Le giornate si succedono vorticose e concitate qui a Locarno; i film visionati aumentano e il tempo per rendervene conto si assottiglia a frattaglie temporali, tra una proiezione e l'altra, sempre più esili: frammenti di tempo in cui, portatile alla mano, si cerca di scrivere velocemente qualche impressione prima di tuffarsi in nuovi mondi, nuove situazioni, nuovi territori, geografici ma non solo.
Restando per una volta in Svizzera col primo film in Concorso della giornata, ecco HEIMATLAND, film collettivo che segue un apparente filone catastrofico, almeno come presupposto per formulare una inquietante ipotesi che capovolge un luogo comune ormai consolidato: quello di mostrarci una Svizzera non più come meta agognata, patria del sogno dei profughi, paradiso fiscale dei bei tempi, opportunità di carriera e successo per menti brillanti soffocate nell'ingegno o nell'inventiva da impedimenti o castrazioni causate generalmente da privazioni della libertà di intraprendenza legate al paese di appartenenza.
Nel tardo autunno una minacciosa coltre di nubi minaccia improvvisamente i cieli svizzeri e rimane immobile a sovrastare l'intero Paese, costituendo l'inizio di un pericolo di proporzioni inaudite, secondo quanto affermano gli esperti meteorologi.
Nel giro di cento minuti seguiamo le vicende di alcuni personaggi (sin troppi in realtà) agire, comportarsi, assimilare una situazione di pericolo imminente che getta in un limbo sospeso una intera comunità, di per sé abituata a vivere in una situazione di controllata sicurezza ed organizzazione, per la prima volta protesa ad affrontare un'emergenza dalle mille incognite e dalle nefaste previsioni: assalti a supermarket, crisi interiori, bilanci esistenziali, feste di addio al mondo e alla vita; ognuno reagisce a seconda del proprio carattere, ma quando la gente matura la convinzione che è meglio lasciare il paese, per una volta saranno i paesi confinanti ad opporsi creando una cortina per bloccare i migranti in fuga disperata.
E' questo il picco di interesse, assurdo ma originale, di un film dai toni assurdamente e un po' goffamente apocalittici, che promette molto di più che quello che lascia dopo la visione.
Ma la teoria relativa ai nuovi migranti “di lusso” banditi dai confini dell'Europa è una ipotesi accattivante e maliziosa che è impossibile trascurare e, in fondo, visto quello che succede intorno a noi relativamente all'immigrazione, non apprezzare in modo sottile ed intimo, non senza una meditata cattiveria o velato cinismo interiore.
VOTO ***
Sempre in Concorso , un buon film israeliano, shoccante e con scene forti che lo fanno ricordare, e pure apprezzare:TIKKUN.
Le vicissitudini di un giovane ispirato religioso di nome Haim-Aaron, figlio di un macellaio molto attento ai dogmi e alle usanze della religione ebraica, iniziano a trasformarsi in tragedia quando, in seguito ad un digiuno premeditato a scopo di penitenza, egli sviene più volte, a partire da un banale taglio ad un dito, ad un tragicomico incidente domestico in doccia.
La caduta brusca e banale in doccia mentre contempla una potente erezione che non riesce per nulla a controllare, e che si erge fiera a dimostrare quanto sia uomo,gli provoca un trauma cranico e lo svenimento. Impossibilitati a rianimarlo, i medici del pronto soccorso lo danno per morto dopo una lunga stimolazione cardiaca, ma il padre, insistendo a modo suo con il massaggio al cuore, lo riporta in vita quasi miracolosamente.
La nuova esistenza del ragazzo, quasi risorto alla morte, sarà minata da dubbi ed incertezze che lo pongono dinanzi ad un bivio: continuare con la sua dottrina rigorosa e punitiva, o concedersi ai piaceri dei sensi, nei confronti dei quali sembra ben più attratto che nel suo precedente e molto inibito passato di aspirante religioso?.
In un bianco e nero efficace ed inquietante che comunica efficacemente il grigiore di una vita di sole imposizioni, Tikkun è un film duro che segnala un tentativo di metamorfosi, senza per questo prendersi la briga di giudicare o commentare i tentativi di svolta del suo incerto protagonista.
Un film forte e rigoroso, uno dei migliori passati fino ad ora al Concorso
VOTO ****
Nella sezione Concorso Cineasti del Presente, che racchiude in genere opere prime e seconde, mi soffermo sul cinese LU BIAN YE CAN (titolo internazionale KAILI BLUES), celebrazione dai toni intimi e pacati di un viaggio intrapreso da un indaffarato medico che decide di intraprendere una avventura alla ricerca di un ragazzino abbandonato da suo fratello: opportunità questa per addentrarsi in luoghi quasi vergini, primitivi, popolati da contadini e persone semplici che vivono con i fantasmi e le credenze primordiali che si sviluppano nelle immense foreste che cingono i piccoli centri abitati che costeggiano corsi d'acqua e strade contorte, unici collegamenti tra una provincia remota ed i centri metropolitani. Alla scoperta di creature primitive che talvolta appaiono improvvisamente e scompaiono con la stessa velocità dalle nostre vite sempre concitate e stressate da impegni ed appuntamenti.
