"Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala."
L’estate cinefila francese prosegue infaticabile, e stavolta i titoli che compongono questo nuovo pugno di visioni per noi inedite (o quasi), è più che mai espressione e testimonianza preziose per confutare come la Francia tenga a mantenere vivo l’interesse per cinematografie d’autore che si allontanano dagli schemi tradizionali ed acchiappa pubblico, mostrando con una certa fierezza e coraggio come le ragioni del business non possano essere l’esclusivo timone in grado di decidere e selezionare le pellicole da sottoporre al pubblico nella sua generalità.
Anzi è bello riscontrare come, per certe piccole pellicole francesi, il contatto tra il regista e la sala cinematografica finisca per tenere da parte – almeno apparentemente – il predominio incontrastato dei distributori: mi riferisco in particolare a quanto successo i giorni scorsi in concomitanza con la proiezione del film COUP DE CHAUD: il regista Raphael Jacoulot, alla sua terza opera registica, passando al cinema Rialto a presentare la sua ultima fatica, ha inteso omaggiare la sala ed il suo pubblico, scrivendo di pugno un accorato ringraziamento sulla locandina per l’ospitalità e per tutti coloro che si fossero recati a vedere il suo film.
Un bel film, tra l’altro, questo Coup de chaud, ambientato durante una infuocata estate nella aperta e vasta campagna francese, nei pressi di un piccolo centro rurale il cui sindaco, un veterinario pacifico ed assennato, cerca di persuadere i contadini della zona a tener duro nonostante le condizioni metereologiche avverse al buon esito dei loro raccolti.
L’apparente routine pacifica che disegna giornate sui campi arsi dalla siccità, è rotta dai tentativi maldestri di un ragazzo violento ed incontrollabile, figlio di zingari e ferraioli visti con sospetto dalla comunità, che, oggetto di scerno da parte dei coetanei ed innamorato della bella ragazza del paese, già in rapporti stretti ed intimi con bullo tosto e piacente del quartiere, perde quel poco di senno che lo conduce e si muove a ruota libera, commettendo infrazioni e reati gravi a cui poi si addossano altre responsabilità per fatti o reati di cui egli è completamente allo scuro.
Insomma lo strambo del villaggio finisce per diventare l’origine e la causa di ogni malessere del paese, e lo stress, la calura che annebbia le menti, anche quelle apparentemente più assennate, finisce per addossare sul balordo tutte le colpe e le disgrazie accorse alla comunità.
Il ritrovamento del cadavere del ragazzo in prossimità del bordo di una piscina di una villetta familiare ove solevano riunirsi i ragazzi della comunità, getta scompiglio e fa nascere un’indagine di polizia che mette in luce tutta una serie di sotterfugi e piccoli grandi segreti che la comunità ha sempre tenuto nascosti per quieto vivere e per vigliaccheria.
Ma la verità, frutto di una maligna ironia del destino, viene presto a galla, lacerando le coscienze di tutti coloro che credevano di sapere tutto e si innalzavano a giudici retti, garanti del bene pubblico e della pacifica convivenza del gruppo.
Si respira l’aria frizzante (seppur afosa) ed autentica della provincia nel film riuscito di Jacoulot, interpretato da un gruppo di ottimi caratteristi (due dei quali, il massiccio Gregory Gadebois e la nervosa Carole Franck, già visti ed apprezzati nel televisivo di successo Les revenants), più il solito ottimo Jean Pierre Darroussin, nei panni del sindaco mite e saggio.
Ma è il giovane Karim Leklou, nei panni del giovane balordo Josef, cacciato e canzonato da tutti, che merita una menzione: nel suo colto, nei suoi occhi, la follia incontenibile, l’ira dell’animale ferito che cerca di ritrovare dignità e forze per riprendere la sua fuga. Un volto irregolare che ci ricorda i personaggi straordinari e spasso disadattati dei film di Dumont.
