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Il cannibal movie da Cannibal Holocaust a The Green Inferno
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Nonostante il famigerato Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, anno di grazia 1979, sia a tutti gli effetti il titolo più conosciuto e rappresentativo di quelli che si chiamano a giusta ragione cannibal movie, è in realtà Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi del 1972 ad inaugurare il filone – sebbene vada detto che in Lenzi assistiamo ad una sola scena cannibalica, mentre sarà Ultimo Mondo Cannibale di Deodato nel 1977 a improntare un intero film sul tema del terrore cannibalico.

Il filone ha goduto di un discreto successo cinematografico, ma non critico. Il pubblico ha premiato l’abbondante dozzina di film horror splatter di tendenza cannibalica che compongono il filone – se ne contano circa tredici tra il 1972 e il 1988, quando il ciclo si chiude con Natura Contro di Antonio Climati - svelando un’insana propensione per l’estremo violento. La critica sembra invece non aver digerito quelle pellicole che in pieni anni ’70 trasferivano la violenza scioccante delle stragi e degli attentati italiani sul grande schermo in contesti completamente diversi dalle solite strade, piazze e stazioni ferroviarie. La ricontestualizzazione in paesaggi esotici, quindi stranieri e lontani, fungeva da altrove in cui scaricare paure e rabbie represse, come una discarica lontano da casa, dagli occhi e dal cuore.

La lettura sociale e politica che si è fatta nel tempo rivalutando i cannibal-movie tende proprio a questo: la vittoria dell’antisistema sul sistema imperante di cui ci regalano un’ottima fotografia film coevi come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri e Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio. Impossibile non intravedere anche in un horror dalle caratteristiche sadiane e cannibaliche con così tanta generosità di frattaglie e sangue in primo piano, per non dire degli animali davvero uccisi e torturati durante le riprese, dei chiari e incisivi contenuti di segno politico antagonistico.

Il genere cannibalico, come è sempre stato in Italia il genere cinematografico dal gotico allo Spaghetti-Western passando per il peplum, l’horror, lo spionistico, l’erotico, il poliziottesco e la commedia scollacciata italiana, si basa su precise coordinate tematiche e narrative per introdurvi argomenti altri e alti che vanno dal politico al sociale, dall’esistenziale al filosofico. I topoi del cannibal formano, come in tutti i generi, l’ossatura intorno alla quale registi, sceneggiatori e attori di turno rimpolpavano secondo la propria sensibilità quella matrice di partenza con intuizioni proprie, variazioni e tematizzazioni autoriali. Questo, come è noto, aiuta il pubblico a riconoscere un prodotto a cui è affezionato preparandosi un orizzonte d’attesa preciso, ma permette anche, attraverso il gioco intertestuale, di apportare tematiche nuove, nuove riflessioni, nuovi indirizzi di pensiero trasformando un semplice prodotto industriale in un’opera d’ingegno creativo e intellettuale.

I cannibal movie si muovono dentro coordinate pressoché semplici e semplificanti. L’ambientazione esotica, quasi sempre terzomondista, porta l’horror alla luce del sole e non più rilegandolo all’oscurità della notte. In due fondamentali passaggi il genere cannibalico si è così già distinto poeticamente: gli incubi sono diurni – come gli attentati e le stragi terroristiche – ma lontani da noi, molto lontani da noi. La terapia dell’allontanamento però finisce qui, perché buona parte dei personaggi protagonisti è strettamente legata al nostro mondo. O perché italiani o perché uomini bianchi borghesi occidentali, questi personaggi ci ricordano chi siamo e che siamo noi gli sciagurati che davanti ad una situazione di estremo pericolo ritorniamo bestie sanguinarie e ci scopriamo ben peggiori dei primitivi cannibali. Il capovolgimento etico dei personaggi è l’unico elemento non originale di un genere interamente creato e nato da artigiani italiani. Infatti tutti già conosciamo L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972), nato da La fontana della vergine (1960) di Ingmar Bergman e Cane di Paglia di Sam Peckinpah (1970).

Cannibal Holocaust a cui Eli Roth ha detto di ispirarsi per il suo The Green Inferno (2013) è un film feroce, pieno di riferimenti sessuali e animaleschi che la società civilizzata da sempre vuole pubblicamente allontanare da sé, rilegandoli al mondo selvaggio. Ma la realtà è ben diversa e la bestialità dell’uomo civile prende ben presto il sopravvento sulla ragione: guerre, attentati, terrorismo, stragi domestiche, bullismi adolescenziali. Non bastano le dolci musiche di Riz Ortolani per addolcire questa lenta discesa – lenta anche grazie al costante riferimento fluviale – verso la fitta selva dell’umanità sospesa tra riferimenti danteschi e conradiani. È proprio il voluto contrasto tra la melodia paradisiaca e l’infernale crudeltà della frenesia carnale a rendere il film di Deodato la pietra miliare del genere e per gli epigoni a venire. L’incantevole scenario naturale si trasforma in una selva nella quale i fatti trasfigurano e da arcadici si fanno cruenti e animaleschi, di una violenza inaudita, raccapricciante e stomachevole.