La regia ci pone ad un certo punto come degli inseguitori del protagonista, che tallonano in questo suo pellegrinaggio concitato il nostro individuo, cavalcando lo scooter che lo accompagna e salendo sulla autovettura che lo ospita.
Un viaggio che inizia lento e che procede via via accumulando fascino con l'inoltrarsi nei territori accidentati che è una reale emozione scoprire con gli occhi del protagonista.
VOTO ***
In DEAD SLOE AHEAD, anch'esso della rassegna Concorso Cineasti del Presente, si intraprende un nuovo viaggio, in forma di documentario d'atmosfera piuttosto affascinante: questa volta per mare, su di un cargo che solca l'Atlantico fino a nuove rotte imprecisate. Un mostro meccanico che si apre impudicamente alla cinepresa, mostrando il suo ventre di ingranaggi rumorosi ed inquietanti in cui pochi uomini addestrati riescono a spartirsi i compiti, dominandolo e a governadone la rotta.
Almeno fino a che essi, uno dopo l'altro, finiscono misteriosamente per svanire, dopo che una falla sullo scafo minaccia l'equilibrio della struttura e la nave finisce per restare un cumulo meccanico con vita a sé, destinato a continuare la sua rotta in un viaggio alla deriva che prosegue incurante di ogni altra incognita.
Affascinante e claustrofobico, scalfito da un costante rumore pesante di motori ed ingranaggi, è il viaggio ipnotico in un inferno senza meta ma con una sua logica precisa, forse molto poco umana o terrena.
VOTO ***1/2
L'occasione di un omaggio del Festival al direttore della fotografia Alex Phillips, mi consente di vedere per la prima volta uno dei film meno conosciuti di Luis Bunuel: SALITA AL CIELO, piccola opera messicana del '52, girata con molta inventiva soprattutto per quel che attiene la scenografia, e pochissimi soldi. Storia d'un amore contrastato di due giovani umili sposini che non riescono a concludere la luna di miele sull'isola caraibica destinata alle giovani coppie, a causa del peggioramento delle condizioni di salute dell'anziana madre del ragazzo.
Egli dovrà far ritorno all'isola della morente per difendere il patrimonio della genitrice dalle tentacolari mani dei due fratelli, già desiderosi di spartirsi il piccolo patrimonio a danno del terzo figlio, il più giovane ed onesto.
Il film si concentra nel pericoloso ed avventuroso viaggio in pullman che lo sposo deve intraprendere per far autenticare il testamento della madre, l'unico vero e giusto. Il tortuoso e tormentato spostamento costituirà una vera e propria prova di forza e morale da parte del ragazzo, tentato da interessi materiali e dalla sessualità prorompente di una ex fiamma, ma rigoroso a resistere per non compromettere il patto che lo lega alla donna prescelta. Un film riuscito e ricco di sorprese, avventure e idee per rendere più visivamente emozionate l'avventura mozzafiato costituita dal sentiero che il vecchio autobus deve percorrere per arrivare in città, tra dirupi da vertigine, frane e fiumi da guadare; interessante sia la scenografia, in parte di stampo teatrale, efficace e suggestiva, e le situazioni oniriche che alludono alla tentazione, preparazione del Bunuel maturo che seguirà nei decenni successivi-
VOTO ****
Restando in ambito di cinema del passato e di omaggi, o meglio in questo caso di retrospettive, quella dedicata al gran regista Sam Peckimpah inizia in questi giorni con il film che lo stesso regista non poté girare in quanto licenziato in tronco dopo solo una settimana di riprese a causa di grossi diverbi con la produzione: circostanza questa, che rese difficoltose molte altre avventure cinematografiche del regista, definito da tutti un uomo difficile da seguire e impossibile da tenere a bada da parte dei finanziatori. Si tratta di CINCINNATI KID, film notissimo e cult soprattutto da parte degli appassionati di poker.
Ciò nonostante, tenuto anche conto del fatto che il sostituto Jewison non è proprio un mestierante senza carattere, il film è davvero un riuscito mix di tensione e glamour, grazie ad un cast da sogno che, ancora a rivederlo oggi, risulta come l'immedesimazione del divismo e l'importanza del saper bucare lo schermo con le proprie fattezze: Steve McQueel, il Cincinnati sbruffone ed abile giocatore del titolo, è in forma smagliante, sexy ed ironico quanto basta per far impazzire i suoi fans e ha davanti quasi un ventennio di divismo assoluto; il suo illustre rivale Edward G. Robinson è un cattivo di classe apprezzabile e nemmeno troppo cattivo, anzi di estrema eleganza; in aggiunta al bel volto intenso di Carl Malden, essi costituiscono un terzetto attoriale da brivido, mentre le tre stelle femminili Margret, Weld e Blondell fanno dello charme la loro arma da combattimento più efficace.
VOTO ***1/2
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