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DIAVOLO DI UNO ZIO SAM!!! IL CINEMA DI SAM PECKINPAH NELLA COMPLETA RETROSPETTIVA CHE IL FESTIVAL DI LOCARNO 2015 HA DEDICATO AL GRANDE MAESTRO DEL WESTERN
di alan smithee ultimo aggiornamento
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Sam Peckinpah (1925-1984) è stato il più importante innovatore del cinema western che, come precisato dal critico francese Jean Douchet alla presentazione del suo secondo lungometraggio presso il cinema Ex Rex di Locarno, Sfida nell’alta Sierra, ad inizi anni ’60 stava vivendo un periodo di stanca dopo i clamori anni dei tardi anni ’30, ma soprattutto in pieni anni ’40 e ’50, grazie a registi come John Ford e Howard Hawks.

Ecco che Peckinpah si concentra su un genere ormai ritenuto tramontato, ne rielabora l’azione esaltandola e conferendo ai suoi personaggi, sia positivi che negativi, un lirismo e una profondità psicologica che forse fino a quel momento il genere western non aveva mai avuto, correndo spesso il rischio di essere popolato da personaggi monodimensionali e quasi caricaturali.

Il suo cinema, che sarebbe molto riduttivo confinare al solo genere western, finisce per essere l'anticipatore o l'ispirazione di quella corrente cinematografica variegata ed ispirata conosciuta oggi come la New Hollywood, culla di tutta una generazione di registi fondamentali nel panorama americano anni '70. Tendenza cinefila vasta e colma di presenze cult che è stata tra l'altro per ben due anni consecutivi oggetto di retrospettiva piuttosto esaustiva e completa presso le ultime due dizioni del Torino Film Festival.

Dopo La morte cavalca Rio Bravo, Peckinpah dirige appunto SFIDA NELL’ALTA SIERRA, western malinconico e crepuscolare che vede al centro dell’azione due vecchi cowboys al tramonto e senza un dollaro, impegnati a dar prova di sé assicurando con la loro presenza il buon fine di una compravendita di oro da parte di un banchiere, presso una cava mineraria in via di esaurimento.

Randolph Scott e Joel McCrea sono perfetti nel ruolo nostalgico degli eroi ora decaduti nella miseria più nera, testimoni acciaccati di un passato glorioso che ormai è solo un ricordo lontano.

La missione vedrà coinvolto altresì un giovane e focoso cowboy in cerca di consorte, ed una ragazza fuggita di casa dal padre troppo oppressivo, alla ricerca di uno spasimante, che tuttavia la costringe ad un matrimonio di cui potrà solo pentirsi.

Ecco che le vicende personali che uniscono i vari individui finiscono per complicare l’avventura, mettendo in forse certe amicizie e  fedeltà ritenute per scontate, salvo poi ritrovare la lealtà ritenuta perduta in un finale concitato tutto sparatorie e colpi di scena.

Ride the High Country è un ottimo western che alterna azione e sparatorie ad uno sviluppo dei rapporti umani tra i vari personaggi, occasione che permette a Peckimpah di sviscerare alla perfezione e descrivere efficacemente il clima di diffidenza e di testarda determinazione che anima i protagonisti, permettendo ai due vecchi protagonisti di riscattarsi con una nobiltà d’animo ed un altruismo che parevano decisamente ben lontani dai relativi caratteri e comportamenti.

Perfetti Randolph Scott e Joel McCrea, veri cowboy (e dunque anche attori) al tramonto, che riescono meglio di chiunque altro a emozionare dando credibilità e dignità nel disegnare due personaggi ormai in ritardo con i tempi e dunque in persistente affanno con la nuova aria di cambiamento che li vede come fantasmi fuori luogo di un tempo ormai inesorabilmente tramontato.

Tra gli attori coinvolti, comincia ad intravedersi, in un ruolo di contorno, un interprete affezionato di zio Sam, ovvero Warren Oates, in uno dei suoi ricorrenti ruoli da canaglia e cane randagio.

VOTO ****

PAT GARRETT & BILLY THE KID è datato 1973, e ed è incentrato tutto pure questo, come Sfida nell’Alta Sierra, nel raccontare la fine di un’amicizia virile e leale che univa due validi pistoleri, un tempo impegnati a difendere le proprietà del loro capo Chisum dai rivali ed altrettanto avidi latifondisti di confine. Quando poi il proprietario terriero spunta con lo stato un accordo pacificatore, Pat capisce che è ora di cambiare ruolo e diviene sceriffo di una piccola contea, mentre il più giovane Billy continua a spadroneggiare per le terre del suo padrone, incurante dei nuovi accordi da esso intrapresi.

Ecco dunque che Chisum comprende che l’unica soluzione è eliminare il ribelle indomabile, e per far questo incarica proprio Pat, il suo ex socio ed amico, quello che più lo conosce e può comprenderne le mosse. Sarà l’inizio di una caccia spietata ed inesorabile. Nel cast pure un giovane Bob Dylan, grazie alla cui colonna sonora e al cult “Knockin on heavens door”, il film diviene immortale e leggendario.