VOTO ***1/2
Parlavamo di “femme fatale” poco sopra….eccovene due eccezionali: la prima ne:
LA DAME DANS L’AUTO AVEC LES LUNETTES ET UN FUSIL è una valchiria timida e anche un po’ impacciata, con ingombranti occhiali da miope che tuttavia non riescono ad adombrarne la perfezione dei lineamenti e la statuarietà di un fisico da modella che non passa per nulla inosservato. Siamo in pieni anni ’70, a Parigi, e la ragazza, per non deludere le richieste del suo capo, che la considera come la sua dattilografa di fiducia, accetta di accompagnare a casa il datore di lavoro, fermandosi tutta la notte nella camera degli ospiti per finire di battere a macchina un importante e lungo contratto. Sembrerebbe a primo, malizioso ma inevitabile giudizio, un piano del capo per sedurre la collaboratrice, salvo poi notare che in villa quest’ultimo ha già una moglie, e pure bella (per forza! È Stacy Martin, la modella già vista in Nymphomaniac di Von Trier e in Racconto dei Racconti di Garrone).
Il mattino la famiglia si dimostra a tal punto riconoscente con la fanciulla, da prestarle una fiammante Tunderbird verde pastello in modo che ella possa rientrare a casa, dato che il capo è in partenza per l’estero con la moglie e la figlioletta.
Ma la dame non ha mai visto il mare, e la tentazione di svoltare verso Cannes e la Costa Azzurra è un passo obbligato, che porterà la giovane al centro di un intrigo spionistico con il morto piuttosto concitato e labirintico ove tutto avrà una spiegazione a tempo debito.
Un thriller patinato ed effettato che tuttavia avvince per l’eleganza retrò che caratterizza stile, costumi, auto di lusso e d’epoca che sfilano lungo la vicenda, nonché ville e locations di lusso che non fanno che rendere ancora più divertente il giochino: una rincorsa contro il tempo che ci catapulta in case dagli arredi stilizzati e futuristici, dove tutto va preso appunto come un gioco, un crudele e sadico percorso ove una vittima designata trova la forza di reagire, ribellandosi e ristabilendo ruoli e priorità…senza per questo rinunciare a vedere il mare della costa lussuosa e frastagliata che circonda Antibes & dintorni.
Joahn Sfar, nato disegnatore e noto per alcuni disegni animati come “Le chat du rabbin” e il biopic/musical “Gainsbourg”, si diverte e ci diverte sfoggiando uno stile glamour e ricercato che diviene il filo conduttore della vicenda e la ragione di tutto. E’ sufficiente entrare in sintonia con il giochino, con i suoi ingranaggi ben oliati e con l’eleganza ostinatamente ricercata che avvolge ogni inquadratura, per rimanerne affascinati ed avvinti. Certo un bel gioco dura poco…. ed il film ha la decenza e furbizia di non prolungarsi inutilmente aggiungendo ulteriori tranelli ad un gioco sadico e machiavellico che sa tener desta l’attenzione. Nel cast pure il nostro Elio Germano nel ruolo di un truffatore italico tutto nervi e testosterone.
Il film è il remake scintillante e gradevolmente manierato dell’omonimo film di Anatole Litvak del 1971 con Samantha Eggar e Oliver Reed.
VOTO****
Il secondo noir, ancora più interessante, è LA NINA DE FUEGO (il titolo internazionale decisamente più opaco suona come Magical girl), produzione spagnola che ha entusiasmato Almodovar, e che ha regalato (meritatamente) un premio Goya alla sua potente e risoluta (oltre che pazza da legare) protagonista Barbara Lennie.
Innanzi tutto guardate quanto è più bello ed intrigante il manifesto originale, così retrò, così da B movie, mantenuto peraltro con scaltrezza e buon senso nelle sale francesi!
Una donna instabile mentalmente, ma molto attraente, finita in sposa al medico che l’ha curata per anni, viene posta al centro di una intricata macchinazione: un ricatto da parte di un individuo incontrato per caso, che porta la donna ad accettare di entrare a far parte di un circolo vizioso e difficile da abbandonare, un ritorno di fiamma di un uomo che, suo malgrado, deve uscire di galera ma non vuole per paura di incontrare la donna, da sempre la causa della sua rovina.
Finirà nel sangue, con una violenza assassina che non ci si aspetta dopo le lunghe attese meditative a cui la vicenda ci ha abituato per quasi ¾ della storia.
Ottime atmosfere per un film che punta tutto sul non detto e gioca con lo spettatore come il gatto con il topo: sadicamente, calcando la mano sulle situazioni torbide e sul personaggio della femme fatale, autodistruttiva e micidiale, una vedova nera che si mangia gli uomini con cui si accoppia.
