente calda, e prima di tutto, grazie!! Grazie per l'argomento, per la segnalazione dell'altro articolo, e per il coinvolgimento su una questione tanto importante per le prospettive . Intanto rispondo subito con le tue stesse parole:
"pagherei, per articoli .... In cui l'obiettivo non sia specchiarmi, ma al massimo riconoscermi."
Finora il giornalismo sul web mi ha quasi sempre deluso, ma l'ho accettato passivamente come una ineluttabile diversità. Adesso che sono venuta a conoscenza di questi fermenti che immaginavo più sotterranei e forse individuali, ho bisogno di riflettere meglio sull'intera questione per spogliarla dalle mie proprie utopie, poi mi rifaccio viva. Buon lavoro!
Ciao Greta, grazie a te per essere passata da questa parti. Sono felice di averti coinvolto in questo dibattito solo apparentemente per addetti ai lavori. Dalla lettura dei post segnalati emerge come il giornalismo web stia cercando nuove forme e nuovo senso, soprattutto come stia lottando per evadere dalla tirannide della battuta ad effetto, del titolo-esca, del boxino morboso. Vediamo! Rifatti viva. :)
Anche io ti ringrazio per il tuo post, per il link all'altro articolo, e per i link ad altri siti trovati in quest'ultimo, e per le mie quotidiane 100000 parole che forse tutto ciò mi ha fatto raggiungere...
Come in un quadro di Escher seguire tutto ciò che si trova in rete può portare dappertutto e in nessun posto, e pur non intendendomene nello specifico del giornalismo web, concordo sulla direzione che i social network imprimono alle notizie che noi stessi scegliamo, che è da un lato espressione di massima libertà ma anche, come dici tu, un «giardino cintato».
Come scritto nell'articolo da te citato, è «Facebook che detta la forma dei contenuti, quando spinge un caporedattore a chiedersi, prima di altre cose, se un certo pezzo funzionerà sui social».
Per rispondere alla tua domanda, finora sono sempre e solo stato disposto a pagare per parole scritte su carta.
Il pensiero che vorrei condividere è che è probabile che si stia valutando la questione solo dal punto di vista dei contenuti. Nel senso, per puntare ad avere entrate maggiori o comunque diverse, non conviene puntare più tanto sul "cosa" ma sul "come" questa lettura venga consumata. Ad esempio, tu citi il tuo abbonamento a "Il Manifesto" riferendoti ai contenuti, ma io sono portato a supporre che la tua sottoscrizione sia fondamentalmente legata al fattore di modalità di consumo di questa lettura, e nel caso mi sbagliassi sono certo che tu difficilmente rinnoverai l'abbonamento alla sua scadenza. Quindi OK i contenuti, ma è la modalità a fare la differenza: un articolo potrà anche essere stato scritto da Shakespeare, ma se la sua lettura mi viene proposta navigando sul web, io non vorrò mai pagarlo.
Buona giornata a tutti
Non mi servono 100.000 parole, sono un peso inutile, mi serve ... lo spazio di ascolto dei titoli di coda dell'ultimo studendo film che ho vissuto. Questo grazie alla rivista spesso lo incontro. Sul sito svicolando fra una pubblicita' e altre 99.000 parole spesso non accade. Claudio
centomila parole in teoria, in realtà l'eccesso di abbondanza spinge all'anoressia, in più le letture indotte non mi interessano, io sono per la FREEDOM OF CHOICE come i grandi DEVO enunciavano....
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