L’estetica si fa poetica, la forma contenuto. Attraverso precise immagini e precise figure si possono veicolare temi forti e scomodi che altrimenti risulterebbero o poco praticabili o troppo intellettuali per essere efficaci ed arrivare a tutto il pubblico.

L’elemento “cannibale” non finisce certo con i feroci sbudellamenti e i barbari banchetti, continua infatti con il sottotesto erotico che innerva l’intero filone. Se da un lato Cannibal Holocaust sviscera tematiche politiche attraverso lo smembramento e la violenza animalesca e rituale, dall’altro solletica lo spettatore con le nudità, con i corpi esposti, sodomizzati, animalizzati di vittime e carnefici. Un gioco voyeuristico tra ossessione scopica e puro istinto carnale. Dopotutto non si dice forse che il sesso è un ingentilimento del cannibalismo? Una sua rifrazione per depistarci e non cadere nel tabù più atavico e inquietante? La copula dopotutto non è che il possesso del corpo altrui, la inglobazione dell’altro con tutta la sua fisicità. Il desiderio del corpo dell’altro passa attraverso l’atto sessuale e ci sazia. E non senza dolore. L’eiaculazione è un misto di fatica e piacere. La penetrazione conserva i dolori della deflorazione, ma certo non ne nega i piaceri corporali. Il meticciato sensibile della fisiologia sessuale è segnale dell’indivisibilità della natura ferina dell’uomo dall’altrettanto umana ricerca del piacere.

Questo bassocontinuo, che fa del cannibal movie una sacca orrorifica dell’eroticoesotico tanto in voga all’epoca, è anche il collante con cui la tematica cannibalica, l’avventura esotica e lo straniamento orrorifico possono sussistere al di là di ogni chiaro limite artistico o produttivo. Non va dimenticato che nonostante la buona fattura di molti titoli, diretti tra gli altri da nomi grossi dell’artigianato di qualità italiano come appunto i già citati Lenzi e Deodato, ma anche Joe D’Amato, Antonio Margheriti, Sergio Martino e Jesús Franco, il cannibal resta pur sempre un film di serie B con precisi codici di genere, limiti produttivi e una fattura a tratti puerile per uno spettacolo sostanzialmente sensazionalistico.

Eli Roth, che personalmente non mi è mai piaciuto fino in fondo, sembra sentirsi in sintonia con il farsesco e le realizzazioni sottotono. Il suo esordio è stato brillante per alcuni e mediocre per pochi. Cabin Fever (2002) non sono riuscito a farmelo piacere. L’esasperato umorismo black-splatter di discendenza jacksoniana – Bad Taste (1987) e Gli schizzacervelli (1992) – o raimiana – La casa (1981) – sembra, in quasi tutti i suoi passaggi, più farlocco che funzionale alla metadiscorsività dell’operazione del regista che certo non è né Peter Jackson né Sam Raimi. Ad una seconda visione già il film può risultare interessante, ma ugualmente fastidioso.

Segue Hostel (2005) e il sequel due anni più tardi. A parte qualche sequenza azzeccata, che continua con mestiere e intuizione la meteorica vita del torture-porn iniziato con Saw (2004), il film non esce dal tunnel della mediocrità. Tutto è posticcio e poco o niente riesce a riattivare quei dispositivi orrorifici che titoli come Non aprite quella porta (1974), Carrie (1976), Halloween (1978), Venerdì 13 (1980), Nightmare (1982) e anche qualche titolo minore come Prom Night o Terror Train entrambi del 1980, erano in grado di innescare nell’immaginario dello spettatore. Non è tanto il grado di disgusting che fa horror una pellicola, bensì la sua capacità di rappresentare in un primo momento e di ricreare in un secondo momento un universo di riferimenti immaginifici che diventano patrimonio emozionale condiviso. Atmosfera, modulazione narrativa e figurazioni varie tendono a creare cronotopi di alta efficacia rappresentativa e traduttiva. Cosa che non è riuscita a Eli Roth che, dopo la seconda parte di Hostel nel 2007, si è infatti divertito di più a recitare in vari film di natura diversa più che a dirigerne qualcuno che potesse servire alla causa dell’horror puro.

