Potremmo cominciare questo viaggio nelle case borghesi nel cinema di Ettore Scola con il principe Vittorio Gassman de La congiuntura, ma la deriva farsesca del poco convincente secondo opus della carriera di Scola non contribuisce del tutto a centrare l’obiettivo. Inoltre, in questa sede, per ragioni squisitamente tematiche, non parlerò degli ambienti domestici delle classi più umili (Dramma della gelosia, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare) e della piccolo-borghesia (la Napoli malincofolk di Maccheroni e la provincia di Splendor e Che ora è; la Roma contemporanea di Mario, Maria e Mario e Romanzo di un giovane povero e quella fascista di Concorrenza sleale) né dei personaggi sospesi nel passato remoto (la casa di Fosca in Passione d’amore) o in un altrove quasi onirico (l’albergo de La più bella serata della mia vita) e neppure “le case ideali” dei personaggi a loro modo nomadi (la claustrofobia di Ballando ballando e La cena e il tour de Il viaggio di Capitan Fracassa). Questi percorsi, magari, verranno felicemente battuti in altre situazioni.
Anno di grazia 1968: l’epifany del nostro eroe Alberto Sordi capita nel momento in cui, compiuta la missione di ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa, è sul punto di ripartire per l’Italia. Suggestionato dall’avventura esotica, il gretto borghese immagina ad occhi aperti il realistico incubo della solita festa borghese. Reintrodotto in società, il fuggiasco Nino Manfredi, rivestito e ripulito dopo l’esperienza mistico-cialtrona, seduto accanto al padrone di casa Sordi, si abbandona allucinato ad un gioco monotono di mani che meccanicamente battono sulle cosce ad intervalli regolari.
La festa ha luogo nella grande villa di Sordi che abbiamo visitato nelle prime sequenze del film: in esterni, people in the sun in una sorta di ironica citazione hopperiana; negli interni, lo sfarzo un po’ pretenzioso dei borghesi del boom.
(fotografia di Claudio Cirillo; scenografie di Gianni Polidori; costumi di Bruna Parmesan)
Siamo in piena commedia all’italiana, con echi abbastanza evidenti di critica di costume: in questa prima fase del cinema di Ettore Scola, la casa esprime una vacua insoddisfazione borghese, in cui la noia invade le stanze tanto da spingere l’editore a diventare il personaggio di una sua pubblicazione d’avventura. La borghesia industriale italiana è accolta in ville che non possono non nascondere l’inquietudine dell’assenza.
Le abitazioni private in cui si reca il commissario Pepe descrivono in qualche modo l’ipocrisia dei cittadini: le indagini di Ugo Tognazzi riguardano le classi sociali più elevate della benestante ed apparentemente morigerata città, i cui esponenti sono coinvolti in un perverso giro di abusi fisici e morali di natura sessuale. Per ingraziarselo, i borghesi lo introducono nelle proprie case agiate e confortevoli, non immuni al gusto pop dell’epoca ma ancora legate ai retaggi del passato e alla sbornia del boom, con la celata intenzione di includerlo nel gioco erotico del sotterfugio e della connivenza.
(fotografia di Claudio Cirillo; scenografie e costumi di Gianni Polidori)
L’apoteosi di questo discorso, ancora interno alle dinamiche di un regista alla ricerca della propria identità, è sicuramente la grande villa della famiglia Catenacci del capo d’opera C’eravamo tanto amati (che è recitata dalla celebre Villa dell’Olgiata, teatro del delitto di Alberica Filo della Torre nel 1991). L’incipit è ambientato proprio all’esterno della dimora, che gli ignari Manfredi, Stefania Sandrelli e Stefano Satta Flores raggiungono per restituire la patente smarrita da Vittorio Gassman, che credono morto di fame come loro.
Flashback. Le sequenze all’interno della villa sono il campionario di un cafonal d’antan, un “vorrei-ma-non-posso” all’ennesima potenza: le anguste poltrone del salotto, le librerie vuote, i cimeli d’oro, la testa del duce sul camino, i busti dei papi. Per rappresentare il “core romano” dei Catenacci, l’ambiente si riempie di tutto ciò che possa esprimere non soltanto la dimensione clerico-fascista ma anche la pacchiana pretesa dell’accumulo per mostrare l’opulenza degli arricchiti.
Il dopoguerra in bianco e nero vira al colore nella famosa scena del madonnaro e villa Catenacci continua a raccontare l’ascesa sociale del partigiano Vittorio Gassman e il suo cinico compromesso esistenziale. Se in camera da letto il sol dell’avvenir si stilizza in una cupa fantasia di raggi su sfondo nero, in sala da pranzo l’assurdo dell’agricola fiaschetta di vino sul predellino nulla può di fronte al proliferare di televisori in ogni angolo della stanza, ancora più emblematico se confrontato ai contraltari di Manfredi che lo vede in corsia e della famiglia del concorrente Satta Flores riunitasi in un luogo pubblico.