VOTO ****
AFERIM! è un riuscito, interessante western romeno ambientato nei primi dell’800 il cui titolo si potrebbe tradurre con un “ben fatto”, incitazione che un padre claudicante e chiacchierone si prodiga a riferire al giovane figlio , condotto insieme a lui in missione per trovare uno schiavo, inizialmente reo di aver rubato dei soldi, poi in realtà riconosciuto colpevole di aver sedotto la moglie del capo villaggio.
Catturato con una certa facilità il docile fuggiasco, nemmeno molto colpevole, ma vittima delle circostanze, dei raggiri, e soprattutto di essere l’ultimo gradino di una gerarchia sociale che vede gli ultimi sempre colpevoli, i tre intraprendono un viaggio di ritorno che li induce ad incontri bizzarri, tra vallate vergini che il bianco e nero rende dei veri e propri paesaggi western. L’occasione propizia per un padre di snocciolare qua e là, più o meno a sproposito, vecchi detti o antiche dicerie al fine di svezzare un figlio ancora acerbo nelle attitudini e nel carattere.
Un viaggio dal sapore grottesco addentro alle barbarie gratuite perpetrate dalla razza umana a coloro che si arrendono e si dimostrano umili ed obbedienti: la più feroce natura prevaricante e ferina della razza umana che affiora e diviene lo specchio di un comportamento umano che risulta senza età, e come tale figlio di ogni epoca e dunque sempre attuale e pertinente ad ogni livello o stadio sociale.
Violenza che chiama violenza, legge del taglione che finisce per punire l’umile, la vittima sacrificale, colui che non ha davvero più nulla da perdere se non i propri genitali. Orso d'argento per la migliore regia a Berlino 2015.
VOTO ****
Adattato dal romanzo autobiografico di Gabriel Chevalier, LA PEUR (The fear) di Damien Odoul, Premio Jean Vigo 2015 (riconoscimento in onore al grande regista francese, attribuito dal 1951 al cineasta francese che più di ogni altro si è distinto ogni anno per la sua indipendenza di spirito o per la originalità del suo stile), ci scaraventa negli orrori della trincea lungo la sanguinosa Grande Guerra: la carneficina della battaglia vista negli occhi devastati del giovane volontario Gabriel, timido ed introverso, costretto suo malgrado a confrontarsi con le regole spietate del massacro e le insensatezze di una battaglia che vede i soldati di ognuna delle due parti avverse come le uniche vere vittime di una partita che si gioca virtualmente ai vertici, ma si subisce sul campo tra i poveri e gli umili, votati al sacrificio.
Immagini devastanti che non ci sono nuove, per un film che ripercorre come tanti l’odissea tragica delle scelte assurde dell’uomo di prevaricare chi gli sta vicino, con qualche ripresa originale e una buona aderenza al realismo schietto di chi l’esperienza l’ha scritta dopo averla vissuta.
VOTO ***
ORIANA FALLACI
Versione cinematografica destinata al mercato francese del film per la tv di Marco Turco dal titolo L’Oriana, cinebiografia della più famosa reporter/giornalista/scrittrice del secolo scorso e dell’alba del nuovo millennio. Due puntate televisive da due ore ridotte ad un unico film da poco più di un’ora e quaranta, trasformano il racconto in un groviglio di montaggio ove tra flash back temporali ed episodi salienti del lavoro ostinato ed in prima linea della celebre giornalista, il film diventa una accozzaglia poco convincente di vicende anche famose, come l’incontro/intervista con esponenti politici di primo livello ed artisti od esponenti di primo livello.
Il linguaggio resta quello elementare, esplicativo di una televisione che appiattisce e semplifica il discorso narrativo fino alla puerilità; il prodotto nella sua interezza non sono in gradi di giudicarlo, non avendolo visto; questa riduzione (è proprio il caso di dirlo) cinematografica diviene, nonostante l’impegno e lo sforzo meritorio di una Vittoria Puccini davvero motivata (ma, spiace ammetterlo, anche fisicamente non in grado di tener testa alla prova “mimetica” di Maria Rosaria Omaggio del Walesa di Wayda), un prodotto senza capo né coda che non può che lasciare un senso di incompiuto, come di un racconto con molti incisi che non è in grado di concludere il suo percorso principale.
VOTO *1/2
Prossimamante qui a Oltreconfine:
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