Gli va decisamente meglio sul versante produttivo. La nuova ondata di possession-movie, con esorcismi vari, gli ha permesso di giocare con le variazioni sul tema producendo in tre anni tre titoli di un certo rispetto: L’Ultimo esorcismo (2010), The Sacrament e L’Ultimo esorcismo parte II entrambi del 2013. Il meglio l’ha dato però con Hemlock Grove (2013) davvero una bellissima serie tv statunitense nata per il servizio streaming di Netflix e basata sul romanzo di Brian McGreevy. Uno dei rarissimi casi in cui la serialità horror non indugia in perturbazioni di ogni tipo, da quelle sessuali, omoerotiche, politiche e perfino edipiche, il tutto amalgamato al più classico dei plot licantropici, ma realizzato con una bravura tale e un ottimo dosaggio del materiale narrativo da rendere la serie una delle operazioni più riuscite in campo orrorifico non cinematografico.

Tornando al cannibal movie originale, va che detto che ovviamente non tutti i titoli prodotti nei suoi sedici anni di gloria sono da ricordare. I primi film degli ultimi anni settanta godono di una logica freschezza narrativa unita all’energia e alla creatività di un filone appena nato. I titoli migliori di quella prima fase sono Ultimo mondo cannibale (1977), Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977), La montagna del dio cannibale (1978) e ovviamente Cannibal Holocaust (1978). In tutti queste varianti dello stesso plot basico, un gruppo di occidentali sulle tracce di persone scomparse o di tesori nascosti o in viaggio per studi antropologici si perdono nella giungla e vengono braccati, rapiti, torturati, massacrati e infine mangiati da tribù primitive, è notevole la coerenza narrativa e la tenuta del ritmo narrativo oltre ovviamente a motivi e iconografie estremi che diventeranno nel tempo i topoi del genere.

Con gli anni ottanta il cannibal movie perde la sua carica iniziale, ci si sposta più volentieri sul porno riutilizzando tematiche tipiche dell’eroticoesotico come il bellissimo Sesso nero (1978) e il successivo Orgasmo nero (1980) in cui il cannibalismo è tematizzato solo in pochi e brevi segmenti narrativi. Entrambi i film sono di Joe D’Amato che nel 1981 girerà Porno Holocaust, affascinante frullato di erotismo, esotismo, pornografia, zombie movie e cannibal movie. Mentre il filone puro, da Mangiati vivi! di Umberto Lenzi (1980) a Natura contro di Antonio Climati (1988), non solo altalena film buoni a film più mediocri se non addirittura imbarazzanti come Mondo Cannibal di Jesús Franco (1983), ma all’interno degli stessi film la coesione tematica cede strutturalmente e lascia il posto a dominanti differenti come la setta purificatrice di Ivan Rassimov in Mangiati vivi! o il rapimento di un’attrice in Il cacciatore di uomini (1980) di Jesús Franco o Nudo e Selvaggio (1985) di Michele Massimo Tarantini dove l’incontro con la tribù cannibale è solo uno dei tanti problemi in cui incorrono i protagonisti. Perle del periodo restano comunque Cannibal Ferox di Umberto Lenzi (1981) e Schiave bianche – Violenza in Amazzonia di Mario Gariazzo (1985).

L’inizio del nuovo millennio, con tutti i problemi e le paure connesse con il cambio, deve aver ispirato Bruno Mattei, buon artigiano del cinema di genere italiano, che gira contemporaneamente due inguardabili cannibal movie: Nelle terra dei cannibali e Mondo cannibale, entrambi del 2003. Interessante invece Cannibal Love (2001), film franco-nippo-tedesco diretto dalla francese Claire Denise in cui si racconta di certi esperimenti atti ad ottenere un aumento della libido sulle cavie umane. Effetto collaterale di tali esperimenti era l’insorgenza della fame cannibalica durante l’atto sessuale.

Filmografia cannibalica

(completa anche di film che sfiorano il genere con una o due scene cannibaliche).

Il paese del sesso selvaggio (1972) di Umberto Lenzi

Ultimo mondo cannibale (1977) di Ruggero Deodato

Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977) di Joe D'Amato

La montagna del dio cannibale (1978) di Sergio Martino

Papaya dei Caraibi (1978) di Joe D’Amato

Cannibal Holocaust (1979) di Ruggero Deodato

Mangiati vivi! (1980) di Umberto Lenzi

Zombi Holocaust (1980) di Marino Girolami

Antropophagus (1980) di Joe D'Amato

Il Cacciatore di Uomini (1980) di Jesús Franco

Mondo Cannibal (1980) di Jesús Franco

Orgasmo Nero (1980) di Joe D’Amato

Cannibal Ferox (1981) di Umberto Lenzi

El tesoro de la diosa blanca (1982) di Jesús Franco

Schiave bianche - Violenza in Amazzonia (1985) di Mario Gariazzo

Nudo e selvaggio (1985) di Michele Massimo Tarantini

Natura contro (1988) di Antonio Climati

Nella terra dei cannibali (2003) di Bruno Mattei

Mondo cannibale (2003) di Bruno Mattei

The Green Inferno (2013) di Eli Roth

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