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Di cosa stiamo parlando (II). La discussione su True Detective 2
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La rete dà voce al mondo. Ma il mondo poi, ha diritto a parlare di qualunque cosa? Può l’insegnante di matematica intitolarsi critico cine-televisivo? Può la casalinga disperata che legge 50 sfumature di grigio avere abbastanza cultura ed esperienza per analizzare le strutture narrative di un prodotto moderno come contemporaneo? Può il ragazzino, il bamboccione, il tamarro di provincia, giudicare con radicalità di pensiero un film, una serie tv, un libro, un album e così via? Può argomentare con cognizione di causa? Con che strumenti? Con che formazione?

Già dopo la prima stagione di True Detective è scattata la gara agli elogi e alle condanne. Da un lato si sono schierati quelli che sembra abbiano visto solo l’interpretazione notevole di Matthew McConaughey dimenticandosi tanti scivoloni occorsi soprattutto nelle ultime quattro puntate. Dall’altro lato si sono schierati quegli spettatori che, vuoi per eccessivo sofismo, vuoi per limitate capacità intellettive, non hanno saputo interagire con la materia narrativa e si sono fermati alla lettura più superficiale. Lo stesso è accaduto con la seconda stagione.

Come rimprovero a True Detective #1 di aver un po’ giocato con lo spettatore, proprio come il gatto con il topo, usando cliché morbosi, ambientazioni affascinanti, interpretazioni borderline, per poi realizzare il tutto abbastanza linearmente e senza i sussulti di un David Lynch in Twin Peaks (1990); allo stesso modo rimprovero a True Detective #2 di aver usato troppi personaggi principali, quattro protagonisti contro i due della prima serie e del concetto base di coppia investigativa, di aver utilizzato in alcuni sprazzi un’iconografia disturbante – animali imbalsamati, maschere di corvo, oggetti sessuali, etc. – che ricordava la Hollywood della Dalia Nera e delle perversioni dei più ricchi, per perderla poi per strada.

La seconda stagione si è poi avvitata su se stessa incapace di scegliere un plot e mantenerlo principale e dominante. Il risultato è stato una serie di scivoloni di sceneggiatura abbastanza infelici: la precipitazione con cui Farrell capisce in qualche secondo chi è Lenny; la poco credibile fine di Vaughn che era riuscito fino all’ultimo a far quadrare tutto e poi perde le staffe per un abito (nonostante vi nascondesse i preziosi diamanti), per non parlare dei miraggi dei fantasmi della sua vita che lo vengono a trovare; lo sforzo spettatoriale per andare a riprendere volti e nomi e quindi anche ruoli interni alla vicenda; la trama “perversa” che si perde tra le pagine sostituita dalla trama “mafiosa”, e molti altri piccoli dettagli.

Non ho mai amato le spiegazioni. Valuto il quoziente intellettivo di una persona da questa piccola caratteristica: se a fine film vuoi che tutto abbia una risposta, che tutti i fili vengano annodati, che tutto ti venga spiegato, che tutto trovi il suo posto e nulla resti in sospeso tipo “questo ha fatto quello perché”, allora vuol dire che il prodotto narrativo di qualità non fa per te. Continua a guardare le partite: il risultato finale è più consolatorio e insindacabile.

Ecco perché pur con i loro difetti, entrambe le due stagioni di True Detective restano degli ottimi esempi di fiction e soprattutto di narrazione del contemporaneo, perché al netto degli scivoloni, hanno saputo giocare sulla forma e sul contenuto, puntando in alto e anche arrivando al pubblico più domestico/domesticato. In True Detective #2 Pizzolatto punta tutto sui personaggi e i loro caratteri, mentre in True Detective #1, oltre al disegno di due personalità gigantesche, c’è anche molta trama, la più lineare possibile, che ha permesso al grande pubblico domestico di accedere al contenuto della fiction e di digerire la forma poco commerciale del prodotto.

Nella seconda stagione invece, la trama si complica, si avvita su se stessa, si fa volutamente perdere per poi farsi ritrovare all’improvviso in un twist inaspettato della sceneggiatura. Il pubblico nazional-popolare, generalista e domestico, preferisce prodotti dalla trama chiara e lineare, facilmente comprensibile per dividere i bravi dai cattivi e anticipare le mosse dei personaggi, piangere con loro, ridere di loro, esultare e abbracciarsi a storia felicemente conclusa – Harrelson e McConaughey sopravvivono entrambi, mentre in TD2 muoiono 3 protagonisti su 4.

Al contrario, un pubblico più libero, più curioso, più acculturato, più e meglio formato al linguaggio narrativo, sia cinematografico che letterario o teatrale, sa farsi beffe della trama e sa così leggere tra gli interstizi della trama stessa o delle più trame e cogliere infine il senso più alto e organico dell’opera – notare anche i tanti silenzi e i tempi dilatati della narrazione, volti a teatralizzare e quindi rendere più intima la vicenda.

Il mondo che Pizzolatto ci ha descritto in queste due prime stagioni è un mondo sporco e corrotto in cui l’uomo è l’animale più crudele. Dal thriller a tinte horror della prima stagione al poliziesco urbano sospeso tra noir e mafia-movie, Pizzolatto ci ricorda che l’orribile mondo in cui viviamo ce lo siamo meritati. Vittime e carnefici della stessa carneficina, non c’è più distanza etica tra vendetta e giustizia, e non ci resta nemmeno la legge per sperare in un mondo migliore.

True Detective credo debba continuare per altre otto stagioni e segnare un intero decennio. Raccontare il contemporaneo non è facile, soprattutto in un’epoca che si interroga sul postmoderno – è mai esistito? Lo abbiamo vissuto? Lo stiamo vivendo? Ne siamo usciti? Adesso dove siamo?

Da due anime complicate e oscure come i due detective interpretati da Harrelson e McConaughey fino al dolente Colin Farrell – un po’ troppo sopra le righe nonostante la buona performance: sbagliato paragonarlo al Gene Hackman di La conversazione (1974) e di Bersaglio di notte (1975), (1) – l’umano Vince Vaughn, la disturbata e triste Rachel McAdams, l’impotente e irrisolto Taylor Kitsch – a sprazzi il migliore in campo, con quel viso spigoloso e arrotondato allo stesso tempo che sembrava Mickey Rourke messo a posto – il racconto contemporaneo di Pizzolatto non è finito. Tende alla creazione di una fauna umana desolata, ma reattiva. Non può ancora chiudersi il suo ciclo antropologico e sociologico, o forse ancora meglio solamente biologico.

Note:

(1) http://www.corriere.it/spettacoli/15_agosto_12/ma-colin-farrell-racconto-dolore-coraggioso-reale-ebee6e04-40db-11e5-a6d2-d8f2ee303642.shtml

Link:

http://www.wired.it/play/televisione/2015/07/08/true-detective-2-capitolo-unantologia-televisiva/

http://www.wired.it/play/televisione/2015/08/11/true-detective-2-recensione/

http://www.serialminds.com/2015/08/11/true-detective-2-season-finale/

http://www.corriere.it/spettacoli/15_agosto_12/ma-colin-farrell-racconto-dolore-coraggioso-reale-ebee6e04-40db-11e5-a6d2-d8f2ee303642.shtml

http://www.wittgenstein.it/2015/08/11/true-detective-2-finale/

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