VOTO **** 

THE RIFLEMAN

Già gli esordi cinematografici, risalenti al 1958, o comunque dietro una macchina da presa, da parte del giovane Sam Peckinpah, sono segnati dal western: The Rifleman è una serie di ben 168 episodi da 30 minuti ciascuno, ideata ed in buona parte diretta da Sam.

Protagonista l’attore piuttosto celebre in quegli anni, il monolitico (ed espressivamente piuttosto monocorde) Chuch Connors, nel ruolo di un veterano della Guerra Civile Americana, vedovo e con un figlio decenne, che decide di andare a vivere nella cittadina periferica (fittizia) di North Fork, nel New Mexico, divenendone in qualche modo il garante per quanto attiene al quieto vivere e alla sicurezza, forte della sua abilità e destrezza col fucile.

Vicende legate a soprusi e disonesta ai danni dei più deboli ed oppressi, sono affrontati ogni volta con coraggio e disinteressata fattiva collaborazione dall’eroe di tutti i giorni, garante della pace pubblica e del convivere armonioso. Scenografie ricostruite in piccoli spazi, ma piuttosto efficacemente elaborate, costituiscono un teatro geografico un po’ ripetitivo ma di sicuro e positivo impatto.

VOTO **1/2

Peckinpah a Locarno lo si vede pure nei film che gli sono sfuggiti di mano completamente, oltre che in quelli in cui il regista denuncia apertamente e con tenacia la propria disapprovazione per come sono stati modificati in sede di montaggio durante la post-produzione.

Tra i film sfuggiti completamente di mano, il più famoso è senz’altro CINCINNATI KID, una pellicola che lo stesso regista non poté girare in quanto licenziato in tronco dopo solo una settimana di riprese a causa di grossi diverbi con la produzione: circostanza questa, che rese difficoltose molte altre avventure cinematografiche del regista, definito da tutti un uomo difficile da seguire e impossibile da tenere a bada da parte dei finanziatori. Un film peraltro e comunque notissimo e cult soprattutto da parte degli appassionati di poker.Ciò nonostante, tenuto anche conto del fatto che il sostituto Jewison non è proprio un mestierante senza carattere, il film è davvero un riuscito mix di tensione e glamour, grazie ad un cast da sogno che, ancora a rivederlo oggi, risulta come l'immedesimazione del divismo e l'importanza del saper bucare lo schermo con le proprie fattezze: Steve McQueen, il Cincinnati sbruffone ed abile giocatore del titolo, è in forma smagliante, sexy ed ironico quanto basta per far impazzire i suoi fans e ha davanti quasi un ventennio di divismo assoluto; il suo illustre rivale Edward G. Robinson è un cattivo di classe apprezzabile e nemmeno troppo cattivo, anzi di estrema eleganza; in aggiunta al bel volto intenso di Carl Malden, essi costituiscono un terzetto attoriale da brivido, mentre letre stelle femminili Margret, Weld e Blondell fanno dello charme la loro arma da combattimento più efficace.

VOTO ***1/2

 

La proiezione di Osterman Weekend è preceduta da un prezioso corto dei primi anni '80 in cui il regista cinefilo Olivier Assayas intervista, sulle rive di un laghetto ameno statunitense, un Sam Peckinpah invecchiato certo, provato dalla malattia, ma non per questo domo o arrendevole, onorandoci di farci assistere a gran parte della magistrale, efferata, interminabile sparatoria finale de Il mucchio selvaggio (VOTO *****), e facendo spiegare al suo regista quali sono i motivi fondamentali del suo costante attrito con il mondo hollywoodiano, con le scelte devastanti della produzione che ne hanno, a suo dire, devastato oltre ¾ della sua celeberrima produzione cinematografica. Peckinpah ci spiega anche la sua accezione di film d’azione, di come si prepara a girare le sue memorabili scene di massa e le sparatorie, gli inseguimenti, il famoso crollo del ponte di legno che ancora una volta contribuisce a rendere unico il suo Mucchio selvaggio.

Seguiamo poco dopo la proiezione dell'ultimo film di Peckinpah: OSTERMAN WEEKEND, farraginoso ma affascinante e godibile spy story tratta dal romanzo di Robert Ludlum Striscia di cuoio, e popolato da un cast eccezionale che vede in prima linea Rudger Hauer, John Hurt, Craig T. Nelson (l'Osterman del titolo), Dennis Hopper e Burt Lancaster in un cameo di lusso, ci riporta alle sferzanti atmosfere da guerra fredda di metà anni '80 con una storia di sospetti ed indagini che si fatica a capire e collegare fino in fondo, ma che sa divertire e farsi apprezzare anche grazie alla grande capacità del regista di saper coniugare scene d'azione – spesso in un ralenti che solo con Sam diviene fondamentale e non ridondante o fastidioso – ad uno studio approfondito sui personaggi e i rispettivi caratteri.Il raduno in casa di un celebre anchorman televisivo da parte di tre coppie di amici, richiama l'attenzione dell'FBI che da tempo sospetta che i tre uomini collaborino efficacemente per il KGB tramite un'operazione segreta denominata Omega. Pertanto un funzionario impone al giornalista di mantenere la festa nella sua casa di montagna, ma sottopone il luogo e la struttura ad un monitoraggio sofisticato al fine di carpire i dettagli del complotto, e spingendo il padrone di casa a dividersi in un doppio gioco pericoloso e altamente rischioso, quando è la su stessa famiglia a poter rischiare di rimanerne vittima. Il tutto giostrato da un abile ed umano tecnico informatico, in lutto per aver perso la moglie proprio in occasione di una precedente operazione volta a stanare un complotto della medesima tenace organizzazione spionistica.