Così condizionata dalle mode intellettuali, la povera Giovanna Ralli subisce il colpo dell’incomunicabilità. Se gli interni ridondano delle cornici vuote di antonioniana memoria, è negli esterni in giardino che manifestano lo smarrimento dei personaggi: le fughe in avanti di Gassman che non vuole farsi trovare, Aldo Fabrizi e la sora Lella che urlano nomi dalle finestre, la figura della Ralli che si riflette nello specchio dell’acqua mentre il giardiniere continua imperterrito il suo lavoro. È una sequenza che racconta più di ogni altra la visione pessimistica della casa borghese (nel senso di capitalista) nel cinema di Scola: un luogo in cui nessuno ha la percezione dell’altro, il disorientamento confina con l’inquietudine, la noia divampa.
Alla morte di Elide, Gassman e Fabrizi restano soli. Fabrizi, invecchiatissimo e in carrozzella, atterra con un montacarichi che lo fa atterrare nei pressi della piscina. Il memorabile dialogo del “tu non scappi e io nun moro” è l’emblema del discorso di Scola, Age e Scarpelli sulla mancanza di una vera borghesia italiana e la villa vuota è il naturale contesto antropologico in cui la disfatta di Gassman deve trovare compimento.
(fotografia di Claudio Cirillo; scenografie e costumi di Luciano Ricceri)
A questo punto il discorso sulla casa borghese pare esaurirsi. E invece le propaggini sono due, fondamentali. L’autoritratto La terrazza è un film con cinque film dentro, e quindi una casa con cinque stanze dentro. Contesto: una terrazza popolata di radical chic che si incontrano ciclicamente per banchettare e discutere del nulla.
Prima stanza: la casa piccolo borghese dello sceneggiatore Jean-Louis Trintignant. Seconda stanza: la casa in centro del giornalista Marcello Mastroianni. Terza stanza: l’ufficio del dirigente Rai Serge Reggiani. Quarta stanza: la villa in stile Catenacci del produttore Tognazzi. Quinta stanza: il pied-a-terre che il deputato Gassman si fa prestare dal compagno di partito per incontrarsi con l’amante Sandrelli.
Concentrandoci sulla casa di Tognazzi, è abbastanza eloquente proporre un repertorio di immagini che descrivono un’amplificazione spietatamente sarcastica dell’opulenza dei Catenacci (anche il produttore, ex figurante di Cinecittà, è un ignorante arricchito) con una maggiore consapevolezza estetica ma la medesima condanna alla solitudine.
E lontano dall’immensa villa fuori dal centro, ecco il teatro esplicitato dal titolo, fedele ricostruzione delle terrazze del generone romano, che gli autori sembrano conoscere bene e, forse, frequentare con cinico piacere: le citazioni delle freddure di Flaiano, che ricorrono con sprezzante costanza nelle bocche dei disperati sinistrati comunque indolentemente radicati lì dove possono ergersi al di sopra della capitale.
(fotografia di Pasqualino De Santis; scenografie di Luciano Ricceri; costumi di Ezio Altieri)
Se è vero che il film risente di una certa dimensione funerea che gli autori comunicano per determinare l’epilogo di un genere, è altrettanto credibile ritenere La terrazza un lavoro definitivo, nel percorso scoliano, sulla riflessione critica attorno all’impossibilità di una credibile borghesia italiana attraverso l’osservazione dei loro discutibili ambienti domestici?
Se La terrazza è un film splendido e tuttavia incompiuto nella sua forma esasperata, barocca, caleidoscopica, è ne La famiglia che il discorso si fa minimalista e probabilmente completo. Summa poetica della riflessione sul rapporto tra spazio e tempo, fondato sulla reiterazione del carrello che attraversa il corridoio, è un film che corre lungo ottant’anni senza mai uscire dall’appartamento della fittizia via Scipione l’Emiliano 45. La grande casa borghese si riduce quando, nell’immediato secondo dopoguerra, la famiglia (senza cognome) deve far affittare una parte dell’immobile ad una famiglia meridionale: il carrello, quindi, si fa progressivamente più breve, come l’incidenza della borghesia nelle dinamiche socio-culturali del Paese che ritrae.
Carlo-Gassman, figlio del suo tempo, è in realtà fuori dalla sua epoca, che non sa capire più per arroganza intellettuale che per analfabetismo formativo. La Storia gli entra dentro casa. Lui è la sua casa. È il cavalluccio di legno dell’infanzia, il cimelio di zia Matilde che le zie rompono mentre litigano, le tavolate con l’ospite di turno a capotavola, il letto matrimoniale con lo schienale rigonfio, il pianoforte suonato dal grande amore Fanny Ardant, la poltrona in cui sprofonda nella vecchiaia. Le uniche volte che esce di casa sono per inseguire l’amore impossibile. Giocato sulla replica delle situazioni, La famiglia è la summa di questo discorso perché trova tregua nello spazio ristretto di una casa accogliente che resta immutabile. La borghesia, nella sua accezione migliore da “commedia umana”, abita qui.
(fotografia di Ricardo Aronovich; scenografie di Luciano Ricceri; costumi di Gabriella Pescucci)
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