Belle atmosfere per un film certo datato ma forse bello ed apprezzabile proprio per quello.

VOTO ****

GETAWAY!

Parte con calma e ritmo riflessivo Getaway!, colpo grosso alla banca da parte di uno scassinatore impenitente e recidivo fatto uscire di galera proprio affinché possa dedicarsi al grande colpo.

La sceneggiatura potente e calibrata di Walter Hill prende corpo grazie alla maestria del grande Peckinpah che, tra inseguimenti, sparatorie e uso smodato ma meraviglioso del “ralenty”, firma un caposaldo del genere che non fa rimpiangere il capolavoro Rapina a mano armata di Kubrick.

McQueen è al primo film col regista, visto che il loro incontro in Cincinnati Kid fu un fallimento (per il regista, licenziato poco dopo le riprese), e così pure per Ali McGraw, bella come Brooke Shields qualche anno dopo. Entrambi torneranno a girare col maestro, dopo essersi amati, sposati, e aver divorziato. Ma questo è tutto un altro film.

VOTO ****

 

THE CROSS OF IRON

Sam Peckinpah e l’assurdità della guerra: Crimea 1943: un battaglione tedesco di soldati valorosi, guidato dal colonnello Brandt (Mason), ma portato all’azione dal valoroso caporale Steiner (Coburn), si oppone strenuamente all’avanzata russa, fino al giorno in cui dai centri strategici di Berlino mandano il capitano prussiano Stransky (Schell), uomo da scivania e per nulla avvezzo alla pratica sul campo, ma tanto ambizioso da desiderare più di ogni altra cosa la medaglia al valore denominata appunto “La croce di ferro”. Contrasti a pelle ed odio implacabile tra un ufficiale ed un semplice ma prezioso sottoposto, che finirà per testimoniare la circostanza ingannevole per cui lo stesso capitano si sarebbe inopportunamente vantato di meriti in campo non suoi.

Nasce uno scontro interno, una guerra nella guerra che rende ancora più assurdo e disumano il confronto bellico. La trasferta di Peckimpah sul fronte è memorabile ed il film, connotato da un gran dispiego di mezzi e da una direzione delle scene di assalto magistrale, con carri armati e cavalli come un western ivìbiido ed affascinante, non rinuncia per nessun motivo ai ralenty ad effetto, circostanza che solo con Peckinpah risulta vincente e mai forxzata o superflua, se non rozza.

Un canto di voci bianche ed innocenti apre e chiude uno fra i tanti capitoli della variegata barbarie umana, della insensata brama di potere che rende gli uomini delle belve sanguinarie e  disumane, e Peckinpah uno dei più illustri registi in grado di esplicitarne gli effetti e denunciarne la gratuità ed insensatezza delle sue tragiche conseguenze.

VOTO ****

 

SAM PECKIMPAH: MAN OF IRON

E’ il titolo di un interessante documentario  diretto dal documentarista Paul Joyce nel 1993, in vista dei primi dieci anni dalla scomparsa del grande regista, che chiude la mia personale esperienza festivaliera di Locarno all’interno della retrospettiva che il festival ha inteso dedicare a Sam Peckinpah.

A parlare stavolta sono i più stretti collaboratori, gli attori più affiatati, gli amici ed i parenti del grande Sam: ognuno di loro documenta e testimonia piccole grandi verità, stati d’animo, caratteri personali e sfaccettature del grande uomo di cinema, senza mai sconfinare in atteggiamenti di patetismo o di commiserazione, circostanze che lo stesso Sam avrebbe rinnegato.

Ne esce fuori la figura di un uomo tenace, sicuro di sé per quanto riguarda il suo lavoro, l’impostazione da dare alla sua narrazione, la sua posizione su tematiche come la violenza ed il sopruso, la considerazione della donna in un mondo popolato e sopraffatto da una presenza maschile oberante e quasi tirannica; ma anche un uomo minato da vizi e abusi che ne hanno condizionato l’esistenza, portancelo via davvero troppo presto.

Kris Kristofferson, Ali Mc Graw, James Coburn, Jason Robarts, Monte Hellman ed altri attori suoi fedeli ci raccontano piccoli grandi momenti di condivisione di vita sul set. Ci sarebbero stati benissimo anche Steve Mc Queen e Warren Oates, quest’ultimo suo assiduo attore più che ogni altro, non ci avessero lasciato anch’essi ancor più prematuramente del caro zio Sam.

VOTO ***

 

 

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